La Netflix della cultura è una cagata pazzesca
La proposta del ministro Franceschini, in pratica l’ennesima piattaforma streaming, mira ai soldi del Recovery Fund. Cosa c’è dietro un misero immaginario che rincorre una multinazionale del settore e dimentica il ruolo della Rai?
La Netflix della cultura? Esiste già, si chiama RaiPlay. Se volessimo potremmo sintetizzare con una battuta la proposta che il ministro ai Beni e alle Attività Culturali Dario Franceschini continua a proporre da qualche mese. Lo hanno già fatto, tra gli altri, sia Fanpage che il Foglio. Dietro quella che vorrebbe essere un’accattivante formula si palesa innanzitutto un immaginario misero di inventiva, che necessita di far riferimento a una multinazionale Usa per spiegare come risollevare un settore cruciale come quello della cultura.
Mentre la più nota delle piattaforme streaming a dicembre prevede di superare i 200 milioni di abbonati in tutto il mondo – con un fatturato globale che al 30 settembre si attestava a 6,44 miliardi di dollari (+22,7% rispetto ai 5,25 miliardi del 2019) – le cifre che il ministero intende mettere in campo sono risibili. Appena 10 milioni di euro, con l’ausilio di Cassa Depositi e Prestiti. E, ovviamente, con la speranza di accaparrarsi i soldi più corposi del Recovery Fund, miraggio di tutti i ministeri e panacea di tutti i mali.
Ma in cosa consiste esattamente la soluzione immaginata da Franceschini? Lo ha riferito lo stesso ministro in un’audizione a luglio al Senato. Si tratterebbe di «una piattaforma per gli spettacoli che non potranno avere il pubblico in sala o che non avranno pubblico sufficiente in sala per avere redditività. D’altra parte, se hai una sala da 1.000 posti, ma puoi occuparne 150 per le misure di distanziamento, non riesci a reggere nel tuo bilancio. Si potrebbe allora prevedere la possibilità di vendere biglietti in modo che una parte segua il concerto piuttosto che lo spettacolo di prosa in sala, e l’altra possa comprare il biglietto online. Può darsi che questa modalità di integrazione continui anche dopo e che quindi un giorno sarà possibile vederci la Prima della Scala pagando il biglietto seduto in platea, quando saremo tornati alla normalità, mentre un’altra persona, magari da Catania, guarderà la Prima della Scala senza bisogno di andare fisicamente nel luogo in cui lo spettacolo viene messo in scena». Tutto qui? Qualcuno avrà fatto presente a Franceschini che già a maggio Rai5 aveva trasmesso per un mese un grande classico dell’opera al giorno?
Pare comunque evidente che per ciò che prospetta il ministro la Rai basta e avanza. Retorica vuole che si tratti della più grande azienda culturale italiana. Ma la Rai è stata, e dovrebbe essere, molto di più. Prima che venisse cannibalizzata dai partiti, prima della ben nota divisione a tre teste (Rai1 ai democristiani, Rai2 ai socialisti e Rai3 al Pci) e prima delle disastrose gestioni attuali capaci solo di accumulare debiti, la radiotelevisione di Stato non solo ha insegnato la lingua italiana a milioni di persone ma ha sperimentato e innovato. Persino in prima e seconda serata. Chi scrive ricorda ad esempio di aver imparato il linguaggio postmoderno con Blob, di aver assimilato una caustica rappresentazione della Sicilia con Cinico Tv e di aver appreso che l’avanguardia poteva essere divertente con Antonio Rezza a Fuori Orario. Oppure si pensi alle generazioni di autori satirici che hanno scoperto la stand-up comedy con i monologhi di Daniele Luttazzi su Satyricon: da Saverio Raimondo, ospite fisso da Gramellini e persino a Porta a Porta, a Edoardo Ferrario. Quest’ultimo propone, proprio su RaiPlay, un format in cui riesce ad affrontare temi come il cambiamento climatico e la sharing economy in maniera intelligente e divertente allo stesso tempo, perculando i talk show che la stessa Rai continua a propinare. Allo stesso modo valorizzare davvero lo sterminato e preziosissimo archivio del servizio pubblico radiotelevisivo, magari non solo in chiave nostalgica, resta fondamentale. Non è un caso che dopo la recente scomparsa di Gigi Proietti il miglior omaggio glielo abbia fatto proprio la Rai, e proprio su RaiPlay, trasmettendo in streaming i suoi spettacoli teatrali, le fiction e i film più noti. Più in generale il primo anno di bilancio di RaiPlay è positivo: da semplice archivio digitale, da mera riproposizione dei programmi del digitale, si sta trasformando in un produttore di contenuti. Forse, prima di pensare a nuove piattaforme, si potrebbe rafforzare e migliorare quelle che ci sono già.
