La pandemia di povertà
Negli Usa come in Italia, la romaticizzazione della quarantena si scontra con le reali condizioni di vita della popolazione. Ma l'attuale modello economico traballerà se farà pagare anche il costo di questa crisi alle fasce più deboli
Piegati da una pandemia che dalla Cina ha assunto una dimensione transnazionale, i paesi colpiti dal Covid-19 si sono ritrovati del tutto impreparati ad affrontare una crisi sanitaria inedita, costretti a imporre il distanziamento sociale e a limitare fortemente le libertà individuali per consentire ai propri sistemi sanitari di sostenere l’emergenza senza collassare. Ciò ha prodotto varie reazioni da parte delle popolazioni, tra cui la corsa dei cittadini statunitensi verso i negozi di armi da fuoco.
Il caso americano – così come quello italiano – mostra una crisi a più livelli che, inevitabilmente, sta avendo ricadute negative sulle classi più povere. A distanza di quasi due settimane dalla decisione del Presidente Donald Trump di dichiarare l’emergenza nazionale, il numero di americani che hanno fatto richiesta di sussidio di disoccupazione è aumentato vertiginosamente, fino a raggiungere i 3,3 milioni di cittadini impauriti dall’andamento negativo del mercato del lavoro, superando così il record di richieste del 1982 (in quell’anno furono 695 mila). E mentre il Segretario al tesoro Steve Mnuchin ha dichiarato che il boom di richieste è irrilevante, sono molti gli osservatori che hanno evidenziato come la pandemia colpirà i lavoratori e le lavoratrici a basso reddito, ingrossando così le fila del sottoproletariato statunitense. Un numero di disoccupati, insomma, destinato ad aumentare.
Mentre ventuno dei cinquanta Stati americani hanno confermato un aumento preoccupante del numero di contagiati, è stato subito evidente come nella gestione della pandemia negli Stati uniti mancasse una risposta univoca e omogenea, capace di tutelare le classi sociali che più risentiranno degli effetti economici, sociali e sanitari causati dal virus. Accade così che a Las Vegas, lo Stato del Nevada – uno dei più ricchi degli Stati uniti – decida di destinare un parcheggio pubblico ai senza tetto colpiti dal Covid-19, disegnando per terra degli slots che dovrebbero garantire l’effettiva distanza di un metro tra i contagiati. Una decisione provvisoria, ma che denota il disinteresse dello Stato nell’intervenire tempestivamente a tutela delle classi subalterne.
D’altra parte anche l’Italia, considerato lo stato della sanità pubblica e l’incapacità di isolare il «paziente zero» e mappare tempestivamente il contagio, nel giro di pochi giorni si è trovata in piena emergenza e incapace di reagire efficacemente. Il governo è intervenuto colpevolmente in ritardo, e abbiamo assistito alle dichiarazioni di diversi esponenti politici volte a sminuire la portata della pandemia – basti pensare allo slogan «Milano non si ferma».
Dinamiche simili si sono verificate anche negli Stati uniti, dove è mancato lo screening intensivo dei possibili contagiati, cosa che ha prodotto – secondo il parere di alcuni tra epidemiologi e medici statunitensi – un innalzamento repentino del numero di chi ha contratto il virus. Ma i dati più evidenti che emergono dalle scelte politiche dall’amministrazione Trump in merito alla diffusione del Covid-19 sono due: la mancanza di volontà di gestire situazioni emergenziali e la scelta di temporeggiare mettendo al primo posto gli interessi degli investitori e l’andamento del mercato, con conseguenti ricadute negative su tutta la popolazione. Risposte tardive che hanno portato i singoli Stati a reagire alla pandemia anche in forme grottesche, denunciate da alcuni osservatori statunitensi ed esteri.
Ma la pandemia non va indagata solo dal punto di vista del diritto alla salute, ma usando anche la lente di classe: il Covid-19 ha travolto il nostro paese dopo più di un decennio di forte riduzione della spesa sociale in ottemperanza alle imposizioni di austerità e pareggio di bilancio voluti dall’Unione europea. Ciò, insieme ad altri fattori come gli interventi mirati a flessibilizzare il mercato del lavoro, ha prodotto terribili conseguenze sociali: la precarietà e la povertà crescente, la generalizzazione dell’insicurezza sociale, un incremento vertiginoso delle disuguaglianze e un deperimento delle istituzioni pubbliche.
