
La strada percorsa dal movimento contro la polizia
Il successo che in questi giorni sta avendo la proposta di definanziare la polizia, è frutto delle lotte contro la brutalità poliziesca – dalla rivolta di Los Angeles del 1992 a oggi. È solo un primo passo ma può aiutarci a spingerci più in là
Le proteste di massa che hanno fatto seguito alla morte di George Floyd, Breonna Taylor, e Tony McDade hanno suscitato raffronti con la Rivolta di Los Angeles del 1992. Il 29 aprile del 1992 una giuria assolse quattro poliziotti del dipartimento di Polizia di Los Angeles dall’accusa di aggressione contro Rodney King, un uomo nero la cui tortura da parte della polizia nel 1991 – tortura che durò almeno quindici minuti – fu registrata dal balcone di un osservatore.
Il video fece il giro del paese. Le proteste iniziarono poche ore dopo l’annuncio del verdetto, accese dalle micce di South Central Los Angeles e Koreatown. Oltre alle assoluzioni, scintilla importante della ribellione, come documenta Brenda Stevenson, fu la sentenza di un giudice bianco nel caso di un negoziante coreano, Soon Ja Du. Poche settimane prima dell’aggressione a Rodney King, Du sparò e uccise Latasha Harlins, una ragazza nera di quindici anni, durante una disputa per una bottiglia di succo d’arancia. Condannato per omicidio volontario nell’ottobre del 1991, la pena comminata a Du da Joyce Karlin fu la libertà vigilata, il servizio civile e una multa.
Per la fine della Rivolta di Los Angeles, a inizio maggio più di cinquecento persone erano state arrestate, molte di loro per aver violato il coprifuoco. Molti immigrati dal Messico e dall’America latina erano stati deportati. Più di mille edifici, la maggior parte commerciali, erano stati dati danneggiati, saccheggiati o distrutti. A Los Angeles nel 1992 fu l’ultima volta che venne utilizzato l’Insurrection Act, lo stesso con cui il Presidente Trump ha minacciato oggi i manifestanti. William Barr era il Procuratore Generale, proprio come oggi. La storia sembrerebbe ripetersi. Ma se guardiamo alle richieste politiche avanzate per contrastare la repressione statale sui manifestanti, abbiamo fatto molta strada. Oggi, la maggior parte di noi ripudia le riforme che ci furono promesse in risposta alla Rivolta di Los Angeles.
La ribellione del 1992 scaturiva non solo dalla violenza della polizia e dal razzismo ma anche dalla povertà e dalle condizioni economiche in cui le persone erano costrette a sopravvivere. Al tempo, le soluzioni proposte da molti leader politici ed esperti si possono riassumere con più investimenti delle imprese, prestiti e lo sviluppo delle attività commerciali delle minoranze. Gli investimenti di capitale e le partnership pubblico-privato avrebbero risolto quello che era visto come il fallimento dello stato sociale. Questo approccio leggeva i quartieri sotto la lente della negligenza economica anziché come bersaglio della violenza economica e razzista. La spiegazione della negligenza economica funzionò in tandem con la difesa dei negozianti immigrati coreani, che subirono quasi la metà delle perdite miliardarie della città in termini di proprietà. Alle critiche di lungo corso per la concentrazione di negozi di proprietà coreana in quartieri neri veniva spesso risposto con l’affermazione che andavano a colmare il vuoto creato dalle aziende che si rifiutavano di fare affari in quelle zone, affermazione che dipingeva i negozianti coreani come poveri malcapitati, non responsabili per le condizioni dei quartieri. Accademici non bianchi insistevano sul «dover andare oltre bianchi e neri» per analizzare quella che è stata descritta come una rivolta multirazziale e per condannare quello che era interpretato come un fuorviante accanimento contro gli asiatici.
