
La politica del dissesto
In Toscana l’ennesimo episodio alluvionale sta mettendo in pericolo le abitazioni e l’incolumità degli abitanti. Mentre la politica nazionale privatizza il rischio idrogeologico, quella locale non ferma il cemento
Niente polemiche e tanti ringraziamenti. Ai vigili urbani, alla protezione civile, ai volontari per l’impegno profuso: la loro competenza a servizio della comunità è importante. Seguite le istruzioni dei sindaci, di quelli che passano – o fanno passare – per le strade con il megafono a dire a tutti di restare in casa, di spostare gli oggetti di valore dalle cantine. Seguite le indicazioni delle pubbliche autorità: state in casa se fuori è pericoloso, salite in alto se l’acqua invade le strade, uscite se trema la terra, riparatevi nelle ore più calde e attenti ad anziani e bambini. Bevete solo dalle bottiglie di plastica se a cento metri dal vostro giardino hanno seppellito veleni. E non siate d’intralcio. Ma soprattutto niente polemiche.
Ne parliamo domani
Per quelle ci sarà tempo domani. Quando si tornerà a presentare piani urbanistici in cui si costruisce e si cementifica nemmeno fossimo in epoca di industrializzazione selvaggia. Domani, quando le grandi opere progettate per spendere i soldi del Pnrr passeranno da carta a realtà. Domani, quando ancora si appalterà al ribasso la manutenzione dei territori sempre più fragili, sempre più intossicati: dai veleni e dalle loro narrazioni.
Potrebbe accadere ovunque ma nella fattispecie accade in Toscana, dove l’ennesimo episodio alluvionale sta mettendo in pericolo le abitazioni e l’incolumità degli abitanti mentre i sindaci indossano ad arte i panni dei soccorritori, facendosi fotografare in prima linea a fianco della protezione civile o dei vigili del fuoco.
In questi giorni, in cui la polemica è vietata e si accettano solo appelli alla responsabilità, la popolazione si divide in tre grandi gruppi. Ci sono quelli colpiti in prima persona, che sono intenti a limitare i danni per sé e per gli altri dove e come possono; ci sono quelli che l’avevano detto che non sarebbe stata affatto una buona idea costruire in nome del progresso un muro alto 3 metri a valle di una collina o che avevano avvertito tutti che risparmiare esternalizzando il monitoraggio degli argini a consorzi vari ci si sarebbe ritorto contro.
E poi ci sono loro: i responsabili. Quelli che non si sentono coinvolti e che con le loro decisioni a servizio di operazioni di piccolo cabotaggio hanno posto in essere le condizioni di tutto questo.
Danni e profitto
Un tutto che si ripresenta a intervalli sempre più ristretti. A poco più di un anno dalle devastanti inondazioni che colpirono Campi Bisenzio e i territori limitrofi, la Piana fiorentina è di nuovo sott’acqua. E giù, lungo tutto il corso dell’Arno fino ad arrivare a Pisa, strade inondate, case allagate, frane, danni. Alle abitazioni e alle imprese. Che forse sorrideranno – specie le piccole attività – a pensare che tra pochi giorni scade il termine ultimo per dotarsi di una polizza assicurativa privata contro le calamità naturali. Perché è questo che fa la politica, quella nazionale come quella locale, nell’epoca della realtà aumentata: privatizza il dissesto idrogeologico, invece che mettere in sicurezza il territorio.
L’ultima trovata, inserita nella legge di Bilancio dello scorso anno, recita proprio così: assicurazione obbligatoria per imprese contro le calamità naturali. Così il pubblico decisore non dovrà nemmeno più risarcire i danni e sarà libero di sforare il debito per questioni molto più impellenti, come ad esempio investire in soldati e armamenti nell’attesa che arrivino i Tartari. D’altronde si sa, è il primo principio del green washing: recuperare crisi ambientali e volgerle in occasioni infinite di profitto finanziarizzato.
Sui territori
Ma se questo è ciò che passa il convento di Roma, non va tanto meglio nelle democratiche e progressiste regioni rosse. Nel cuore della Toscana – proprio dove oggi sono vietate le polemiche – dopo quattro anni dallo scoppio dell’inchiesta Keu, pochi giorni fa l’assessora all’ambiente Monia Monni e il commissario unico per le bonifiche Generale Giuseppe Vadalà hanno fatto il quadro degli interventi programmati al fine di mettere in sicurezza i siti inquinati dai fanghi di risulta delle concerie (che per la cronaca contengono sostanze appena appena cancerogene come ad esempio il cromo esavalente). In uno di questi siti, ovvero il tratto di strada regionale 429 che da Empoli porta a Poggibonsi, si è deciso che la bonifica non s’avesse da fare ma che fosse sufficiente continuare a coprire con un telo in pvc. Una scelta che oltre il danno preannuncia la beffa. Sì, perché da uno studio che proprio la Regione Toscana aveva commissionato al Dipartimento di geologia dell’università di Pisa era venuto fuori che sia l’acqua che l’aria sono responsabili «dell’attivazione» della tossicità dei rifiuti conciari. Quel tratto di strada è oggi fra le zone più colpite dell’alluvione in corso.