In Italia il Covid-19 ha accelerato un processo già in atto, frutto di scelte che per un paio di decenni hanno prodotto un progressivo impoverimento della popolazione, mentre una parte significativa delle spese statali sono state destinate a settori che non hanno mostrato alcuna ricaduta positiva per l’economia nazionale. Un paese che dopo la crisi economica del 2008 invece di combattere la povertà ha perseguito i poveri, affrontando il dramma sociale nella sola dimensione dell’ordine pubblico, del decoro e della pubblica decenza. Come sostiene anche Loïc Wacquant – riferendosi al contesto americano, ma la sua riflessione ben si adatta anche al caso italiano – «all’atrofia deliberata dello stato sociale corrisponde l’ipertrofia dello stato penale: la miseria e il deperimento dell’uno hanno per effetto diretto e necessario lo sviluppo e l’insolente prosperità dell’altro».
Ci riferiamo a quelle politiche che dopo aver smantellato lo stato sociale in nome del pareggio di bilancio, producendo una grossa crisi e insicurezza sociale, hanno risposto con l’individuazione di volta in volta di un nemico pubblico, un capro espiatorio da gettare in pasto ai più beceri appetiti punitivi e con cui giustificare scelte politiche e legislative, sempre più securitarie e repressive. Ciò ha fatto sì che oggi l’Italia si trovi a fare i conti con una realtà ben nota: 14 milioni di persone, su una popolazione di 60 milioni, versano in stato di povertà e con il Covid-19 il numero è destinato ad aumentare.
Dopo due mesi di quarantena, secondo alcuni economisti dell’Università Federico II di Napoli, vi sarà un incremento significativo delle famiglie (tra le 100 e le 260mila) che scenderanno sotto la soglia di povertà, e questo non solo per il blocco dell’economia, ma anche per l’inefficienza degli aiuti statali previsti. Un numero che tiene conto soltanto delle famiglie che vivono di redditi da lavoro indipendente, dei lavoratori a tempo determinato, dei lavoratori in attesa della cassa integrazione, o di chi è posto in congedo straordinario. Risposte inefficaci perché, mentre i lavoratori indipendenti otterranno i 600 euro di indennizzo da parte dell’Inps e agli altri è destinata la Cassa integrazione, sussiste ancora un numero significativo di lavoratori escluso da qualsiasi misura.
Una componente di persone in stato di povertà fa parte dell’economia sommersa, milioni di lavoratori in nero o in grigio, maggiormente concentrati nel centro-sud della penisola, vittime di violente forme di sfruttamento, a più riprese definite come moderne forme di schiavitù – basti pensare al settore agricolo, che da anni si regge sul lavoro nero, sul caporalato e sullo sfruttamento di manodopera migrante irregolare, tanto che con le norme di contenimento, e i rigidi controlli, oggi questo settore rischia di non riuscire a soddisfare l’esigenza di frutta e verdura a livello europeo. Per i lavoratori che fanno parte del sommerso, non solo non è previsto l’accesso alle misure di supporto al reddito, ma se non sono residenti nei Comuni – condizione generalizzata ad esempio per la manodopera migrante – non avranno accesso neanche agli aiuti alimentari una volta distribuite le risorse.
Le forme di tutela approntate dal governo sono state definite elemosina di Stato, sia perché l’ammontare degli stanziamenti è insufficiente per la platea a cui si rivolgono (vedi vicenda Inps), sia perché non tengono conto del costo reale della vita di una famiglia in Italia. Secondo i dati Istat nel 2018 (in una condizione pre-crisi da pandemia), la spesa mensile per nucleo familiare tipo si aggirava intorno a 992 euro (457 per i beni di prima necessità, circa 400 per le locazioni e un totale di 135 per le utenze), quindi ben al di sopra degli aiuti che il governo stanzierà nell’immediato (600 euro di indennizzo, circa 100 euro di buono spesa e nessun tipo di contributo per le locazioni). È quindi evidente che le misure del governo sono un tappabuchi per evitare che le contraddizioni del sistema economico esplodano, mentre già le tensioni da parte dei più indigenti iniziano a emergere.
