La memoria non può essere una clava
Chi equipara ebrei e nazisti legittima l’antisemitismo. Ma usare la Shoah per giustificare la guerra a Gaza è il modo peggiore per commemorare ciò che è avvenuto, dice Enzo Traverso
Il Giorno della Memoria si interseca inevitabilmente con quanto avviene a Gaza e in generale in Medio Oriente. Mai come quest’anno la sua celebrazione si colora di polemiche e contrasti nuovi, basti pensare a quelle in Italia sulle manifestazioni pro-palestinesi convocate per il 27 gennaio e di cui le comunità ebraiche hanno chiesto il divieto. Oppure il comunicato dell’Anpi, che considera «un errore gravissimo mettere sullo stesso piano la Shoah e altre, pur terrificanti vicende di oggi» e che è stato bersagliato da moltissime reazioni negative da sinistra sul profilo Instagram su cui è stato pubblicato. Materia complicata e infuocata, appunto, che ci ha indotto a sentire l’opinione di uno degli storici più apprezzati nel mondo della sinistra internazionale, Enzo Traverso, autore de La violenza nazista, La fine della modernità ebraica, Melanconia di sinistra fino al più recente Rivoluzione, 1789-1989: un’altra storia. Traverso insegna oggi alla Cornell University negli Stati uniti, facciamo con lui una lunga conversazione in collegamento video.
Il Giorno della Memoria si sovrappone quest’anno a quel che sta accadendo a Gaza in un contesto di comparazioni sempre più inedite e arbitrarie dal punto di vista storico. Ci sono infatti coloro che paragonano la Shoah a un «genocidio» dei palestinesi in corso e al contrario c’è chi tende a equiparare il nazismo alla mattanza del 7 ottobre. Come si può fare chiarezza e adottare un punto di vista coerente in questo contesto?
Il tema è delicato e pieno di tranelli. Bisogna fare molta attenzione a dove si mettono i piedi perché il rischio è di cadere in una trappola e suscitare in modo involontario dei malintesi o degli equivoci. La prima questione cui fare molta attenzione è quindi proprio il comparativismo che pure è parte integrante del laboratorio degli storici. In linea di principio la storia non si comprende senza comparare e sul piano storiografico il comparativismo serve per costruire le giuste analogie e soprattutto individuare le differenze. In questo caso sono soprattutto le differenze che emergono nettamente.
Ma c’è un altro tipo di comparativismo che mi lascia molto più perplesso ed è quello che reca con sé l’uso pubblico della memoria e l’uso pubblico del passato. In questo caso gli utilizzi non sono solo politici, ma spesso demagogici. Da un lato è evidente che definire il 7 ottobre come un attacco terroristico a vocazione genocida ha una connotazione politica, consentendo alla risposta israeliana di diventare immediatamente legittima. Dall’altro, dire che la guerra di Gaza è come l’Olocausto ha come conseguenza implicita sostenere che se l’Olocausto è il peggior crimine e gli ebrei fanno la stessa cosa vuol dire allora che non c’è differenza tra vittime e carnefici. Questi approcci vanno criticati. Non credo tuttavia si possa separare il Giorno della Memoria da quel che avviene a Gaza. Il Giorno della Memoria ha un senso se serve ad affermare che dopo l’Olocausto non possiamo più tollerare nessuna forma di esclusione, discriminazione e oppressione; quindi oggi significa anche manifestare per fermare la distruzione di Gaza e una guerra che sta prendendo dei tratti genocidi. La memoria è il frutto di un’interazione permanente tra passato e presente, non si può conservare in vitro come una reliquia. Se commemorare l’Olocausto significa ricordare il genocidio degli ebrei per separarlo da tutto quello che è avvenuto dopo, o peggio per giustificare la guerra a Gaza, credo sia il modo peggiore di commemorare l’Olocausto. Viviamo in un mondo in cui gli ebrei non sono più una minoranza oppressa e in cui, al contrario, stanno dilagando l’islamofobia e altre forme di razzismo; la memoria della Shoah serve ad agire in questo contesto. Ovviamente ciò significa anche prendere una serie di precauzioni, evitando l’equivoco dell’equiparazione tra ebrei e nazisti e tra vittime e carnefici altrimenti facciamo del Giorno della Memoria un pretesto per legittimare l’antisemitismo. Questo non è accettabile.
