La repubblica dell’ananas
L'impunità di Del Monte in Kenya va oltre i casi di presunto omicidio da parte dei suoi guardiani. L'influenza esercitata sullo Stato africano le ha permesso di appropriarsi di terra e la lavoro sottopagato, alla ricerca del profitto
Nella lussureggiante regione di Thika, in Kenya, appena a nord di Nairobi, rubare ananas è di fatto un reato da pena capitale. Almeno nove uomini sarebbero stati uccisi dalle guardie di sicurezza impiegate dalla Del Monte, il più grande produttore mondiale di ananas.
Questa serie di omicidi ha fatto notizia a livello internazionale per la prima volta nel giugno 2023, quando il Guardian ha svelato una serie di morti e violente aggressioni compiute dall’apparato di sicurezza privata che Del Monte impiega per salvaguardare il raccolto dai ladri. Le guardie dell’azienda sono accusate dalla gente del posto di aver ucciso dal 2013 nove uomini di età compresa tra i ventidue e i cinquantadue anni, «oltre a cinque stupri e ad accuse di lesioni gravi, tra cui ferite alla testa, ossa rotte e tagli da lame che richiedono punti di sutura».
So stati omicidi brutali, con la maggior parte delle vittime morte per traumi da mazze, pietre e pugni. I tentativi di sbarazzarsi dei corpi uccisi nella proprietà della Del Monte sono stati altrettanto grossolani. Il corpo di Stephen Thuo Nyoike, ucciso a ventidue anni, è stato trovato strangolato con un filo di ferro lungo una strada pubblica. Saidi Ngotho Ndungu è stato trovato galleggiante in una diga, mentre i cadaveri di quattro uomini sono stati recuperati in un fiume il giorno di Natale.
Il fatto che la sicurezza privata di una grande azienda sia coinvolta nell’uccisione extragiudiziale di quasi una dozzina di uomini accusati di aver rubato frutta è già abbastanza spaventoso. A questo si aggiunge la natura bestiale degli omicidi – molti dei quali frutto di percosse così prolungate che i testimoni hanno sentito le vittime implorare – e l’insensibile smaltimento dei corpi sui bordi delle strade e nelle dighe. Non c’è da stupirsi, quindi, che la condanna delle aggressioni letali di Del Monte sia stata rapida e diffusa. In seguito agli articoli del Guardian, i principali supermercati britannici Tesco e Waitrose hanno rapidamente rimosso gli ananas keniani Del Monte dai loro scaffali.
Ma i crimini di Del Monte non si limitano alle trasgressioni di alcune violente guardie di sicurezza. Lo sfruttamento della terra, del lavoro e della legge del Kenya è sistematico e grave, prevede la collusione a più livelli dello stato keniano, dalla polizia locale ai membri del parlamento. Così vanno la vita e la morte nella Repubblica dell’Ananas.
«Nessuna lesione apparente»
Come si fa a uccidere nove uomini per aver rubato della frutta e farla franca? Le presunte vittime di Del Monte erano per lo più giovani poveri e disoccupati, e quindi facilmente liquidati come membri di bande e ladri.
Le testimonianze delle famiglie delle vittime, tuttavia, indicano un sistema più ampio di insabbiamenti e collusione tra la Del Monte e le forze dell’ordine keniane. Nelle contee di Murang’a e Kiambu, oltre i cui confini si estende l’enorme piantagione di Thika, Del Monte è come se fosse al di sopra della legge. Anche quando le sue guardie sono direttamente accusate di omicidio, come nel caso dell’omicidio di Bernard Murigi nel 2019, possono passare cinque anni senza alcun segno di processo.
Più frequentemente, i decessi vengono liquidati come incidenti nonostante le prove contrarie. In almeno due occasioni, la Del Monte ha pagato le perizie forensi delle presunte vittime, ingaggiando un patologo disposto a concludere che i cadaveri maltrattati erano privi di ferite visibili. Testimoni hanno riferito che Saidi Ndungu implorava per la sua vita mentre le guardie di Del Monte lo picchiavano con delle mazze, ma il suo certificato di morte indicava come causa del decesso l’«annegamento». Quando quattro corpi sono stati trovati in un fiume il giorno di Natale del 2023, Del Monte ha insistito sul fatto che erano semplicemente annegati durante un’incursione fallita. Testimoni hanno riferito che le guardie picchiavano gli intrusi con spranghe, scaricavano corpi nel fiume e lanciavano pietre contro coloro che nuotavano via.