Mentre assistiamo al martellante appello all’unità nazionale, invitando gli italiani a essere responsabili, a «rimanere distanti oggi per abbracciarsi con più calore e correre più veloce domani», milioni di persone si trovano ancora costrette ad andare a lavoro, il più delle volte su mezzi pubblici sovraffolati, senza protezioni di alcun tipo, in settori per i quali la definizione di essenziale è «altamente discutibile» – basti pensare all’indotto della produzione di armi.
La realtà è che dietro le parole di Conte sussistono i problemi di un Paese vittima dell’alternanza governativa di partici politici incapaci di una visione di medio-lungo periodo e di amministrare l’esistente fuori dalla dimensione emergenziale; questa realtà, più della tanto discussa «instabilità», è la problematica che più affligge il nostro Paese. Questa classe politica ha portato avanti decisioni incapaci di sovvertire l’inevitabile depauperamento dei lavoratori dopo la crisi del 2008. Non a caso lo stesso Conte omette dalla sua narrazione le disuguaglianze sociali che determinano grosse differenze nella possibilità di affrontare dignitosamente o meno la quarantena.
I primi momenti di tensione verificatisi con gli assalti ai supermercati ne sono la prova. Il governo è cosciente che 2,7 milioni di persone in Italia rischiano la fame e che questa situazione può mettere in discussione la tenuta dell’ordine pubblico. Da qui il tentativo di correre ai ripari e di evitare l’esplosione di un conflitto sociale inedito con l’erogazione anticipata del fondo di solidarietà ai Comuni e del fondo per le derrate alimentari.
La romanticizzazione della quarantena, proposta non solo dal governo ma anche da buona parte dei soggetti più ricchi di questo Paese, in primis influencer come Chiara Ferragni o Fedez, si è scontrata subito con le reali condizioni di vita della popolazione. La quarantena è un privilegio di classe, concesso a pochi e poche, perché se è vero che l’80% degli italiani risulta proprietario di una casa molti di essi continuano a pagare un mutuo e la questione abitativa rappresenta una ferita ancora aperta in questo Paese.
La povertà – in Italia come negli Stati uniti – è una vera e propria pandemia, e determinerà la capacità, o l’incapacità, di sopravvivere a tutto questo. Difficilmente esisterà lo spazio per costruire un consenso politico per chiedere, senza proteste, nuovi sacrifici alle classi subalterne non appena verrà superata la situazione di lockdown. Chi pagherà i costi di questa ennesima crisi è la domanda a cui neanche illustri economisti riescono efficacemente a replicare, poiché coscienti che questo tema determinerà la tenuta, o meno, del modello economico capitalista, che sta attraversando con violenza la pandemia.
Da subito il Covid-19 ha fatto emergere la questione di classe di avere o non avere una casa, averla fatiscente o meno, condividerla con altri con spazi adeguati oppure no; di aver perso il lavoro o essere impossibilitati a portarlo avanti poiché non regolarizzati, o di essere costretti a svolgerlo senza i mezzi di sicurezza idonei; di avere o non avere un computer in casa, così da poter svolgere smart working o seguire la teledidattica, o di avere una connessione internet. E la questione si acuirà se tenteranno di far pagare a noi i costi di questa emergenza, dai debiti individuali contratti per sopravvivere fino al debito pubblico che si genererà, vista l’incapacità dei governi di aggredire i grandi patrimoni privati attuando meccanismi di redistribuzione della ricchezza.
Ma se «le lacrime che dai nostri occhi vedrete sgorgare, non crediatele mai segni di disperazione, promessa sono solamente, promessa di lotta» (Alexandros Panagulis).
*Alessandra Maggi, studia Giurisprudenza all’Università di Pisa, specializzata in diritto dell’immigrazione, ed è attivista del Progetto Rebeldìa e dell’associazione Unione Inquilini di Pisa. Bruno Walter Renato Toscano, dottorando di storia all’Università di Pisa, si occupa di storia afroamericana e di storia del femminismo afroamericano. Ha condotto ricerche presso la University of Berkeley e la Stanford University ed è membro della redazione del blog C’era una volta l’America.
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