
La memoria del corpo di Giulio
La vicenda Regeni è esemplare dell’evoluzione della lingua e delle prassi governative italiane. Ma il suo corpo, come quello dei rifugiati, parla ancora con forza
Oggi, 25 gennaio 2019, cade il terzo anniversario del rapimento di Giulio Regeni, dottorando di Cambridge torturato e ucciso al Cairo dalle forze di sicurezza egiziane.
Nell’ultimo anno è stata messa in scena la totale normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Italia e Egitto, attraverso una metamorfosi di presentabilità di al-Sisi nei rapporti con l’Italia che ha anche previsto un’operazione di pink-washing e di green-washing. Nei primi tre mesi di governo, Luigi Di Maio, Matteo Salvini e il ministero degli esteri Enzo Moavero Milanesi sono stati in pellegrinaggio in Egitto. Il garante dei detenuti ha segnalato un boom anomalo di rimpatri forzati verso il Cairo di persone “irregolari”. Gli interessi economici si sono mantenuti altissimi: quasi due miliardi di export (in lieve calo) e un miliardo e mezzo di import (in leggera crescita). L’Italia ha continuato a vendere armi all’Egitto. Le indagini hanno portato alla consegna dei filmati delle telecamere della metropolitana (il 5% del girato del 25 gennaio 2016, poi rivelatosi inutilizzabile) e all’iscrizione sul registro degli indagati della Procura di Roma di cinque agenti dei servizi segreti egiziani. Nel frattempo, nelle carceri di al-Sisi – rieletto con consultazioni-farsa nel marzo 2018 – sono rinchiuse decine di migliaia di persone, tra le quali Ibrahim Metwally, legale egiziano della famiglia Regeni.
Il governo del cambiamento non cambia nulla
Come (se non più di) altri argomenti (come la Tap, l’Ilva, gli F-35), la vicenda Regeni può essere presa a esempio dell’evoluzione della lingua e delle prassi governative italiane, a dimostrare che su molte questioni né le seconde (come a questo punto dovrebbe essere chiaro) né la prima (cosa che invece potrebbe sorprenderci) sono cambiate di molto, prima e dopo il 4 marzo.
Le coordinate del «discorso istituzionale sul caso Regeni» sono state stabilite già nei primissimi interventi pubblici di esponenti dell’allora Governo Renzi; lo schema prevedeva: 1. dichiarare la necessità della verità; 2. fare una generica richiesta di collaborazione all’Egitto (sempre «alleato» e «amico»); 3. ribadire gli interessi italiani al Cairo (politici, contro Daesh e migrazioni, ed economici). A cambiare, semmai, è stato il bilanciamento reciproco tra i vari punti, a seconda di chi parla e dell’occasione. A un mese dalla morte di Regeni, l’allora premier Renzi – primo leader europeo a portare omaggio ad al-Sisi al Cairo e ad accoglierlo in Europa – dichiarava: «proprio perché siamo amici, noi dagli amici pretendiamo soltanto la verità» (in una crasi dei punti 1 e 2) e insieme «ritengo assolutamente strategica la leadership egiziana per contrastare l’Isis» (3). La linea dura del governo Pd – confortante per la famiglia e l’opinione pubblica – venne affidata al ministro degli Esteri Gentiloni, che richiamò dal Cairo l’ambasciatore e che tuttavia – una volta promosso a Presidente del Consiglio – si affrettò a rispedirne un altro, con una decisione presa infelicemente alla vigilia del Ferragosto 2017, quarto anniversario del massacro di Piazza Rabi’a al-‘Adawiyya voluto da al-Sisi: questa scelta, insieme alle continue rassicurazioni sulla ricerca della verità a fronte del progressivo allontanamento nella prassi da qualsiasi azione concreta in quella direzione, aveva infine portato all’implosione dell’atteggiamento filo-istituzionale della famiglia Regeni.