La polizia è apparentemente collusa con Del Monte per falsificare le testimonianze e distruggere le prove. A gennaio, in seguito all’incidente al fiume, Del Monte avrebbe attirato potenziali testimoni nella sua proprietà con la promessa di denaro e lavoro, mentre gli agenti di polizia avrebbero cercato di fare pressione affinché firmassero dichiarazioni giurate in cui respingevano le morti di dicembre come annegamenti accidentali. L’apatia della polizia nei confronti delle vittime è altrettanto onnipresente. «A loro non piace perseguire la giustizia – ha dichiarato un uomo rimasto paralizzato a causa delle guardie Del Monte – Ti danno solo [un modulo da compilare] e questo è tutto».
Guardie di sicurezza che uccidono impunemente, agenti di polizia in fuga e patologi forensi disposti a falsificare le prove mediche: per quanto grottesco, è poco più che la base dell’edificio di sfruttamento che Del Monte ha eretto in Kenya. Per comprendere lo status privilegiato della Del Monte è necessario comprendere gli aspetti economici dell’esportazione di frutta tropicale su larga scala.
«Il motore economico»
Del Monte portò l’industria dell’ananas in Kenya nel 1965, ma quello delle multinazionali occidentali che si appropriano di terre nel Sud del mondo per coltivare raccolti da esportare è un fenomeno molto precedente.
Il modello antico delle pratiche abusive della Del Monte ha causato anche le atrocità che la United Fruit ha inflitto all’America Centrale nel periodo d’oro della cosiddetta Repubblica delle Banane. La produzione di frutta tropicale è un’industria multimiliardaria, non perché i margini di profitto siano particolarmente elevati, ma perché aziende come la Del Monte possono avvalersi di enormi pezzi di terra e di manodopera a basso costo nei paesi periferici desiderosi di esportazioni di qualsiasi tipo. Terreni a buon mercato, manodopera a basso costo e politici a buon mercato sono le condizioni necessarie per l’impero globale di Del Monte.
Tuttavia, le aziende agricole che producono raccolti destinati all’esportazione difficilmente forniscono allo Stato una via sicura verso la prosperità economica. Anche se Del Monte impiega direttamente circa settemila keniani, li relega per lo più al lavoro manuale e poco retribuito. La terra nel sud-ovest semitropicale del Kenya è una risorsa preziosa, ma Del Monte non coltiva nemmeno la metà della terra delle sue enormi proprietà.
Anche con margini di profitto relativamente bassi, lo sfruttamento della terra e della manodopera africana rappresenta ancora un grande affare. Del Monte è il più grande datore di lavoro del settore privato in Kenya, con una spesa annua in termini di entrate che supera i 100 milioni di dollari. Ancora più importante per un paese nella morsa del debito denominato in dollari, Del Monte genera circa 62 milioni di dollari in valuta estera. Tutto ciò è sufficiente per far guadagnare a Del Monte la servile protezione dello stato keniano: l’azienda è considerata «un motore economico fondamentale sia nella contea di Murang’a che a livello nazionale».
Dal 2021, il governo keniota si è impegnato a sostenere la Del Monte sotto forma di sgravi fiscali, nebulosi «incentivi politici» e indagini fondiarie gratuite. In cambio, Del Monte ha promesso di continuare a pagare le tasse e, secondo le parole del governo, «promuovere programmi più trasformativi di responsabilità sociale d’impresa [sic]». Pertanto, anche se i cittadini del Kenya affrontano una crisi del costo della vita a causa dei pesanti aumenti delle tasse, con la maggior parte del paese in preda alla crisi alimentare, Del Monte coltiva frutti esotici per i mercati esteri. Queste grandi multinazionali godono di minori oneri fiscali con la promessa di adempiere alle responsabilità sociali a cui lo stato stesso ha rinunciato.
«Non c’è più terra»
Gli sgravi fiscali e le politiche agevolate sono utili, ma nulla mostra l’influenza della Del Monte sullo stato keniota con maggiore chiarezza del controllo della terra da parte dell’azienda. In effetti, nessuno – nemmeno il governo keniota – sa esattamente quanta terra possieda Del Monte nel paese.
Del Monte dice di possedere 22.500 acri; il governo stima le sue partecipazioni a 32.240. La Commissione parlamentare per il territorio afferma che la Del Monte solo in affitto detiene 20.000 acri. E in ogni caso, Del Monte dedica circa 14.000 acri esclusivamente alla coltivazione e alla lavorazione dell’ananas. Il resto semplicemente lo accumula, contento di lasciare migliaia degli acri più fertili del Kenya incolti mentre il nord del Kenya è assediato dalla fame.