Cosa pensi del rischio di antisemitismo a sinistra? Ci sono molte accuse in questo senso, in Francia è montata una polemica molto dura nei confronti di Jean-Luc Melenchon e de La France Insoumise, ma anche in Italia ci sono questi attacchi e del resto in alcuni settori, molto marginali, un po’ di antisemitismo a sinistra, sull’onda di quanto Israele sta compiendo a Gaza, si percepisce.
Il rischio lo vedo e penso che l’antisemitismo vada combattuto senza esitazioni ogni volta che si manifesta. Ha conosciuto una recrudescenza dopo il 7 ottobre, ma sono anche convinto che l’antisemitismo come esiste oggi in Occidente sia un pregiudizio di natura diversa rispetto all’islamofobia, alla xenofobia e al razzismo che colpiscono in primo luogo i migranti e i profughi che arrivano dal sud del mondo e che sono percepiti come una minaccia nei confronti dell’Europa. La lotta contro l’antisemitismo è diventata sempre più una bandiera della destra e di tutti quei governi che acriticamente difendono Israele e la sua politica. Non c’è dubbio che uno dei compiti della sinistra sia quello di combattere l’antisemitismo, ma bisogna farlo prendendo atto di questo nuovo contesto, cogliendo le differenze con il passato. Il nuovo antisemitismo che si sta diffondendo e che alligna anche a sinistra è alimentato dalla politica israeliana e dalla legittimazione che trova in Occidente. C’è un antisemitismo che esiste da tempo, soprattutto nel mondo arabo, secondo il quale l’Olocausto sarebbe un «mito». Questa idea è diffusa al di là delle correnti negazioniste composte fortunatamente da sette insignificanti secondo cui le camere a gas non sarebbero mai esistite. L’idea consiste nel pensare che la memoria dell’Olocausto serva essenzialmente a favorire Israele e le élites ebraiche al potere. Questa è una forma diffusa di antisemitismo.
Ora, il fatto che Israele stia conducendo una guerra di distruzione a Gaza in nome della memoria dell’Olocausto rischia ovviamente di rafforzare questo pregiudizio. Ecco quindi che si è formato un antisemitismo organicamente legato alla crisi mediorientale e su cui bisogna fare chiarezza. Per questo dire che le due cose – memoria e fatti attuali – sono separate e non hanno niente a che vedere l’una con l’altra mi sembra fuorviante. Sono molto scettico su tutte le memorie istituzionalizzate, compresa la memoria delle rivoluzioni. Quando diventano memorie ufficiali, memorie di Stato celebrate attraverso liturgie istituzionali, rischiano di diventare distanti, asettiche, e perdere le loro virtù. L’antifascismo trasformato in memoria di Stato nei paesi del socialismo reale è diventato un’impostura. In Israele, la memoria dell’Olocausto sta conoscendo una traiettoria simile, e questo rischio si estende oggi al mondo occidentale nel suo insieme. In Italia c’è una certa ipocrisia nel commemorare l’Olocausto – Roma e Milano sono in competizione per ospitare il museo dell’Olocausto – ma nessuno si sognerebbe di creare un memoriale per ricordare le vittime del fascismo italiano in Africa o nei Balcani. La Germania ha costruito un memoriale dell’Olocausto nella capitale per ricordare i propri crimini: dovremmo fare lo stesso per ricordare i nostri crimini, che non si riducono alla complicità nell’Olocausto .
Hai già avuto modo di dire che il cambio di paradigma con cui Israele e il mondo ebraico si espongono al mondo è oggi molto significativo. Da un punto di riferimento cosmopolita e universalistico la cultura ebraica sembra presentarsi ormai come un’enclave sempre più isolata. È così? E la comunità ebraica internazionale, sempre che questa definizione possa essere adeguata, ti sembra del tutto compatta o ci sono dubbi in questa sua identificazione non più solo con Israele ma addirittura con il suo governo?