Nell’allora opposizione, da subito, il M5S assunse una posizione attiva nella campagna per la verità, sia perché la biografia di Regeni permetteva di annoverarlo facilmente come «cittadino» sia – una volta che il comportamento di Pd e del suo alleato di governo Ncd si fece chiaro – in funzione antigovernativa. L’atteggiamento del M5S sul tema è sempre stato proteiforme, cedendo da un lato alle retoriche di destra (paragoni con i marò, appelli alla dignità nazionale, riferimenti all’ingenuità del lavoro di Regeni) – pur senza cadere nell’insidia della diffamazione – e insieme focalizzandosi sugli interessi e le responsabilità dei governi al fine di presentarsene immune («Le vostre mani sono sporche di sangue e di petrolio, le nostre sono bianche», accusava il deputato Stefano Lucini nel 2016). A farsi portavoce del MoVimento sul caso fu da subito Alessandro Di Battista: a novembre 2016, si indignava per «la farsa dell’Egitto nel Consiglio dei diritti umani» dell’Onu («Ma cosa è diventata l’Italia, lo scendiletto di tutti i paesi del mondo?»); ad agosto 2017, all’indomani del rientro dell’ambasciatore, non aveva dubbi «che Renzi, Gentiloni, Minniti e Alfano fossero dei traditori della Patria»; il mese successivo, scriveva al presidente del Consiglio Gentiloni, insinuando che Giulio Regeni – come già Enrico Mattei – fosse stato ucciso «per colpire gli interessi italiani». In questa legislatura, absente Di Battista, l’onere è stato assunto dal presidente della Camera Roberto Fico, che già in altre occasioni aveva assunto il ruolo di lavandaio dei panni sporchi di Stato. Fico si mostra accogliente con i genitori di Regeni – che riceve alla Camera – e rompe i rapporti della Camera con il parlamento egiziano, scelta che viene emulata dagli eurodeputati del M5S Ignazio Corrao e Fabio Massimo Castaldo che sono relatori per la risoluzione che chiede la sospensione delle relazioni diplomatiche tra l’Europarlamento e denuncia le violazioni dei diritti umani in atto in Egitto.
Lo schema del bastone e la carota – in cui Fico sarebbe la nuova (ipocrita) carota per l’«ala di sinistra» del M5S – tende inesorabilmente a pendere verso il primo elemento. Alla sua prima missione estera come ministro dello sviluppo economico, Luigi Di Maio ripeteva ai giornali che al-Sisi gli aveva detto: «Giulio Regeni era uno di noi», senza accorgersi che al-Sisi si stava appropriando, storpiandolo, di quello slogan che gli oppositori di al-Sisi stesso, dalle carceri e sui muri, avevano dedicato a Giulio, ucciso come un egiziano.
«Prima gli italiani… ma Giulio?» chiedeva il cartello esposto da alcuni attivisti di Amnesty International a un comizio di Salvini a Ivrea, prima che venisse loro sequestrato, mentre la polizia procedeva alla schedatura. La Lega, insieme alle altre forze politiche di destra, dopo un primissimo moto di orgoglio nazionale ha mantenuto un atteggiamento sospettoso («non vorremmo poi essere costretti a togliere qualche lapide») e incline al complottismo: Regeni era, alternativamente, o una spia britannica o una vittima dei servizi inglesi. Quando il coinvolgimento dei servizi segreti egiziani divenne troppo assodato per proporre ipotesi alternative, la posizione si assestò su una generica gerarchia delle priorità, dove prima di ogni cosa veniva la rinormalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’Egitto. A questo interesse politico si accompagna uno slittamento retorico del caso Regeni in una «questione familiare» («Io comprendo bene la richiesta della famiglia di Giulio Regeni, ma per noi, per l’Italia, è fondamentale avere relazioni con un Paese importante come l’Egitto» ha dichiarato Salvini al Corriere della Sera). La privatizzazione forzata di una vicenda che si è sviluppata pubblicamente è un chiaro tentativo di de–politicizzazione ma anche – insieme – un superamento dello iato tra le dichiarazioni e le intenzioni: finalmente, anche le parole possono essere oscene.
Queste due forze politiche – con posizioni distanti anche sul caso Regeni – si sono trovate insieme al governo del Paese, dove si sono congiuntamente disinteressate della sua evoluzione. Un tale scenario non è soltanto la conseguenza del sommarsi di inerzia a inerzia, ma anche l’esito di una situazione geopolitica che, pur con superficiali alterazioni, si presenta largamente immutata. Il mantenimento di rapporti positivi con il regime autoritario egiziano è imposto dall’influenza esercitata da al-Sisi sulla Libia, in particolare sui settori di territorio controllati dal generale Haftar, che ha per comandante uno sul quale pende un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e che è stato comunque considerato un alleato chiave da esecutivi italiani di diverso colore politico, fino all’invito all’incontro di Palermo, teatro della stretta di mano tra Haftar e Serraj (capo del governo fantoccio di Tripoli, del quale l’Italia è il primo sponsor), alla presenza di un benedicente al-Sisi. A questo si aggiunge il crescente protagonismo del dittatore egiziano in materia di contrasto all’immigrazione “clandestina” verso l’Europa.
In tal senso, il governo Lega-M5S si pone in continuità con l’opera promossa dal ministro dell’Interno Minniti per tutto il 2017 e ben documentata da Stefano Catone e Andrea Maestri: dalla “diplomazia del deserto” con le milizie libiche alla fornitura di strumenti alla corrotta Guardia costiera locale per compiere operazioni di blocco dei flussi migratori, passando per la questione della “chiusura dei porti” – meramente ventilata da Minniti, imbracciata da Salvini come slogan anti-immigrati, ma rivelatasi di fatto solo un (potente) strumento propagandistico. La strategia è sostanzialmente la medesima: esternalizzare alle fazioni libiche la repressione dei migranti diretti verso le coste italiane e pertanto mantenere buoni rapporti con il loro alleato al Cairo, senza contrariarlo spingendo per l’individuazione delle responsabilità nell’assassinio di Regeni.
