La storia dietro il sogno di Mlk
Il discorso in cui Martin Luther King disse «I Have a Dream» viene interpretato nei modi più diversi, ma è un attacco alla guerra e al razzismo degli Usa
La notte prima della manifestazione a Washington del 1963, Martin Luther King Jr chiese ai suoi collaboratori un consiglio sul discorso che avrebbe dovuto tenere il giorno successivo. «Non usare la frase su ‘I Have a dream’ – gli disse Wyatt Tee Walker – È banale, è un cliché. L’hai già usata troppo».
King aveva effettivamente utilizzato quel refrain diverse volte in precedenza. Era apparso in un discorso appena una settimana prima a una raccolta fondi della National Insurance Association a Chicago e pochi mesi prima in un grande raduno a Detroit. Come la maggior parte dei suoi discorsi, entrambi erano stati accolti bene. Ma nessuno dei due era stato considerato particolarmente importante.
Sebbene King, a quel tempo, fosse una figura politica nazionale, relativamente pochi al di fuori della chiesa nera e del movimento per i diritti civili lo avevano sentito tenere un discorso completo. Con tutte e tre le reti televisive che offrivano copertura in diretta della Marcia per il lavoro e la libertà (il più grande evento del suo genere nella storia del paese), questa sarebbe stata la sua introduzione alla nazione. Aveva bisogno di un discorso adatto all’occasione.
Seduto nella hall del Willard Hotel di Washington, King chiese idee alla sua squadra. Quello di Walker fu uno dei tanti contributi. «I suggerimenti semplicemente saltavano fuori – ha ricordato Clarence Jones, autrice della bozza finale – ‘Penso che dovresti… ‘Perché non…?’ . ‘Martin, come ho già detto…’». Dopo alcune ore King li ringraziò per il loro contributo. «Ora vado di sopra nella mia stanza per consultarmi con il Signore – disse – Ci vediamo domani». Quando uno dei suoi collaboratori andò nella sua stanza più tardi quella notte, aveva cancellato alcune parole tre o quattro volte. King andò a dormire intorno alle 4 del mattino.
Poche ore dopo, l’organizzatore della marcia, Bayard Rustin, arrivò nel Mall con alcuni dei suoi assistenti e trovò personale di sicurezza e giornalisti in numero superiore ai manifestanti. Quella mattina un giornalista televisivo di Washington annunciò: «Non sembra che si presentino molte persone. Non sembra che sarà grande». Il movimento nutriva grandi speranze per un’affluenza importante e aveva fissato l’obiettivo di 100 mila persone. Dalle prenotazioni solo su pullman e treni, si intuiva che erano almeno vicini a quella cifra. Ma quando arrivò quel mattino vero e proprio, questo dato non bastava a calmare i loro nervi.
I giornalisti tormentavano Rustin su che cosa sarebbe accaduto sia all’evento che al movimento se ci fosse stata meno gente del previsto. Rustin, sempre teatrale, tirò fuori dai pantaloni un orologio da tasca rotondo e dalla giacca un pezzo di carta. Esaminando prima il foglio e poi l’orologio, si rivolse ai giornalisti e disse: «Tutto va bene nei tempi previsti». Il pezzo di carta era bianco.
Con il passare della mattinata, l’apprensione degli organizzatori si era attenuata mentre la capitale veniva trasformata dai manifestanti che affluivano da tutto il paese. Il primo treno della Libertà arrivò alla Union Station di Washington da Pittsburgh alle 8:02, registra Charles Euchner in Nobody Turn Me Around: A People’s History of the 1963 March on Washington. Ben presto i treni arrivarono ogni cinque-dieci minuti. Al culmine del flusso, diecimila persone attraversavano la stazione in venti minuti mentre cento autobus all’ora attraversavano il Baltimora Harbour Tunnel. Alle 10 del mattino l’entità della marcia era evidente a tutti.
«Eravamo circondati da un mare di umanità in movimento – scrise John Lewis, un giovane leader dei diritti civili che parlò alla folla quel giorno, mentre cominciava a muoversi – Decine di migliaia di persone si stanno riversando fuori dalla Union Station, riempiendo Constitution Avenue da un marciapiede all’altro. È stato davvero fantastico, la cosa più incredibile che avessi mai visto in vita mia. Ricordo di aver pensato: ecco l’America».
