La sfida del dialogo
Una conversazione con Jennifer A. Reich, sociologa e studiosa da tempi non sospetti del rifiuto del vaccino, su responsabilità collettiva e inclusione ai tempi del Covid
«Non mi curo e non mi sono mai curato anche se la medicina e i dottori io li rispetto. (Per di più sono anche superstizioso al massimo grado o per lo meno quanto basta per rispettare la medicina.) Nossignori, non mi voglio curare, e non lo voglio appunto per cattiveria»
Fyodor Dostoevsky, Memorie dal sottosuolo (traduzione di Igor Sibaldi)
Ti occupi ancora di accettazione dei vaccini, sia per il Covid-19 che per altre malattie? Come è cambiato il tuo metodo di ricerca, anche per via delle precauzioni sanitarie in atto?
Il mio libro Calling the Shots è stato pubblicato nel 2016, e ho continuato a scrivere articoli accademici sull’argomento per un paio d’anni a seguire. Quando è iniziata la pandemia da Sars-Cov-2 sono subito arrivate promesse che i vaccini l’avrebbero risolta. Lì mi sono preoccupata: non solo per i possibili effetti nocivi di vaccini prodotti in fretta, ma soprattutto per gli effetti nocivi di una cattiva gestione della campagna vaccinale, che avrebbe potuto essere deleteria per la fiducia collettiva rispetto a tutti i vaccini, in generale. Quindi ho cominciato a scrivere per un pubblico più generalista e a monitorare la conversazione pubblica.
Negli ultimi due anni sono stata coinvolta in vari aspetti della comprensione delle politiche vaccinali. Ho partecipato alla task-force del Colorado per l’uguaglianza vaccinale, che include membri della comunità e rappresentanze locali, per discutere di come migliorare l’accesso ai vaccini. Inoltre, faccio volontariato presso alcune cliniche che somministrano il vaccino. Sto anche analizzando varie discussioni online per capire come le persone percepiscono i vaccini.
Nel tuo libro ti sei concentrata su di uno specifico segmento di popolazione che rifiuta (parte de) il programma vaccinale: spesso madri, benestanti, con educazione universitaria. Hai qualche intuizione di come stia cambiando la demografia del rifiuto vaccinale?
Storicamente l’opposizione al vaccino ha riguardato l’intero spettro politico, con persone che si identificavano su fronti opposti ma che poi avevano posizioni analoghe riguardo ai vaccini. Questo l’ho riscontrato anche nella mia ricerca. Da quando è iniziata la pandemia, abbiamo osservato una resistenza maggiore da parte di persone che si identificano come conservatrici – il che negli Stati uniti è ancora oggi il maggiore predittore di rifiuto al vaccino. Questo non è del tutto sorprendente. Appena prima dell’arrivo di Sars-CoV-2, gli Stati uniti avevano un presidente che incoraggiava le persone a diffidare del parere scientifico e delle figure decisionali in ambito sanitario – alcune in carica da decenni.
Come spiego nel mio libro, le persone si fidano soprattutto del loro stesso giudizio ma poi raccolgono informazioni da una varietà di fonti. Questo tipo di comunicazione pubblica ha ridotto la ricerca in ambito medico e ha incentivato la ricerca di fonti alternative.
Dalla lettura del libro, nonostante tu abbia fatto scelte diverse, trapela una certa fascinazione verso lo stile di vita e le posizioni delle famiglie che rifiutano il programma vaccinale. È corretta questa impressione? Se sì, che cosa ti interessa di loro – andando oltre l’aspetto professionale?
Mi interessa capire il modo in cui tutte le famiglie fanno scelte. Tutte noi di fatto prendiamo decisioni senza capirne le implicazioni, basandoci sull’opinione delle persone di cui ci fidiamo, quel poco che conosciamo, come ci sentiamo, e in base a valori e credenze. La ragione per cui indago l’accettazione del vaccino è che mi affascina il modo in cui queste famiglie soppesano l’esperienza scientifica. Per esempio, mi sono accorta che per tante madri e padri le decisioni relative al vaccino (e più in generale alla salute) sono legate allo stile di vita – compresi la dieta, le vitamine, l’allattamento, gli acquisti domestici. Osserviamo comportamenti simili con i vaccini per il Covid-19. Chi rifiuta il vaccino spesso si descrive in salute, o tenta di promuovere buone pratiche. Questo spesso le porta a immaginare che i vaccini siano meno importanti.
Nel suo libro Purity and Danger, l’antropologa Mary Douglas afferma che il timore rispetto al contagio e alla perdita di purezza deriva dal contatto con elementi abnormi. Forse per tante persone è più abnorme il vaccino che il virus? E in che senso questo riflette una distinzione – tutta occidentale – tra naturale e artificiale?
