«La guerra non è mai una risposta alla violenza»
Francesca Albanese, relatrice speciale Onu per i territori occupati, denuncia la cecità dell'Occidente di fronte alla violazione dell'umanità di Gaza
«Il mio timore è che non si possano contare gli anni che serviranno per ricucire tutto il dolore, per colmare il vuoto siderale, l’abisso che si è creato tra palestinesi e israeliani». Francesca Albanese, dal primo maggio 2022 relatrice speciale delle Nazioni unite sui territori palestinesi occupati, esprime un giudizio molto negativo su Europa e Stati uniti nella crisi mediorientale: «L’Occidente ha dato carta bianca a Israele per compiere questo massacro».
Quante generazioni ci vorranno prima che l’odio cresciuto in questo mese e mezzo si esaurisca?
Il problema non è solo la distruzione di Gaza, ma anche il grido che l’ha accompagnata da parte di Israele, che purtroppo tutti i palestinesi hanno sentito. Non è solo la scelta folle e distruttiva del governo e del suo gabinetto di guerra, ma è tutta la gente che ha chiesto di cancellare Gaza dalla faccia della terra, incolpando bambini… rendiamoci conto che il 50% della popolazione a Gaza non ha nemmeno 18 anni, il quaranta per cento della popolazione a Gaza non ha nemmeno 15 anni. Anche se si potesse ritenere responsabile una popolazione che è stata tenuta sotto assedio e comunque forzata a vivere sotto il controllo di Hamas… sono le condizioni che Israele stessa ha creato: come si fa a incolpare una popolazione la metà della quale non ha nemmeno votato per Hamas? Ricordiamoci che durante la «primavera araba» i giovani palestinesi hanno cercato di ribellarsi, di cambiare lo stato di cose per avere un sistema democratico a Gaza. Erano gli anni in cui Vittorio Arrigoni era a Gaza. Purtroppo quel movimento e quelle istanze umanitarie sono stati soffocati, come vengono soffocati i diritti umani per i palestinesi tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo.
Qualsiasi pace verrà in futuro Gaza è distrutta, il prezzo in vite umane della guerra di Israele elevatissimo: era questa la risposta giusta al brutale attacco del 7 ottobre?
La guerra non è mai una risposta alla violenza. Ma non c’era neppure una legittimità perché, rispettando il diritto sacrosanto di Israele di proteggersi, di proteggere il proprio territorio e i propri cittadini, non c’era legittimità di condurre una guerra contro la popolazione che Israele mantiene sotto occupazione belligerante da cinquantasei anni. Perché Gaza è ancora occupata, benché questa cosa fatichi a essere capita in Italia: da Gaza i palestinesi non possono uscire e Israele controlla acqua e luce. Adesso Gaza è distrutta e si capiva fin dai primi giorni dell’operazione militare che sarebbe successo: Netanyahu disse che ci sarebbe stata una risposta che avrebbe cambiato la faccia del Medio Oriente per generazioni. Lo sta facendo, lo ha fatto. Il rischio è un’altra Nakba, un altro sfollamento forzato dei palestinesi, non si sa dove e come. È chiaro che ci vorranno anni per ricostruire Gaza. E mentre parliamo – prima e dopo la tregua – Israele continua a bombardare queste persone: ho visto le foto delle scuole di Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, bombardate, degli ospedali bombardati e assediati, di palestinesi catturati e tenuti prigionieri nelle scuole di Unrwa. Sono cose violentissime e le immagini di Gaza trasfigurata continueranno a riecheggiare per anni mostrando quanta disumanità c’è stata non solo da parte dell’esercito israeliano, ma di chi questa guerra non ha voluto fermarla.
La comunità internazionale, l’Occidente, per lei sono stati a guardare?
Sì, sono stati a guardare. Larga parte del mondo arabo è stata a guardare. L’Occidente ha fatto di peggio, ha quasi dato carta bianca; si è stretto in una morsa di cordoglio che è comprensibile dal punto di vista umano nelle prime ore dopo l’attacco inferto da Hamas a civili israeliani; però, sostenere la legittimità di questo attacco è una responsabilità gravissima per l’Occidente. Non mi rendo conto ancora se i leader occidentali stanno prendendo coscienza di quel che hanno fatto; osservo che i presidenti Macron e Trudeau, di Francia e Canada, hanno cambiato il tono dell’impegno nei confronti di Israele, ma la maggior parte dei paesi occidentali continua a faticare nell’usare parole di ferma condanna nei confronti della ferocia di queste operazioni militari: basta parlare con gli operatori delle Nazioni Unite a Gaza… sono sconvolti, non hanno mai visto questa furia nonostante ci siano già state cinque guerre violente contro la popolazione sotto assedio di Gaza. Si è andati oltre ed è disumano che i leader occidentali non si sveglino da questa paralisi della ragione.
Come risponde alle accuse di antisemitismo che le vengono rivolte da quando ha assunto l’incarico dell’Onu?