Si esibirono cantanti, tra cui Joan Baez, Bob Dylan, Josh White, Odetta e Peter, Paul e Mary. I manifestanti coi propri cartelli fecero diverse richieste e dichiarazioni. «I cavalli hanno i loro programmi televisivi. I cani hanno i loro programmi televisivi. Perché i negri non possono avere i propri show?», diceva uno. «Nessun pasticcio per aiutare Jim Crow a crescere», diceva un altro. Un altro ancora diceva: «Il nostro corpo in movimento, la nostra vita in gioco, chiediamo libertà di pensiero».
«Non sguazziamo nella valle della disperazione»
Rustin quel giorno aveva limitato gli interventi a soli cinque minuti ciascuno e aveva minacciato di intervenire e trascinarli giù dal podio quando il loro tempo fosse scaduto. Ma tutti esagerarono, dato il caldo – 87 gradi a mezzogiorno – e l’umidità, l’umore cominciò a scemare.
King fu l’ultimo a parlare. Quando raggiunse il podio, molti tra il pubblico avevano iniziato ad andarsene. «Oggi dico agli studenti: ‘Allora non c’erano i maxischermi’ – mi ha detto Rachelle Horowitz, che da giovane attivista aveva organizzato il trasporto alla marcia – Tutto ciò che le persone potevano vedere andava bene».
Non tutti quelli che erano rimasti potevano sentirlo bene, ma quelli che riuscivano a sentire rimanevano estasiati. «Torna nel Mississippi, torna in Alabama, torna nella Carolina del Sud, torna in Georgia, torna in Louisiana, torna nei bassifondi e nei ghetti delle nostre città del nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può essere e sarà cambiata – disse King come se stesse per concludere – Non sguazziamo nella valle della disperazione, vi dico oggi, amici miei».
Poi guadagnò il podio e posizionò il testo preparato alla sua sinistra. «Quando leggeva il testo, stava come un conferenziere – mi ha detto Jones – Ma dal momento in cui mise da parte quel testo, assunse la posizione di un predicatore battista». Jones si rivolse alla persona in piedi accanto a lui e disse: «Quelle persone non lo sanno ma stanno per andare in chiesa».
Uno scroscio di applausi riempì una pausa più significativa di molte altre.
«Quindi, anche se affrontiamo le difficoltà di oggi e di domani, ho ancora un sogno».
«Oh merda – disse Wyatt Walker, che era al Mall – Sta usando il sogno».
Perché lo ricordiamo?
Martin Luther King pronunciò molti discorsi (almeno 350 solo nel 1963). Molti discorsi erano sui diritti civili e sono stati pronunciati anche durante la marcia su Washington. Allora cosa ha reso storico questo particolare discorso? Cosa lo rende eccezionale? Perché lo ricordiamo? Come lo ricordiamo? Che cosa ci piace ricordare? E cosa abbiamo scelto di dimenticare?
Quando King fu assassinato a Memphis nel 1968, non era particolarmente popolare e quel discorso non aveva acquisito lo status leggendario che ha oggi. Sia lui che il discorso avrebbero potuto seguire la strada di molti grandi leader e discorsi e, secondo le parole dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, essere «amputati» dal corpo della storia.
Paradossalmente, sebbene il passaggio del «sogno» sia l’elemento più memorabile, non è mai stato incluso nel testo preparato da King. Il discorso sarebbe stato ricordato allo stesso modo, o addirittura non sarebbe stato ricordato affatto, se King non avesse preso quella svolta spontanea?
Non era l’unico refrain convincente nel discorso. All’inizio parla del rinnegamento da parte degli Stati uniti delle promesse fatte agli afroamericani: «In un certo senso siamo venuti nella capitale della nostra nazione per incassare un assegno… una cambiale… per la vita, la libertà e la ricerca della felicità» scritta dagli estensori della Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza.
Proseguì sostenendo che il paese aveva pagato con un assegno scoperto e di fatto non ha mantenuto la sua promessa. «Ci rifiutiamo di credere che non vi siano fondi sufficienti nelle grandi riserve di opportunità di questa nazione – afferma – Quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia».
Poi, proprio alla fine, passò a un riff preso in prestito dalla canzone patriottica del diciannovesimo secolo My Country ’Tis of Thee, in particolare l’ultima riga della sua prima strofa: «Let Freedom Ring». Partendo dal Nord più liberale, accompagnò il pubblico in un suggestivo tour degli Stati uniti, invocando la libertà che risuona dalle «prodigiose cime delle colline del New Hampshire… ai sinuosi pendii della California». Alla fine, prese una svolta oscura verso il Sud, includendo «ogni collina e monticello del Mississippi», uno stato che in precedenza aveva descritto come «soffocante per il calore dell’ingiustizia».