Tuttavia, osservando più in profondità, questi tre anni presentano anche novità e rotture con il passato. Nel 2016, l’assenza dell’ordinamento italiano del reato di tortura era una nota stonata di fronte alle sia pur timide richieste che l’Italia rivolgeva all’Egitto: anche se i responsabili della sorte del ricercatore fossero stati tradotti davanti a un tribunale italiano, infatti, sarebbe stato impossibile condannarli per tortura; da poco più di un anno, invece, l’Italia si è dotata di una legge in materia (l. 110/2017). Come è stato dimostrato da Stefania Amato e Michele Passione, la legge presenta però una serie di limiti profondi: qualifica la tortura non come crimine del pubblico ufficiale, ma in quanto reato generico; rende difficilmente punibili comportamenti omissivi (come la privazione di cibo o acqua); non prevede indennizzi a favore delle vittime; pone l’accento su condotte reiterate, invece che su violenze singole. Tuttavia, in questo contesto il problema più grave del provvedimento è che, come sostenuto da Roberto Settembre, si colloca in una cornice che rende difficilmente perseguibile il ricorso alla tortura da parte di coloro che gestiscono per conto nostro i flussi migratori in luoghi come la Libia o il Sudan – l’Italia, in altre parole, offrirebbe una “delega di tortura” a Stati terzi nel momento stesso in cui si dota di una norma interna contro di essa. Del resto, sono ormai irrefutabili le notizie di gravissime violazioni dei diritti umani che hanno luogo nei centri di detenzione per migranti gestiti dalle autorità libiche: alle documentate denunce di Ong come Medici per i diritti e umani e Amnesty International, oltre che delle Nazioni Unite, si è aggiunta una storica sentenza con cui la Corte d’Assise di Milano ha condannato un cittadino somalo per le violenze da lui inflitte alle persone rinchiuse nel campo libico di Bani Walid.
Qui come altrove, il governo insediatosi lo scorso anno ha radicalizzato la linea dei propri predecessori: così la visita di qualche mese fa di Salvini a un campo di detenzione libico non ancora aperto («Ho chiesto di visitare un centro di accoglienza per migranti in costruzione, un centro all’avanguardia che potrà ospitare mille persone. Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani») ricorda un ampio catalogo di escursioni-farsa in località create dal nulla per gli ospiti stranieri, mentre il ddl sicurezza e immigrazione approvato in novembre inasprisce ancora di più l’approccio già repressivo dei precedenti provvedimenti promossi dagli allora ministri Minniti e Orlando.
L’amnesia collettiva
Sembra non esserci nessuno spazio, in un’agenda politica del genere, per una seria richiesta di verità e giustizia per Regeni, e anzi l’attuale maggioranza può scontare un prezzo politico minore per il proprio immobilismo rispetto alle precedenti: una retorica trucemente securitaria e nazionalista, ostile all’europeismo e al cosmopolitismo in qualunque loro declinazione e sempre più incline a considerare i diritti come degli orpelli persino all’interno dei confini nazionali, non potrebbe essere più aliena da una figura come quella del ricercatore friulano. Non occorre quindi neppure più adoperarsi per “addomesticare” la memoria di Regeni, astraendola dalle intese indicibili strette negli ultimi anni con Stati come l’Egitto e la Libia e dalle violenze continuamente perpetrate in quei luoghi, alla maniera dell’ex ministro Alfano: il silenzio e l’inazione sono sufficienti per un elettorato che ha altre priorità. Occorre interrogarsi, allora, sul significato e sulla possibilità di una memoria che, a tre anni di distanza, non si riduca a mera commemorazione per la comunità col braccialetto giallo, ma continui a essere politicamente radicale.