Le accuse rivolte verso di me, non sono diverse da quelle rivolte prima di me ad esempio al professor Richard Anderson Falk – docente emerito di diritto internazionale a Princeton e presidente della Euro-mediterranean human rights monitor – egli stesso ebreo e accusato di avere posizioni antisemite. Perché oggi più che mai si vede quanto queste accuse siano spurie e prive di fondamento. Chi si occupa di diritti umani in Palestina e Israele sa bene che queste accuse vengono avanzate per deflettere l’attenzione dall’analisi critica della condotta e delle politiche d’Israele. Oggi più che mai si vede come sia necessario applicare un quadro normativo chiaro, tanto per prevenire, quanto per rimediare, ai crimini e agli orrori. Le accuse di antisemitismo continueranno a piovere su tutte le persone di buona coscienza che hanno veramente a cuore il futuro sia dei palestinesi sia degli israeliani. Ma soprattutto è impossibile e inaccettabile che si creda che uno Stato possa essere al di sopra del giudizio e dello scrutinio, ai sensi della legge internazionale, semplicemente perché si proclama lo Stato degli ebrei: questo mette in pericolo gli ebrei stessi che in questo momento vanno tutelati e protetti.
Nel 1985 dai banchi del governo un presidente del Consiglio italiano, il socialista Bettino Craxi, pur non condividendola legittimava la lotta armata palestinese. Il celebre discorso fu pronunciato alla Camera dopo i fatti dell’Achille Lauro e di Sigonella. Cosa è cambiato da allora?
Sono cambiate tante cose. C’è stato il processo di Oslo che ha dato l’illusione che la questione palestinese fosse in via di risoluzione, che i palestinesi avrebbero avuto il loro Stato indipendente e sovrano. Mentre a trent’anni di distanza ci si rende conto che Oslo ha avuto successo solo nel creare quel che gli israeliani hanno sempre voluto: concedere al massimo autonomia municipale ai palestinesi, perché questo è quanto l’Autorità palestinese fa, peraltro con grande frammentazione del territorio occupato tra Gerusalemme, completamente e illegalmente annessa a Israele, Gaza sotto assedio e bombardata e la Cisgiordania stretta in una morsa di violenza anch’essa: l’Autorità palestinese non ha i poteri ed è paralizzata sul versante della protezione dei palestinesi. C’è un cambio di attitudine del «pubblico», che è stato diseducato a parlare di Palestina. Si vede la mancanza di capacità intellettuale del nostro paese: i talk show sono pieni di persone poco informate sui fatti, sulla storia, che offrono le loro opinioni personali prive di fondamento e di contesto. Ed è cambiato anche il contesto internazionale: non si è più nell’era delle decolonizzazioni di trenta, quarant’anni fa, in cui la resistenza all’oppressione veniva capita per quello che era: parte naturale di un processo di decolonizzazione, appunto. Adesso siamo ancora in fase di post-11 settembre e l’insorgere, l’opporsi all’oppressore, non è contemplato. E non parlo di Hamas, quello che ha fatto Hamas il 7 ottobre è criminale e non va giustificato, va condannato: anche la resistenza, se quella si può chiamare resistenza, va attuata nel rispetto del diritto internazionale e la vita dei civili va rispettata prima di tutto. Però, le istanze del popolo palestinese vengono confuse con le accuse che Israele muove ai palestinesi di terrorismo. Il popolo palestinese non viene presentato come un popolo che ha diritto a libertà, dignità e uguaglianza di diritti come gli israeliani, ma viene approcciato come un popolo di facinorosi che non si adeguano alle circostanze e sono incapaci di fare la pace: un grande fraintendimento dei fatti e della Storia, ma è la realtà in cui viviamo oggi.
Ma l’Italia rimane una «media potenza»? Come giudica il ruolo dell’Italia in Medio Oriente? Intanto, ha un ruolo? Un’autonomia? Una politica che non sia quella di Washington?
Siamo totalmente irrilevanti nel contesto internazionale. Neanche ci sentono. L’Italia è una sorta di echo chamber della politica statunitense. Una situazione di vassallaggio intellettuale che non ha una politica autonoma, rigorosa, coerente con gli obblighi internazionali e costituzionali del nostro paese e con la tradizione diplomatica italiana improntata al rispetto del diritto internazionale e dei principi di base dell’uguaglianza, della libertà e della sovranità di tutti i popoli riconosciuti dall’Assemblea delle Nazioni Unite, compreso quello palestinese.
Ci sono momenti in cui il suo incarico alle Nazioni Unite rappresenta un peso? Momenti in cui vorrebbe mollare?
No, non ci sono momenti in cui vorrei mollare. Però, è molto doloroso dover commentare questo eccidio. Era difficile prima il mio lavoro, adesso una parte di me è totalmente desensibilizzata, perché è l’unico modo per continuare. Però la morte di cinquemila bambini mi rimbomba dentro, quindi il dolore delle madri israeliane che hanno i bambini sotto i tunnel in una zona bombardata o delle madri dei bambini palestinesi che sono morti o che moriranno sotto le macerie… questo fa veramente male, un’umanità ferita che ci portiamo dentro. Ma non è abbastanza per mollare, è molto per continuare.