Sebbene nessuno dei due passaggi sia lungo quanto la parte di I have a dream, entrambi sono sostanziali ed evocativi. «Anche il modo in cui viene sempre chiamato ti dice tutto quello che devi sapere su ciò che la gente vuole ricordare – mi ha detto Jack O’Dell, uno degli ex aiutanti di King – Nessuno lo chiama mai il discorso dell’assegno scoperto».
L’altro re
La maggior parte di quelli che conoscevano King e il suo lavoro credono che abbia tenuto almeno un discorso che meritava tanta o forse più attenzione storica di quello pronunciato durante la marcia su Washington. «Penso che il suo discorso quattro anni dopo alla Riverside Church di New York, in cui condannò la guerra in Vietnam e definì gli Stati uniti come il più grande fautore di violenza nel mondo, sia stato di gran lunga il miglior discorso della sua vita in termini di tono e sostanza», sostiene Lewis.
Ma lamentare l’assenza degli altri grandi discorsi di King, o di altre sezioni del discorso di Washington, dalla coscienza pubblica significherebbe scambiare la memoria collettiva per qualcosa di diverso ddalla memoria selettiva e contingente. Per onorare King come crociato contro la guerra, l’America avrebbe dovuto fare i conti con i propri impulsi militaristici. Allo stesso modo, ricordare il discorso di King a Washington attraverso la metafora dell’«assegno scoperto» richiederebbe un impegno sia con l’eredità materiale del razzismo sia con il rimedio materiale dell’antirazzismo, una sfida che il paese ha appena iniziato ad affrontare.
Venerare il suo discorso di Washington attraverso la sequenza del sogno, tuttavia, conferma una diagnosi positiva (anche se metaforica) di un disturbo apparentemente cronico: il razzismo negli Stati uniti. In quanto tale, è una cosa rara in quasi tutte le culture o nazioni: un’orazione ottimistica sulla razza che riconosce le circostanze disperate che l’hanno resa necessaria pur continuando a proiettare speranza, patriottismo, umanesimo e militanza.
Questi punti di forza nell’ampiezza del suo fascino sono anche i suoi difetti in termini di profondità. Il discorso di King è in gran parte apprezzato da tutti perché le interpretazioni di ciò che stava dicendo variano molto. Nel 2010, nel quarantasettesimo anniversario del discorso, Glenn Beck, personaggio dei media e favorito del Tea Party, tenne il raduno «Restoring Honor» al Lincoln Memorial, dicendo a una folla di circa novantamila persone che «l’uomo che scese su quelle scale… ha dato la vita per il diritto di tutti ad avere un sogno». Quasi un anno dopo, il candidato presidenziale repubblicano nero Herman Cain aprì il suo discorso alla Southern Republican Leadership Conference con le parole «I have a dream».
Il fatto che si siano impossessati di quel discorso, in particolare quando si utilizzano elementi fuori dal contesto di contestaazione della legislazione sui diritti civili, ha reso diffidenti alcuni intellettuali e attivisti neri. «Il discorso è stato profondamente e volontariamente frainteso – mi ha detto Vincent Harding, amico di lunga data di King – Le persone ne prendono le parti che richiedono il minimo sforzo, il minimo cambiamento, il minimo lavoro».
«Non una fine, ma un inizio»
Nel discorso King afferma: «Il 1963 non è una fine, ma un inizio». In termini di attivismo di massa, popolare e non razziale contro le leggi di Jim Crow, si sarebbe rivelato l’inizio della fine: una pietra miliare e seminale nella spinta per la giustizia sociale.
Decenni dopo, è chiaro che eliminando la segregazione legale – non il razzismo ma la discriminazione formale e codificata – il movimento per i diritti civili ottenne l’ultima vittoria morale per la quale esiste ancora un consenso.
Sebbene la lotta per sconfiggere la segregazione sia stata aspra e divisiva, nessuno oggi si batte seriamente per il suo ritorno o piange apertamente la sua fine. Il fascino del discorso sta nel fatto che, qualunque sia l’interpretazione, rimane l’articolazione più eloquente, poetica, impenitente e pubblica di quella vittoria.
*Gary Younge è professore di sociologia all’Università di Manchester e Type Media Fellow. Questo testo, adattato da The Speech: The Story Behind Dr. Martin Luther King Jr.’s Dream (Haymarket Books, 2023), è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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