Fino all’anno scorso, pareva che l’attivazione del ricordo di Giulio Regeni potesse svolgere una funzione esemplare per la sorte simile (e largamente sconosciuta all’opinione pubblica occidentale) di migliaia di egiziane ed egiziani che hanno pagato con la privazione della libertà o con la morte la propria opposizione al regime di al-Sisi. La richiesta di giustizia per un europeo ucciso come un egiziano avrebbe in tal modo illuminato il contesto nel quale il suo stesso omicidio ha potuto avere luogo, rendendo intelligibili i pericoli e le violenze cui sono sottoposti gli attivisti egiziani e smantellando definitivamente le ricostruzioni, a un tempo assurde e offensive, che avrebbero voluto fare della morte di Regeni un evento spiegabile nella sua singolarità, riducendolo ad esempio nel contesto romanzesco dello spionaggio. Questa dinamica ci pare oggi, nell’attuale situazione politica italiana, di fronte a un completo rovesciamento: non assistiamo più a un supplemento di attenzione per la situazione dei diritti umani in Egitto sulla scia dell’orrenda morte di un connazionale, ma una obliterazione di quest’ultima in coerenza con il disinteresse che investe le vite (e le morti) di quanti si trovano al di fuori dei nostri confini. In un frangente in cui la retoriche razziste ed esterofobe sono in forte ascesa e ormai pienamente integrate nel mainstream, Regeni rischia di diventare qualcuno che “se l’è andata a cercare” perché ha avuto l’ardire di attraversare le frontiere (geografiche e non solo) per conoscere e indagare la realtà sociale egiziana – un intellettuale di sinistra mosso da nobili ideali ma in ultima analisi, come recita un’accusa vecchia quanto il mondo, incapace di “salvare sé stesso”, proprio come nella stomachevole descrizione gramelliniana della scelta di vita di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya negli scorsi mesi. Giulio Regeni non può e non deve interessarci, dunque, perché la sua fine ci ricorda troppo bene migliaia di altre che abbiamo deciso di non vedere – ancora una volta Lega e M5S portano tragicamente a compimento quanto scrivevamo a proposito dei rischi della politica estera del Partito Democratico: «L’ottenimento della verità per il ricercatore, della possibilità di dare al suo ricordo quella compiutezza che va di pari passo con la giustizia, sono barattati per la facoltà di realizzare un’opera di amnesia collettiva su vasta scala rispetto alle vite sconvolte o perse nel Mediterraneo o alla periferia dell’impero».
Ripartire dal corpo
Se tuttavia scegliamo di non rassegnarci al profilo orripilante del presente andrà individuata, anche in un panorama sempre più ostile, una modalità di resistenza che ci consenta di tenere viva la memoria, di non chiudere gli occhi sul mondo. Sarà forse il caso di ripartire, allora, dal grado zero della politica – vale a dire dal corpo. Si parla molto, negli ultimi giorni, del corpo del quattordicenne proveniente dal Mali ritrovato a bordo di un relitto naufragato non molto lontano dalle nostre coste, il 18 aprile 2015. Come raccontato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, il giovane aveva cucito nella giacca una copia della propria pagella – una sorta di biglietto da visita per un’esistenza migliore che non sarebbe mai iniziata. Un cadavere commuove, ammutolisce, pungola il senso di colpa, ma in modo perverso può anche finire per rassicurare, perché non ci interroga direttamente e alimenta l’illusione che contro l’orrore dell’ingiustizia si possano invocare soluzioni pre-politiche, facendo appello magari a una qualche nozione di “umanità”. Se c’è una cosa che la condizione politica odierna ci insegna è che persino l’idea più basilare di umanità è profondamente politica, e che più nulla può essere dato per scontato in un paese nel quale la soglia di tolleranza etica avanza quotidianamente in territori non molto tempo fa considerati off limits. Da ultimo, all’ipocrisia nei confronti di Regeni cui ci avevano abituati i governi precedenti ha potuto fare seguito senza colpo ferire un’indifferenza che non sente nemmeno più lo scrupolo di travestirsi da qualcos’altro.
Per non rimanere impantanati in questa congiuntura occorrerà allora prestare attenzione ai corpi, al loro vissuto di sofferenze, senza fermarsi al livello epidermico della compassione per il tracciato delle loro cicatrici. Ci sono corpi che, a volerli ascoltare, parlano con forza – come quelli dei rifugiati somali che nelle aule della Corte d’Assise di Milano hanno sollevato le proprie maglie per mostrare ai giudici, al di là di ogni margine di fraintendimento verbale, quello che avevano subito in Libia. Altri corpi, come quelli del giovane maliano, non hanno più una voce: e dovremo allora chiederci, prima di ogni ridicolo orgoglio per il lavoro di identificazione di queste salme che oggi viene giustamente eseguito, chi, lasciandoli morire, abbia tolto loro la parola. Grida ancora – non vendetta, ma giustizia – il corpo di Giulio Regeni sul quale sua madre vide «tutto il male del mondo». È un male attuale, che non si arresta, e che siamo chiamati a re-imparare a conoscere, senza distogliere lo sguardo.
*Franco Palazzi è graduate student in filosofia presso la New School for Social Research di New York e fellow del Robert L. Heilbroner Center for Capitalism Studies. Michela Pusterla è dottoranda in italianistica all’Università di Trieste.
L’illustrazione è di Antonio Pronostico.
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