Non è possibile parlare di una comunità ebraica come entità monolitica. Su questo punto esistono molti malintesi. Del resto, sulla stampa occidentale si ha l’impressione che l’opinione pubblica internazionale sia schierata tutta con Israele, ma non è vero. La grande maggioranza del mondo è opposta a Israele e denuncia la guerra a Gaza, e neppure il mondo occidentale nel suo insieme è compatto in questo sostegno. Lo sono certamente i governi, l’Ue o l’amministrazione Biden. Ma nel mondo occidentale le opinioni pubbliche sono divise e così la diaspora ebraica. La stampa americana ha dedicato molto spazio ai conflitti nei campus universitari in cui si è manifestata un’evidente opposizione alla guerra e alla politica di Israele. Un movimento come Jewish Voice for Peace ha svolto un ruolo cruciale nelle manifestazioni di solidarietà con i palestinesi di Gaza. C’è una parte della diaspora che gioca un ruolo importante, negli Usa i più ferventi sostenitori di Israele non sono gli ebrei ma i conservatori protestanti fondamentalisti. In Francia la comunità ebraica è divisa. Il problema è Israele dove c’è sempre stata sempre una minoranza che criticava la colonizzazione della Cisgiordania o la segregazione di Gaza e auspicava il dialogo, ma questa minoranza oggi è del tutto emarginata. La società israeliana è ancora traumatizzata dal massacro del 7 ottobre ed è compatta nel sostegno alla guerra e al governo di Netanyahu nonostante serpeggino innumerevoli critiche. Il mondo ebraico è quindi diviso, esiste ancora una tradizione di sinistra universalista, che non è stata cancellata e che ha delle radici profonde nella cultura ebraica.
Resta il fatto che questa tradizione che ha dominato la diaspora ebraica fino alla Seconda guerra mondiale è diventata oggi minoritaria. Questa è una delle conseguenze dello spostamento dell’asse del mondo ebraico dall’Europa verso Israele e di un mutamento profondo avvenuto in seno alle culture conservatrici e alle strategie delle élites dominanti su scala globale. Il mutamento fondamentale avviene con la nascita dello stato di Israele quando nasce una nuova identità ebraica non più diasporica ma statuale e prende forma un dispositivo occidentale di egemonia e controllo del mondo che integra gli ebrei e non li vede più come dei nemici. Ho evocato questo spostamento dell’asse del mondo ebraico attraverso due figure simboliche: da una parte Trotzky, «ebreo non-ebreo», incarnazione della rivoluzione mondiale, e dall’altra Kissinger, ebreo tedesco arrivato negli Usa per sfuggire alle persecuzioni naziste che diventa lo stratega dell’imperialismo Usa. Si tratta ovviamente di simboli, di «immagini dialettiche» che aiutano a capire come si è trasformato il mondo ebraico. Ovviamente sono sempre esistiti degli ebrei conservatori e reazionari anche ai tempi di Trotzky, e rimangono ancora degli ebrei di sinistra all’epoca di Netanyahu. Direi anzi che sono numerosi, benché l’ebraismo si sia spostato a destra.
In questa analisi che ruolo gioca il sionismo? È un concetto ancora importante e ha un valore a tuo giudizio avere una posizione antisionista? E in che modo questa si articola politicamente?