Le madri e i padri che ho intervistato nel mio studio spesso fanno riferimento a come i vaccini minino la capacità naturale del corpo di guarire, e quindi come al contempo possano rappresentare un rischio per la purezza del corpo. Spesso le cose «naturali» sono viste come superiori, e siccome i vaccini sono considerati «artificiali», allora sono inferiori. Questo è consistente con l’idea che l’«immunità naturale» – vale a dire l’immunità selvatica acquisita dal contatto col virus stesso – sia superiore rispetto a quella acquisita dal vaccino. Il dibattito è ancora aperto su come l’immunità da infezione debba essere considerata, e se sia equivalente alla vaccinazione.
Nel tuo libro metti spesso l’accento su un fatto semplice ma importante: l’adesione al vaccino è correlata alla gravità percepita della malattia. Pensi che il Covid-19 sia percepito come una malattia relativamente debole, con cui val la pena avere a che fare?
Nelle prime fasi della pandemia, il messaggio lanciato è stato molto chiaro: il Covid-19 è pericoloso soprattutto per le persone più anziane o per chi ha un sistema immunitario già compromesso da altre condizioni. Questo ha sicuramente messo in moto una dinamica per cui i giovani adulti si sono sentiti meno interessati a vaccinarsi, e più inclini a credere di non averne bisogno. Molti dei gruppi che promuovono l’idea che i vaccini non siano sicuri o efficaci insistono che il numero di morti causate dal Covid-19 è sovrastimato, e affermano che il 99,8% di persone ne guariscono. Credo che le discussioni sulla gravità del Covid-19 continueranno a logorare la percezione dell’utilità dei vaccini.
Nel tuo libro sostieni che, negli Stati uniti, la salute è il risultato di un complesso sistema di scelte individuali, secondo un modello consumistico (per esempio l’accesso a diverse tipologie di prodotti sanitari: medicinali, cure ecc.). Pensi che la diffusione del Covid-19 abbia confermato o addirittura esasperato questa tendenza? Allo stesso tempo, la distribuzione diseguale dei vaccini su scala mondiale ha mostrato che la libertà di scelta appartiene a una minoranza. In Italia, l’introduzione di un «green pass» ha costretto tante persone a vaccinarsi contro la loro volontà per evitare di essere sospesi al lavoro e di perdere lo stipendio. Invece, nei paesi economicamente più poveri molte persone non ha accesso al vaccino. Qual è la relazione tra privilegio e scelta?
Negli ultimi decenni c’è stata pressione crescente verso la responsabilità individuale. Considerate per esempio le modifiche apportate ai programmi di supporto sociale, la privatizzazione dell’assistenza sanitaria, oppure la vendita di test genetici che promettono di gestire il rischio personale. Una varietà di prodotti quotidiani – app, riviste, siti web, orologi – ti promettono di controllare la salute. L’idea è che, se lavori sodo, puoi evitare di ammalarti. Sfortunatamente, questo non è vero. Sebbene la dieta e certi stili di vita possano aiutare, molte patologie derivano da fattori ambientali, dalla genetica o dalla cattiva sorte. Eppure, la credenza che la responsabilità individuale promuova la salute permea la maggior parte dei messaggi di chi si oppone ai vaccini – e che spesso si ritrova a vendere i cosiddetti «prodotti per il benessere».
I fattori culturali che promuovono visioni individualistiche della salute sono potenti e ubiqui. Non riguardano solo i vaccini: sono riscontrabili attraverso tanti aspetti delle nostre società. Iniziative come il «green pass» svelano i modi in cui siamo interconnessi. Ma queste connessioni dovrebbero essere visibili anche in forme meno coercitive, e più di sostegno. Questi stessi messaggi di responsabilità collettiva devono essere promossi per assicurarsi che i luoghi di lavoro siano sicuri, che l’acqua potabile sia pulita, che gli edifici abbiano una aerazione eccellente e che siano privi di sostanze tossiche. Dobbiamo ascoltare questa responsabilità collettiva in modi che promuovano l’inclusione, e non solo l’esclusione. Non sto dicendo che i vaccini non siano un vantaggio per le comunità. Piuttosto, sto affermando che le strategie comunitarie di promozione della salute debbano promuovere la salute al di là della pandemia e ben oltre i vaccini.
Il sapere esperto è stato a volte affiancato e altre volte contrastato dalla conoscenza informale della cittadinanza. Ora sembra che le persone abbiano perso fiducia nei confronti dei dati ufficiali e abbiano iniziato a intraprendere delle ricerche in prima persona per identificare le cause e le soluzioni più efficaci per la malattia. Alcune di loro sono anche le più vulnerabili agli effetti del virus e alle sue conseguenze sociali. Che tipo di competenze rivendicano e cosa possiamo imparare da loro?