Un altro caso molto interessante è quello di Open Ddb – Distribuzioni Dal Basso, la prima rete distributiva di produzioni indipendenti in Europa. «Dal 2013 – scrivono sul proprio sito – diffondiamo opere in Creative Commons, attraverso la distribuzione on-demand, eventi e proiezioni. Tutte le opere presenti nel portale rispondono all’esigenza di rendere accessibili, diffondere e sostenere cultura e informazione. Un nuovo modo di distribuire le opere creative sta crescendo». Da sette anni, insomma, Open Ddb fa quello che Franceschini prospetta come scenario. «La proposta di una Netflix della cultura mi sembra un atto di miopia, più che del singolo ministro di un’intera classe dirigente. In realtà le sfide sono altre» osserva Andrea Paco Mariani, regista tra gli altri di The harvest (che racconta del caporalato nell’agropontino), co-fondatore di Open Ddb e della casa di produzione indipendente Smk Factory. «Il 7 febbraio avevamo lanciato The milky way, film corale che racconta il tentativo dei migranti di lasciare l’Italia senza dover passare da Ventimiglia ma dalle Alpi al confine con la Francia. Un film che aveva già riempito le prime 5 sale e che poi abbiamo dovuto fermare a causa del Covid. Quindi abbiamo vissuto sulla nostra pelle la chiusura decisa dal governo. Allo stesso tempo, come creatori di un portale on demand che distribuisce opere indipendenti, abbiamo lanciato a marzo quello che abbiamo definito streaming di comunità, ovvero un’azione di solidarietà che per 64 giorni a partire dal 7 marzo ha reso visibili gratuitamente oltre 150 film. In generale la nostra piattaforma si regge sul principio del cosiddetto “caffè sospeso”, nel senso che si tratta di un sistema a pagamento e che però vuole sbriciolare l’idea di prezzo fisso, imposto dal mercato così come lo conosciamo oggi. Per cui c’è un prezzo consigliato, e poi lasciamo la possibilità di pagarla di più o di meno a seconda delle proprie disponibilità. Ed è un sistema molto virtuoso, perché garantisce l’accessibilità a chi non se la può permettere e allo stesso tempo, dati alla mano, quello che viene raccolto in termini di donazioni in media è più alto di quello che consigliamo».
Invece di rifarsi a modelli del genere, per rendere la cultura davvero accessibile a tutti, l’idea della Netflix della cultura sembra andare nella direzione opposta. Perché si ispira a un colosso che offre un ampio catalogo, quasi esclusivamente mainstream e che invece di valorizzare gli indipendenti preferisce avviare nuove produzioni. Alle proprie condizioni. La piattaforma dello Stato saprà avere un ruolo propulsivo? Qualche dubbio sorge, visto che l’analoga Raiplay in questi nove mesi in cui siamo tutti costretti a casa ha prodotto pochissimi contenuti propri e men che meno ha messo a disposizione i propri spazi streaming a cinema e teatri. Al contrario invece di quanto realizzato da Open Ddb, che dal 7 ottobre ha attivato un servizio di streaming in sostegno di festival, cinema e rassegne. «Rifarsi al modello Netflix è controproducente per tanti motivi – osserva ancora Mariani – Da un lato bisogna fare attenzione al fatto che ci sono grandi colossi internazionali, non solo Netflix ma anche Amazon e Disney, che con questa crisi hanno aumentato enormemente i propri fatturati. Questi colossi stanno fagocitando tutto e già da prima della pandemia erano in parte responsabili delle chiusure dei cinema d’essai. Dall’altro lato non si può pensare di rincorrere la politica della cultura a basso costo che viene offerta da queste multinazionali. Come ci insegnano i discount, il sottocosto poi viene pagato sempre più dai deboli». Con il risultato che chi fa cultura deve poi rincorrere quei modelli: perché andare al cinema a pagare un singolo film a 8 euro quando con 10 euro al mese ne ho a disposizione centinaia? Soprattutto: perché pensare a una nuova piattaforma streaming, l’ennesima, invece di incentivare la ripresa degli spettacoli dal vivo, cuore pulsante di ogni forma d’arte e di cultura? Lo scambio, la condivisione e il contatto sono alla base di ogni creazione.