A mio avviso, una sinistra coerente e legata a un progetto di emancipazione dovrebbe essere antisionista. Ma questa risposta richiede una spiegazione. Il sionismo è nato alla fine del XIX secolo, si è costituito come movimento politico e intellettuale negli anni tra le due guerre, un’epoca in cui coesistevano al suo interno correnti di sinistra radicale e correnti affascinate dal fascismo, soprattutto quello italiano prima del 1938. Il sionismo era una costellazione molto eterogenea di cui facevano parte correnti talvolta critiche del nazionalismo. Ad esempio Gershom Scholem, Yehuda Magnes, rettore dell’Università ebraica di Gerusalemme, Martin Buber e perfino Hannah Arendt (prima della nascita di Israele) erano sionisti, ma non erano favorevoli alla creazione di uno stato ebraico. Pensavamo piuttosto a un «focolare» nazionale ebraico in Palestina, non necessariamente statuale, la cui vocazione sarebbe stata quella di far vivere una comunità ebraica assieme ai popoli della regione in seno a uno Stato binazionale. Queste correnti sono state marginalizzate dalla corrente dominante, quella politica di Theodor Herzl, Max Nordau e altre figure fino a Ben Gurion, che è quella di un sionismo statalista, modellato sul paradigma dei nazionalismi europei dell’epoca. Un sionismo che voleva costruire uno stato ebraico in Palestina contro gli arabi, quindi non sottomettendo le popolazioni autoctone, ma espellendole. Questo è diventato il modello dominante del sionismo, codificato giuridicamente nel 2018. Questo sionismo è incompatibile con un’idea di sinistra, di emancipazione e di universalismo. Non possiamo rivendicare in Italia lo ius soli, la difesa delle pluralità e la convivenza delle diversità ed essere favorevoli al sionismo. Questo sionismo, fautore di uno stato etnico-religioso, è un’aberrazione del XXI secolo e a lunga scadenza rischia di trasformarsi nella condanna di Israele. Uno stato del genere non può sopravvivere in Medio Oriente. L’antisionismo non ha niente a che vedere con l’antisemitismo ed è perfettamente compatibile con una nazione israeliana che ha tutti i diritti di esistere in Palestina. Lo stato di Israele ha settant’anni di vita, ci sono generazioni nate in Israele, una comunità nazionale con una cultura e una lingua, una nazione giovane che ha tutti i diritti di esistere. Ma non come nazione dotata di uno stato etnico-religioso esclusivo e particolaristico.
Nella situazione che si è concretamente determinata, con le sue stratificazioni sociali e politiche e al di là della correttezza astratta di questa evocazione, la proposta politica dei «due stati due popoli» ha un’efficacia politica? E se non è così, quale può essere un’alternativa?
È chiaro che qualsiasi soluzione, sia essa lo stato binazionale o la proposta dei «due stati», compete a ebrei e palestinesi, è una scelta che possono adottare solo loro, non possiamo imporla dall’esterno. Come osservatore esterno e con tutti i limiti di questa condizione, vedo però oggi un’impasse insolubile perché la soluzione dei due Stati mi sembra oggettivamente improponibile. Una soluzione a due Stati potrebbe funzionare solo attraverso un processo di epurazioni etniche incrociate: cacciare dalla Cisgiordania 700 mila coloni ebrei, procedere poi a un’operazione etnica a Gerusalemme costruendo dei quartieri esclusivamente arabi o ebrei e così via. Mi sembra una soluzione assurda. La storia del Novecento dell’Europa centrale e dei Balcani ha insegnato che questa prospettiva si tradurrebbe in una tragedia. Vedo quindi in prospettiva solo uno stato binazionale in cui ebrei e arabi; ebrei, musulmani e cristiani possano coesistere in condizioni di uguaglianza. Oggi questa soluzione sembra del tutto improponibile in un conflitto sanguinoso che separa queste due comunità, ma se ragioniamo nel lungo termine non vedo altra soluzione. In una prospettiva non appiattita sul presente, quindi non contingente, è abbastanza chiaro che la soluzione a due Stati è proposta da chi vuol fermare Israele nell’immediato facendogli un simulacro di stato palestinese. E questa ipotesi è inaccettabile per i palestinesi.
In termini storico-politici, del resto, l’idea di costruire un’Europa con Italia, Germania e Francia riunite era del tutto improponibile nel 1945. Dieci anni più tardi inizia invece un processo di costruzione europea, su cui certo ci sarebbe molto da discutere, in cui però un’idea di guerra tra Germania, Italia o Francia è divenuta assurda. Non vedo perché questo non debba avvenire in Medio Oriente. La storia è fatta di pregiudizi che vengono superati e che retrospettivamente appaiono degli anacronismi assurdi. Talvolta le tragedie servono a superare i pregiudizi e ad aprire prospettive nuove.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme). Enzo Traverso insegna alla Cornell University. I suoi libri più recenti sono Rivoluzione (Feltrinelli, 2021) e La tirannide dell’io (Laterza, 2022).
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