Le persone sono spesso incoraggiate a «fare le loro ricerche»: ho sentito di frequente questa affermazione nell’ambito dei vaccini. Quando ho scritto Calling the Shots, mi sono resa conto per molti versi che il concetto di ricerca è stato appiattito. La ricerca per definizione evidenzia l’importanza di raccogliere le informazioni in modo sistematico per creare una conoscenza generalizzata. Ora, molte volte facciamo riferimento a come stiamo cercando grandi acquisti, ad esempio automobili o elettrodomestici, o al fatto che stiamo ricercando un nuovo ristorante. In questa interpretazione consumistica del termine, «ricerca» è l’espressione attualmente utilizzata per un processo di raccolta di informazioni con l’intento di compiere scelte di consumo per noi stessi, ma non come un modo per creare conoscenza.
Con questo non intendo dire che gli individui non dovrebbero valutare le informazioni provenienti da fonti diverse per prendere una decisione che sembra personalmente appropriata. Piuttosto, è importante riconoscere che la ricerca è in effetti qualcosa di diverso che crea la possibilità di conoscere qualcosa al di là di qualsiasi individuo. È una delle ragioni per cui è difficile conciliare l’esperienza personale con i dati relativi all’intera popolazione. Entrambi sono importanti ma forniscono strumenti diversi.
Io credo fermamente che i movimenti legati alla salute abbiano spesso trasformato l’assistenza sanitaria in meglio. Ci sono molti esempi di gruppi che hanno controbattuto le posizioni degli esperti portando a una migliore pratica medica e a delle cure migliori. Questo lo possiamo vedere con il Women’s health movement, l’attivismo attorno all’Aids, e nelle voci delle organizzazioni di difesa che hanno messo in evidenza le esperienze personali che sono spesso trascurate da coloro che si occupano di fornire assistenza sanitaria. Ci sono molti modi per conoscere e molte forme di conoscenza. La mia ricerca evidenzia l’importanza dell’empatia e del dialogo.
Le persone che mettono in dubbio i vaccini sono di frequente derise perché crederebbero o credono in teorie cospirazioniste. In che modo queste teorie sono legate alla rivendicazione di competenze personali? La numerologia derivata dalle statistiche e dai programmi televisivi potrebbe avere un ruolo nella creazione di una cultura delle cospirazioni?
Per instaurare un dialogo sono necessari alcuni fatti condivisi. Una persona può arrivare a scegliere di rifiutare il vaccino senza credere in una cospirazione. D’altra parte, durante il Covid-19, ho notato un grande aumento delle credenze che mettono in discussione l’esistenza della pandemia, che affermano che i vaccini sono parte di piani volti a ridurre la popolazione, o che sostengono altri tipi di cospirazioni che sono di fatto false e anche implausibili. Questo rende il dialogo una sfida. Ciò nonostante, non abbiamo nessun esempio di persone che hanno cambiato idea dopo esser state derise o ridicolizzate. Quindi questo non è un approccio particolarmente produttivo per fare passi avanti. Gli individui dovrebbero sempre avere la possibilità di fare domande. Dovrebbero anche essere aperti a risposte che mettono in discussione le loro visioni. E per fare questo, è necessario che ci sia fiducia.
Nel dibattito pubblico la profilassi personale e la responsabilità sociale sono fuse insieme, dato che la maggior parte (ma non tutti) i vaccini proteggono le comunità tramite l’immunità di gregge. D’altra parte, il Covid-19 mette in discussione questa correlazione diretta, a causa della sua alta contagiosità, del fatto che può essere trasmesso dalle persone vaccinate, della possibilità di reinfettarsi, e del fatto che le misure introdotte per sostenere la vita economica possono dare un falso senso di sicurezza. Tuttavia, i media insistono a riprodurre una narrazione di «guerra», di fronte all’evidenza che il virus si diffonde quasi liberamente. Questo potrebbe ritorcersi contro l’autorevolezza della scienza e la necessità percepita di altre misure sanitarie (come il distanziamento sociale)? Qual è il ruolo mediatico delle persone che rifiutano i vaccini secondo questa retorica?
Storicamente i vaccini hanno avuto un ruolo importante nel salvare vite umane e proteggere le comunità. I vaccini contro Sars-CoV-2 non fanno eccezione. Eppure, i vaccini non sono tutti uguali. Alcuni prevengono la trasmissione. Alcuni forniscono una protezione per tutta la vita. Altri prevengono le forme gravi della malattia. Alcuni recano principalmente un vantaggio personale, e altri generano un beneficio soprattutto a livello collettivo. A partire dall’epoca della poliomielite, c’è stata la volontà di considerare i vaccini allo stesso modo e di sorvolare sulle differenze nel loro contributo e nel loro funzionamento. Nel momento in cui il pubblico è diventato più istruito, questo approccio ha mostrato i suoi limiti. Probabilmente, le persone non sono mai state così consapevoli del processo di revisione scientifica, del processo normativo di revisione dei vaccini e della loro efficacia di quanto lo siano attualmente. Questo richiede una comunicazione più chiara e diretta che il pubblico non ha sempre ricevuto nel corso del Covid-19. E questo ha probabilmente minato la sua fiducia.