Inutile dire che la proprietà di una multinazionale di oltre 20.000 acri di terreni agricoli produttivi non è rimasta incontrastata. Nel 2020, con la scadenza del contratto di locazione di migliaia di acri di terreno fertile di Thika da parte della Del Monte, sia i residenti locali che i politici federali chiedevano a gran voce che la terra venisse utilizzata nell’interesse pubblico.
La gente del posto ha un ricordo molto forte degli sgomberi che hanno preceduto la creazione della piantagione. Un gruppo di protesta di residenti di Kandara ha combattuto una lunga battaglia legale per costringere Del Monte a liberare circa 7.500 acri sostenendo che si tratta di «terra ancestrale che il trasformatore occupa ‘con la forza’». La National Land Commission ha rafforzato queste richieste nel 2020, ordinando a Del Monte di cedere un piccolo appezzamento di terreno ai comuni locali «a fini di reinsediamento e di pubblica utilità». Nel 2021 il Parlamento ha ribadito che il contratto di locazione della Del Monte non dovrebbe essere rinnovato fino a quando gli acri in questione non saranno assegnati ai locali.
Due anni dopo, i residenti non avevano ancora visto un centimetro di quella terra. E, in un atto di pura farsa, il contratto d’affitto di Del Monte era stato in qualche modo rinnovato. Di fronte a questo flagrante rigetto della decisione della corte, per molti keniani l’unica spiegazione valida è la collusione diretta tra Del Monte e i politici locali.
In mezzo a dispute legali sulla piccola porzione di terra che ha mollato, Del Monte ha tranquillamente ceduto la proprietà ad aziende di comodo e ricchi alleati piuttosto che darla ai residenti del posto. A volte commercia in territori che non può nemmeno possedere legalmente: una causa intentata dai residenti di Kandara sostiene che, dal 2010, Del Monte ha ceduto terreni pubblici a società holding per frazionarli e venderli. Nelle vicinanze, un’importante famiglia della contea di Kiambu era beneficiaria di ben tremila acri di Del Monte, che «l’ha immediatamente affittato al trasformatore».
L’assoluta incertezza che circonda gli accordi fondiari clandestini di Del Monte è stata un vantaggio per i truffatori. I truffatori che affermavano di vendere appezzamenti di terreno aziendale hanno intascato circa 164.000 dollari prima che la notizia della frode diventasse di dominio pubblico. Un funzionario di Murang’a ha punito coloro che sono così sciocchi da cadere nella truffa, esortando «la gente a rendersi conto che non c’è più terra da svendere in nessuna parte di questo paese». Tranne, a quanto pare, se sei ricco.
«Forse siamo schiavi»
Dopo la terra, la manodopera a basso costo è la risorsa più preziosa che Del Monte sottrae al Kenya. Le multinazionali della frutta tropicale hanno sempre fatto affidamento sul mantenimento di grandi forze lavoro nella precarietà eterna. Con la domanda di manodopera che oscilla ampiamente tra la stagione del raccolto e il resto dell’anno, i trasformatori di frutta come Del Monte hanno tutti gli incentivi a mantenere i propri lavoratori con contratti flessibili con poche garanzie di lavoro stabile.
Pertanto, nell’ottobre 2023, nel tentativo apparente di «tagliare i costi operativi», Del Monte Kenya ha fatto sapere ai suoi lavoratori occasionali che dovevano aspettarsi solo tredici giorni di lavoro al mese. E anche questa cifra sembra grossolanamente gonfiata. Secondo il portavoce dei lavoratori Stephen Makau, il numero effettivo di giorni di lavoro della maggior parte dei lavoratori ogni mese era di soli tre. «Stiamo soffrendo e stiamo attraversando l’inferno – ha dichiarato Makau – Nelle nostre buste paga ci sono zero scellini di retribuzione netta. Non possiamo andare avanti e non possiamo più essere definiti lavoratori… Forse siamo schiavi».
I dipendenti di Del Monte non hanno accettato passivamente lo sfruttamento. In effetti, gli scioperi e la resistenza alle violazioni del lavoro risalgono a quasi quattro decenni fa. Un rapporto del 2002 della Commissione per i diritti umani del Kenya ha registrato una serie di abusi e condizioni pericolose subite a partire dagli anni Ottanta. Lavoratori bruciati dall’acido solforico, licenziati per attività sindacale e morti di malaria dopo che le cliniche aziendali avevano rifiutato le cure: questi erano solo alcuni dei casi.