Sempre in quest’area – più che mai fragile dal punto di vista idrogeologico – stanno per aprirsi i cantieri per l’ennesima grande opera commissariata per far presto: il raddoppio ferroviario sulla linea Empoli-Siena. Un progetto vecchio di cinquant’anni che i nuovi progettisti di Rfi hanno rivisto osservando le mappe di Google Maps. Ma senza considerare che il tracciato spaccherà in due quattro frazioni, innalzando mura alte quattro metri a pochi centimetri da finestre e balconi. Mura che avranno anche la funzione «taumaturgica» di impedire lo scolo delle acque verso le campagne quando si verificherà ciò che proprio in questi giorni si sta verificando: alluvioni e frane, mannaggia a questo meteo pazzerello.
Chi abita da generazioni questi territori ha provato a dirlo – o meglio a urlarlo – ai propri rappresentanti istituzionali che non era affatto una buona idea cementificare proprio lì. Dagli stessi amministratori che oggi fanno accorati appelli sono stati tacciati di essere localistici, di essere Nimby. A osservazioni puntuali è stato risposto con la più becera retorica del sacrificio di una piccola frazione per un bene più grande: il progresso.
Fragilità e interessi
Ma non vogliamo fare polemica. Perché non serviamo certo noi e non serve certo questo articolo a denunciare l’ovvio: ovvero che il sistema di privatizzazione dei servizi è fra i maggiori responsabili della fragilità dei nostri territori e quindi delle tragedie annunciate. Quello che però ci preme sottolineare è come questa fragilità creata ad arte diventi terreno di sciacallaggio politico. Se è vero che il sistema prescinde gli individui, è altrettanto vero che gli individui che ci stanno dentro hanno tutta la responsabilità della sua produzione e riproduzione. In una lettura generosa, coloro che oggi si mostrano interessati al dissesto idrogeologico sono gli stessi che ieri hanno permesso che la popolazione locale fosse sempre più esposta e vulnerabile di fronte agli effetti del cambiamento climatico. A una lettura un po’ meno generosa invece coloro che oggi imbracciano il megafono e fanno post sui social sono gli stessi che hanno scientemente deciso che un po’ della sicurezza pubblica poteva essere sacrificata di fronte alle proprie traiettorie di carriera perché, si saranno detti «mica sono io che faccio piovere tutta quest’acqua dal cielo, quindi mica è direttamente colpa mia».
Quando c’era da fare l’interesse di quello o di quell’altro gruppo di potere, di quella o di quell’altra società partecipata quotata in borsa non si sono tirati indietro, non hanno assunto mai una posizione critica ma hanno ben partecipato alla spartizione di una torta di vantaggi, economici, politici, mediatici, finanche simbolici. La cosa triste è che l’hanno fatto anche quando il bottino era veramente magro. Anche quando si trattava di farsi mettere a capo di cooperative locali, di guadagnarsi il proprio posto, nemmeno troppo al sole.
Fermiamo la politica del dissesto
Ma la cosa ancora più grave non è quello che hanno fatto ieri e quello che stanno facendo oggi, bensì quello che faranno domani. Vorremmo non essere qui per non vedere come impunemente si congratuleranno, dimostreranno vicinanza ai colpiti. Domani, quando sarà passata l’emergenza il territorio sarà un po’ più fragile e più esposto al prossimo disastro. E loro saranno ancora lì, con le loro strategie e la loro miopia e non faranno assolutamente nulla, di nuovo, per contrastare le cause. Così continuerà a esserci un gioco a cui partecipare per negoziare la propria visibilità. A queste persone abbiamo messo in mano l’amministrazione delle nostre città e, quindi, anche delle nostre case, dei luoghi in cui custodiamo la nostra memoria e in cui proiettiamo la nostra vita. E se questo potere non glielo togliamo noi, di certo non lo cederanno da soli. Davvero pensiamo che non ci siano alternative? Fermare il disastro ambientale si può, ma prima dobbiamo fermare loro.
*Carlotta Caciagli è ricercatrice al Politecnico di Milano. Si occupa di movimenti urbani nel tardo capitalismo. Ha scritto Movimenti urbani. Teorie e problemi (Mondadori, 2021). Marco Pagli è giornalista e scrittore. Collabora con quotidiani e riviste sui temi del lavoro e dell’economia.
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