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Non c’era nulla di pacifico in Martin Luther King
Chi cita a sproposito King per delegittimare le rivolte negli Usa, dovrebbe sapere che per lui l'azione diretta nonviolenta non era un vincolo morale ma una teoria del potere e un repertorio di tattiche da mettere in pratica
La repressione negli Stati uniti è allo stesso tempo spettacolare e banale. Lo abbiamo visto nelle ultime settimane, quando le forze di polizia militarizzate conducevano campagne di controinsurrezione contro i civili statunitensi e alla brutalità si associava la pretesa che i manifestanti restassero pacifici.
Quando le élite al potere chiedono la pace, chiedono docilità. Quando citano cinicamente aforismi decontestualizzati da Martin Luther King Jr e invocano i diritti dei «manifestanti pacifici» mentre condannano le manifestazioni concrete, ci stanno dicendo che nessuna protesta efficace sarà mai abbastanza pacifica da guadagnarsi la loro approvazione. Le élite dominanti, gli opinionisti e la polizia usano la retorica della nonviolenza per disciplinare i manifestanti e spostare la responsabilità della violenza dello stato sulle sue vittime. Non dovremmo cadere nella loro trappola. Non c’è nulla di pacifico nella nonviolenza se la stai utilizzando nel modo giusto.
La nonviolenza non riguarda il rispetto delle regole, il lavoro all’interno delle istituzioni esistenti o la diffusione di minacce che non hanno nulla di minaccioso. L’azione diretta nonviolenta è azione diretta. Non è un modo per immolarsi o una forma di alta morale, ma una teoria del potere e un repertorio di tattiche da mettere in pratica. La nonviolenza efficace consiste nell’esercitare un’azione collettiva per interrompere il normale funzionamento della società.
Martin Luther King Jr lo sapeva benissimo. Gli opinionisti hanno ragione quando dicono che King respingeva le rivolte dal punto di vista tattico, ma difendeva i rivoltosi sostenendo che esprimevano una rabbia giustificata contro un ordine razzista e capitalista che aveva abbandonato i neri dei quartieri poveri alla brutalità, allo sfruttamento e all’abbandono. Per lui la rivolta era una rabbia che bruciava; ma immaginava un modello di ricostruzione radicale della società statunitense che aveva bisogno che quella fiamma bruciasse a lungo. La nonviolenza che arrivò a concettualizzare prima di essere ucciso era un mezzo per incanalare la rabbia popolare nella forma di lotta che doveva rappresentare una minaccia più diretta per l’amministrazione Johnson.
Per articolare questa visione di «disobbedienza civile di massa», King guardò al movimento operaio. Nella sua relazione del 1966 da presidente della Southern Christian Leadership Conference, King citò lo sciopero di quell’estate di trentacinquemila lavoratori delle compagnie aree come esempio di potere nonviolento in azione. Boss e politici, ha insistito, hanno dovuto essere costretti a dare concessioni. I lavoratori delle compagnie aeree avevano messo in pratica questa forma di potere attraverso forme di disobbedienza coordinate e disciplinate, ottenendo il primo contratto di lavoro multi-vettore.
La relazione di King sposava la definizione di potere del presidente della United Automobile Workers (Uaw), Walter Reuther, in quanto «capacità di fare in modo che la più grande azienda del mondo, la General Motors, dica di sì quando vorrebbe dire di no». I lavoratori costrinsero i manager a fare ciò che non volevano intaccando i loro profitti. Era il lavoro che faceva funzionare le macchine e quando i lavoratori si rifiutano di lavorare, le macchine non funzionano. Gli scioperi esercitavano potere bloccando a valle il potere dei datori di lavoro.
La disobbedienza civile di massa, come King la immaginava nel corso della Poor’s People Campaign, era un programma simile di coercizione nonviolenta che costrinse il governo federale a perseguire una radicale trasformazione della società statunitense.
L’attuale ondata di proteste è una testimonianza della fragilità del potere statale quando le persone si rifiutano collettivamente di fornire la loro cooperazione. Le chiamate del presidente Donald Trump a «dominare» le proteste si sono rivelate inutili, perché l’intensificazione della repressione delegittima ulteriormente il sistema. I riot della polizia hanno fatto esplodere le proteste come un incendio. Perfino la distruzione della proprietà e il saccheggio non hanno provocato reazioni negative. Al contrario: i sondaggi registrano un ampio supporto per gli obiettivi del movimento Black Lives Matter.
La pandemia ha creato le condizioni per questa insurrezione nonviolenta. L’attacco alla salute pubblica, l’abbandono dei poveri e delle persone di colore e l’enorme disoccupazione hanno messo in evidenza le patologie del sistema politico statunitense. Milioni di posti di lavoro persi e i licenziamenti spingono i manifestanti per strada e la fine del lockdown probabilmente ha abbassato il costo di un’agitazione permanente. Questa convergenza di cause ha consentito di trasformare la rabbia collettiva in solidarietà multirazziale per una disobbedienza civile davvero massiccia.
Le élite cercano disperatamente di delegittimare questa rabbia, invocando King e i miti della nonviolenza. Vogliono proteste civili e pacificate. Ma King facendo affidamento sul linguaggio cristiano dell’amore per tradurre il satyagraha gandhiano nel linguaggio politico della tradizione evangelica sociale nera, non escludeva affatto che la rabbia potesse diventare una forza creativa. La solidarietà sta nel riconoscere la rabbia, il potere nell’usarla per sostenere la resistenza collettiva di fronte alla violenza. Ciò di cui diffidava era la rabbia che offuscava il giudizio e che scadeva nel tipo deriva reattiva su cui lo stato prospera.
Trattenere la rabbia senza violenza, quindi, non significa parlare in tono civile; significa usare la rabbia per stimolare la resistenza collettiva senza esserne consumati. Barbara Deming ha sostenuto che la nonviolenza non è una fantasia di purezza spirituale; è un mezzo per combattere rabbiosamente contro la violenza con equilibrio.
Riflettendo sulle lezioni degli scioperi delle compagnie aeree, Martin Luther King ha sottolineato: «L’influenza etica e la persuasione morale possono continuare a preparare il clima al cambiamento, ma se vogliamo raggiungere il nostro obiettivo c’è bisogno di un potere reale per il cambiamento». Nella visione di King, la sfida della disobbedienza civile di massa consiste nel convertire l’indignazione e la rabbia in potere. Affrontare questa sfida oggi non dovrebbe costituire un’occasione per moralizzatori liberal o attivisti da ramanzina; è un invito a riconoscere ciò che la pace richiede davvero.
La pace a cui punta la lotta nonviolenta non si ottiene adattandosi allo status quo, giocando secondo le regole o rispettando le norme della proprietà liberale. La pace si raggiunge solo lottando contro «il triplo male» costituito da capitalismo, razzismo e militarismo che sorreggono la legge della violenza.
*Alexander Livingston è professore associato alla Cornell University. Ha scritto Damn Great Empires! William James and the Politics of Pragmatism (Oxford University Press, 2016). Questo articolo è uscito du Jacobinmag. La traduzione è di Giuliano Santoro.
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