Uno degli aspetti più trascurati nel dibattito pubblico è il ruolo svolto dei vaccini come surrogati di altri problemi sociali. A titolo di esempio, si può pensare alla crescente intolleranza verso le pratiche e gli interessi delle multinazionali del farmaco. Come spieghi nel tuo libro, nella storia dell’accettazione sociale dei vaccini è presente un momento di svolta tra il paradigma del vaccino della difterite, che è arrivato con una diffusa promozione dal basso ed è stato accolto per merito delle istituzioni pubbliche, a quello della poliomielite, dove hanno iniziato a giocare interessi industriali e corporazioni professionali. A questo proposito, dove collocheresti l’attuale campagna di vaccinazione e il malumore che ha generato?
I vaccini contro il Covid sono stati creati con fondi pubblici. Da un lato, questo dimostra che quando la scienza è interamente finanziata sono possibili grandi cose. Dall’altro lato, fornisce la prova che le aziende farmaceutiche potrebbero non prestare attenzione all’interesse pubblico. La sfiducia verso le compagnie farmaceutiche era in aumento già prima del Covid. Nella mia ricerca, ho sentito spesso i genitori preoccuparsi di quanto fossero ben regolamentate queste aziende e delle agenzie governative responsabili di ispezionarle e valutarle. Questi timori sono cresciuti con il Covid dato che i governi e le aziende farmaceutiche stanno coordinando a stretto contatto lo sviluppo e la revisione scientifica.
David Robertson e Peter Doshi hanno scritto recentemente: «La storia ci suggerisce che la fine della pandemia non seguirà semplicemente il raggiungimento dell’immunità di gregge o una dichiarazione ufficiale, piuttosto avverrà gradualmente e in modo non uniforme quando le società smetteranno di essere consumate dalle misurazioni scioccanti della pandemia. La fine della pandemia è una questione che riguarda soprattutto l’esperienza vissuta e perciò è più un fenomeno di carattere sociologico che biologico. E per questo le statistiche – che non misurano la salute mentale, l’impatto sull’educazione e la negazione di legami sociali stretti – non sono lo strumento che ci dirà quando la pandemia sarà finita».
Tuttavia, esiste la preoccupazione che questa fine dai confini incerti possa non riportarci alle condizioni precedenti il Covid-19, specialmente riguardo alla divisione nella società tra sostenitori e oppositori dei vaccini. Come ti immagini il mondo, diciamo, tra tre anni?
Non penso che ritorneremo al 2019. Non penso che il modo in cui lavoriamo, viviamo e educhiamo i giovani oppure professiamo la nostra fede saranno gli stessi. Molte delle innovazioni che hanno avuto luogo sono positive. Più flessibilità al lavoro, lavoratori che hanno accesso a permessi per malattia (cosa che gli Stati uniti non garantiscono), la possibilità di connettersi da remoto o di trasmettere le cerimonie religiose, la possibilità di stare a casa quando si è malati sono tutte cose positive.
La domanda difficile, in questo momento, è quale livello di malattia e di morte può essere considerato tollerabile? Molti degli appelli a fare riferimento al Covid come endemico presumono erroneamente che questo significhi la fine. Infatti, in molti casi questo segnala un’accettazione di ondate di infezioni a livello regionale o stagionale. Prima del Covid, l’influenza stagionale uccideva decine di migliaia di persone.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che l’influenza stagionale può «infettare fino al 20% della popolazione, a seconda del tipo di virus in circolazione, e può causare una mortalità considerevole». Una stima è che a livello mondiale, ben 650 mila persone muoiono di malattie respiratorie connesse all’influenza stagionale ogni anno.
Certamente, i vaccini contro l’influenza non prevengono completamente l’infezione, tuttavia salvano delle vite. Questo potrebbe rappresentare un modello di come i paesi decidono di convivere con il Coronavirus e di quanto la morte prevenibile sia considerata accettabile.
*Nives Ladina è laureata in scienze antropologiche ed etnologiche. Matteo Polettini è ricercatore in fisica presso l’Università del Lussemburgo. Insieme partecipano alle attività di eXtemporanea, una comunità ibrida che discute dello scientifico nella società, del sociale nelle scienze, e di tant’altro: in rete si trova qui. Jennifer A. Reich, è una sociologa americana, lavora all’Università del Colorado Denver. Ha scritto Calling the Shots: Why Parents Reject Vaccines (New York University Press, 2016)
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