Pensa che ci sarà una pace e una convivenza possibile dopo questa ennesima carneficina o le possibilità di realizzare uno Stato di Palestina accanto a Israele sono definitivamente tramontate?
Credo che la convivenza sia sempre possibile e una cosa perseguibile ma servirà tanto sforzo e tanto sostegno a questi due popoli arrivati adesso a un momento di rottura mai così profondo. Ma in questo momento di grande sconforto ci sono delle cose che mi danno speranza. In queste ore tanti israeliani, seppur minoranza, chiedono il cessate il fuoco e il rispetto della vita dei civili di Gaza. Ci sono familiari delle vittime del 7 ottobre che ricordano come il messaggio dei propri cari sia il rispetto della vita dei palestinesi, sempre oppressa e violata dall’occupazione israeliana e dall’apartheid. Ci sono palestinesi con cittadinanza israeliana e israeliani ebrei in Israele che si stanno impegnando per continuare a coltivare una base comune ed è dal loro lavoro che bisogna ripartire. Ci sono tanti ebrei in giro per il mondo, dall’Australia e Nuova Zelanda, agli Stati uniti, al Canada, all’Europa, schierati fermamente e fin dall’inizio mettendo il proprio corpo in prima linea impegnato nel grido «non nel mio nome». Ma ci vorranno molti anni, perché gran parte della società israeliana appare completamente abbandonata al grido genocidario nei confronti della popolazione di Gaza: sono animali, terroristi, sterminiamoli tutti – non sono cose che hanno detto solo i leader politici e militari, ma anche organizzazioni professionali, di medici, artisti –, un messaggio che viene rilanciato gravemente da diverse parti israeliane.
Ma la soluzione è ancora davvero quella dei due Stati?
Innanzitutto il cessate il fuoco e aiuti immediatamente verso Gaza e incondizionati. Perché c’è confusione tra piano politico e umanitario, col consigliere nominato dagli Usa per la crisi umanitaria che continua a giocare un ruolo disastroso dal punto di vista politico, perché sostiene che l’aiuto umanitario deve essere condizionato dal rilascio degli ostaggi: ma stiamo scherzando? È una cosa inaudita e inudibile. È fondamentale riparare e curare le ferite aperte adesso, una soluzione immediata per la gente di Gaza, senzatetto, con i morti sotto le macerie, gli orfani che non si contano nemmeno… poi serve una presenza di protezione nel territorio palestinese occupato, perché anche in Cisgiordania, lontano da Gaza, dove la presenza militare di Hamas non c’è, sono stati uccisi duecento palestinesi in quaranta giorni da coloni armati e dai soldati: una carneficina. Purtroppo in Italia alcuni non vogliono rendersene conto e non vogliono chiamare i crimini col loro nome. Ma la Storia ci giudicherà molto severamente per le morti che non abbiamo saputo prevenire. La questione della statalità, uno Stato, due Stati, non può esser decisa adesso. Sebbene la soluzione dei due Stati sembra quella più pratica e immediata, occorre che ci sia consenso non solo a livello teorico ma pratico: l’occupazione israeliana è incompatibile con uno Stato di Palestina indipendente. E non sta a Israele dire quali debbano essere le forze politiche che governino Gaza. Israele è sovrano sul suo territorio, quello dei confini del 1948, avrebbero dovuto essere quelli del ’47 che assegnavano allo Stato di Palestina il 45% della terra, mentre Israele ha annesso e conquistato molto di più di ciò che le Nazioni Unite gli avevano attribuito. Rimane il 22% della Palestina storica per uno Stato palestinese, ma bisogna impegnarsi perché questo si realizzi.
Dal 28 novembre è in libreria con J’accuse. Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l’apartheid in Palestina e la guerra, edito da Fuori Scena.
Ne ho sentito l’esigenza perché il racconto dei media tradizionali è tossico in Occidente, in Italia c’è molta disinformazione, poca attenzione ai fatti, molta alle opinioni con questa ricerca spasmodica del bipartisan per cui il giornalismo italiano funziona con l’avere in studio due ospiti che dicono la cosa opposta. Ma i giornalisti dovrebbero verificare i fatti in prima persona e questo non succede. Un mondo dell’informazione tossico dominato da sedicenti giornalisti che sembrano avere un’agenda politica più che una deontologia professionale. Ed è anche per questo che insieme a Christian Elia, un bravissimo giornalista italiano, ho accettato l’idea di scrivere un libro per Fuori Scena dell’editore Solferino che ha deciso di darmi voce: si parla di terrorismo, di Hamas, di stato della terra, quali sono i diritti applicabili e violati della relazione tra israeliani e palestinesi. Spero che il libro possa far discutere.
*Giampiero Calapà, giornalista, al Fatto Quotidiano dal 2009, è dottorando in Storia all’Università di Roma Tor Vergata. Il suo ultimo libro è Squarcio rosso. Berlinguer, Craxi e la sinistra in pezzi (Bordeaux edizioni, 2023). Francesca Albanese è giurista e docente, specializzata in diritto internazionale e diritti umani. Dal 2022 è relatrice speciale delle Nazioni unite sui territori palestinesi occupati.
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