Di fronte allo spaventoso sfruttamento, i dipendenti della Del Monte continuano comunque a impegnarsi in scioperi e contrattazioni collettive, con i lavoratori di Murang’a che chiedono che la società garantisca un minimo mensile di diciotto giorni lavorativi e utilizzi i suoi terreni incolti per coltivare colture come mais e manioca. I lavoratori delle piantagioni devono lottare anche per la sussistenza: contro un’azienda che ha sostenuto che uno sciopero di seimila dipendenti nel 2021 fosse del tutto illegale.
Contro le rivendicazioni non si erge solo Del Monte, ma anche una serie di istituzioni statali che cercano disperatamente di impedire qualsiasi intralcio ai profitti dell’azienda. L’Organizzazione centrale dei sindacati ammette che la Del Monte è semplicemente troppo grande per fallire. Come chiarisce un membro del consiglio, «in un’economia che ha un disperato bisogno di opportunità di lavoro, tasse e valuta estera, non abbiamo altra scelta se non quella di sostenere Del Monte come risorsa nazionale e un importante collegamento con il nostro migliore amico che è l’America».
Pertanto, per la leadership del sindacato dei lavoratori agricoli del Kenya, la priorità non è garantire pratiche lavorative eque, ma avvertire il governo che «il paese rischia di perdere pesantemente se la Del Monte dovesse fallire». Un’ammissione significativa del fatto che il modello di business in questione dipende dal mantenimento dei lavoratori in condizioni non lontane dalla schiavitù.
«Brutalizzare il popolo»
Una serie crescente di cause civili, indagini governative e boicottaggi fanno ben sperare per Del Monte Kenya. Eppure l’azienda ha più o meno rifiutato di rivendicare qualsiasi responsabilità per i nove morti e le decine di aggressioni violente di cui è stata accusata, con i portavoce dell’azienda che ricordano allegramente al pubblico «l’impegno di lunga data di Del Monte per i diritti umani».
In effetti, Del Monte non solo ha negato i presunti maltrattamenti nei confronti dei keniani, ha anche rifiutato il diritto del Kenya di ritenerla legalmente responsabile in qualsiasi modo. Di fronte a una causa civile intentata da gruppi per i diritti umani, Fresh Del Monte – la società madre della omonima filiale keniota – ha sostenuto che, poiché aveva sede nelle Isole Cayman, nessun tribunale keniota aveva giurisdizione per processarlo. Gli avvocati della causa civile non sono rimasti impressionati. «È molto irresponsabile da parte della Del Monte dirci che hanno sede nelle Isole Cayman e che non possono essere citati in giudizio – afferma Mwangi Macharia – Eppure possono coltivare ananas in Africa».
Questo aggiramento di ogni responsabilità si allinea perfettamente con il rapporto più ampio tra Del Monte e il paese ospitante. Per i primi, il Kenya è semplicemente un altro luogo in cui costruire la stessa macchina agricola commerciale orientata all’esportazione che opera in Costa Rica e nelle Filippine. La sua produzione di ananas può coinvolgere terra e manodopera africana, ma Del Monte è decisa a non essere in alcun modo obbligata nei confronti del popolo africano.
In un’eco sorprendente delle ex repubbliche delle banane, Del Monte si è ritagliata uno spazio di impunità nel sud-ovest del Kenya. Attraverso le sue enormi proprietà, Del Monte inghiotte terre e lavoro alla ricerca dei profitti delle esportazioni, rivendicando la sua generosità tropicale – circa la gente del posto – con la minaccia di un’esecuzione sommaria. Questo regime richiede la connivenza delle autorità locali e statali del Kenya per proteggere Del Monte dalla reazione popolare e dal controllo legale – per meglio guadagnare valuta estera cruciale e proteggere la posizione del Kenya con le multinazionali statunitensi. I parenti degli uomini presumibilmente uccisi per un sacco di frutta del valore di 10 dollari si fanno poche illusioni sulla gerarchia dei valori nel paese di Del Monte. «Non danno valore alla vita umana – ha detto il padre di Stephen Nyoike – Ciò che apprezzano di più è l’ananas».
Non ci sono dubbi sul fatto che le operazioni di Del Monte, nonostante l’evidente impatto economico, abbiano imposto un costo terribile al Kenya. «È importante che il mondo sappia – afferma Macharia – che questa azienda statunitense sta brutalizzando il nostro popolo, uccidendo il nostro popolo, violentando le nostre donne e distruggendo l’ambiente». Nessun frutto è abbastanza dolce da sopraffare quel sapore amaro.
*Tyler Antonio Lynch ha conseguito un master in politica e studi internazionali presso l’Università di Cambridge. Scrive per Crooked Places su Substack. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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