La proposta di Franceschini sembra invece voler mettere a regime quella che deve restare un’eccezione dettata dalla crisi sanitaria in atto. «Da regista – dice ancora il fondatore di Open Ddb – posso dire che ogni film è nato durante la tournée di quello precedente. Mentre giri, mentre discuti del libro o del film con altre persone arrivano le idee e le suggestioni. La modalità streaming e quella social cannibalizzano le relazioni e il senso critico. Aggiungo un altro dato. A me ha infastidito molto l’accostamento tra la fruizione della cultura e la movida, processo avvenuto soprattutto nella seconda ondata. Non si può prendere una parola che già è dequalificante e infilarci dentro tutto quanto, persino andare a teatro nella narrazione comune è stato considerato come sacrificabile, come tempo libero, come lusso».
Per sintetizzare: in questi mesi il ministro alle Attività Culturali ha continuato a tirare fuori un coniglio dal cilindro che però serve a meravigliare e non a risolvere le cose. Un trucco di magia, tra l’altro, che non è neanche ben riuscito e che non copre le mancanze di uno spettacolo pessimo. Prima di provare nuovi sortilegi, meglio padroneggiare bene quelli vecchi. Nella Rai, ad esempio, lo Stato dovrebbe (ri)scoprire un ruolo attivo invece che delegarne la gestione ai partiti che, a propria volta, la utilizzano per piazzare le proprie bandierine. Oppure potrebbe supportare in maniera efficace realtà indipendenti che già da sole riescono a garantire ottimi risultati. Quel che è certo è che negli ultimi tempi Franceschini pare arroccato nelle proprie certezze. Ne è prova la risposta piccata data ai lavoratori e alle lavoratrici che a più riprese hanno chiesto la riapertura, in totale sicurezza, degli spazi culturali. Una risposta mediata (data su Facebook) e paternalistica che ha fatto ulteriormente arrabbiare un intero settore, tanto che il 7 novembre una rete estesa che va dai Professionisti spettacolo e cultura – emergenza continua agli Autorganizzati spettacolo Roma ai circoli Arci ne ha chiesto le dimissioni.
Non sorprende dunque che la sintesi della proposta della Netflix della cultura sia la provocazione lanciata nel titolo, usando la celebre e strausata citazione del film Il secondo tragico Fantozzi. I famosi 92 minuti di applausi scattano quando l’esasperato ragioniere Ugo prende la parola contro il funzionario aziendale che obbliga i lavoratori a vedere un capolavoro della cinematografia come La corazzata Potemkin. L’oggetto del sarcasmo di Paolo Villaggio è chiaramente rivolto contro una certa intellighenzia locale, incapace di ascoltare i bisogni del popolo e convinta che bastino le buone intenzioni dell’autoproclamata cultura per elevare quel popolo da esigenze che si ritengono basse e meschine, come può esserlo la partita della nazionale di calcio che gli impiegati ascoltano di nascosto. E però il rovesciamento comico del film (di un sottovalutato Luciano Salce) non si ferma all’urlo liberatorio «La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca». Sarebbe una pernacchia al limite del qualunquismo. Dopo la rivelazione, nei subalterni scatta la consapevolezza. Non a caso nella scena successiva Fantozzi e i colleghi prendono il potere. Lo fanno alla propria maniera, picchiando il despota che li vessava e dando libero sfogo ai propri gusti, con proiezioni finalmente più vicine alla propria sensibilità come Giovannona coscialunga, L’esorciccio e La polizia si incazza. Ecco, allora la speranza è che la «cagata pazzesca» della Netflix della cultura spinga alla ribellione un comparto costretto finora, tra piccoli sussidi (che non arrivano) e chiusure prolungate, al silenzio e all’invisibilità.
*Andrea Turco, giornalista siciliano, scrive di ambiente e temi sociali.
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