Gli appelli alla riconciliazione razziale, che fossero fatti da accademici, attivisti o leader civili, erano sostenuti dall’idea che la ribellione fosse in parte fomentata da reciproche incomprensioni tra diversi gruppi razziali. L’allora presidente Bill Clinton avrebbe in seguito promosso questa interpretazione basata sul conflitto razziale a livello federale. Nel 1997 nominò una commissione nazionale sulla razza, nella quale, sulla scia della sua riforma della legge penale e del welfare, si svolsero dialoghi, chiamati «One America Conversation», in trentanove stati. Le soluzioni adottate all’epoca si chiamarono «relazioni razziali» e «investimenti di capitale», mentre non fu utilizzato il potere statale per ridistribuire la ricchezza e ridurre il potere della polizia.
Oggi, molte più persone sostengono che dialoghi sterili e provvedimenti di solidarietà verso le aziende non sono abbastanza. Che sia nelle strade, nei social media, o nella comunicazione con i datori di lavoro, i colleghi e le organizzazioni, sempre più persone stanno dicendo a chi comanda che il tempo delle chiacchiere è finito e c’è bisogno di cambiamenti strutturali. Ancora di più, stiamo vedendo sorgere una richiesta che non era così diffusa nel 1992: il definanziamento della polizia. Se nel 1992 gli obiettivi principali di residenti e attivisti di Los Angeles erano quelli di fermare la brutalità poliziesca e riformare il sistema penale, la richiesta di definanziare la polizia ci avvicina alla creazione di alternative durature a polizia, repressione e carcere.
Ovviamente, «definanziare la polizia» non significa di per sé abolirla. Ma senza l’abolizione come processo e obiettivo finale, definanziare la polizia porterebbe a un aumento dei vigilantes privati, soprattutto bianchi, come abbiamo visto nei linciaggi contemporanei, ad esempio nell’omicidio di Ahmaud Arbery, o nelle risposte armate alle proteste odierne. E del settore privato, inclusa l’industria tecnologica con tutte le sue presunte innovazioni, sempre ben disposta a sviluppare e mantenere la sorveglianza in uno stato carcerario, così come a impiegare le proprie forze di sicurezza private. E allora dobbiamo fare attenzione a non essere politicamente dirottati da quelli che Toni Cade Bambara ha descritto come «gli squali, la prossima ondata di repressione, o la prossima campagna di diffamazione» che prova a spostarci verso una polizia con altri mezzi. La proposta di definanziare la polizia ci permette, in questo momento, di evitare le insidie di quelle riforme che, come Mariame Kaba avverte, potrebbero in ultima istanza rafforzare la polizia sia finanziariamente che istituzionalmente.
La richiesta di definanziare la polizia ha anche quella caratteristica che Ruth Wilsone descrive come l’elastico, che ci aiuta a «spingerci più in là dell’obiettivo immediato senza tralasciarne la specificità». Può aiutarci a mettere in discussione le riforme che favoriscono il capitale e indeboliscono il welfare state, come quelle proposte in risposta alla Rivolta di Los Angeles del 1992. Possiamo invece chiedere come vengono formulati i budget e a chi e a cosa diamo la priorità in termini di utilizzo. E può darci forza nel re-immaginare il lavoro al di là dell’industria della repressione e a «occupare l’occupazione». Nell’attuale assetto economico infatti, milioni di persone sono impiegate come poliziotti o per il Dipartimento della Difesa, che è attualmente il più grande datore di lavoro degli Stati uniti. Infine, definanziare la polizia può fare spazio a un progetto di welfare state meno punitivo – dal momento che la carcerazione di massa, come ha fatto notare Elizabeth Hinton, fu in parte causata dalle misure di controllo del crimine messe in campo per regolare i programmi di welfare – e per normalizzare un welfare state più umano in cui i bisogni di ciascuno vengano soddisfatti.
Anche se è decisamente troppo presto per cantare vittoria, facciamo il punto della situazione sulla strada fatta dalle richieste politiche dalla Rivolta di Los Angeles del 1992 in poi. La richiesta di definanziare la polizia e, ancora di più, il consenso che tale richiesta sta suscitando, è un progresso nato dal basso. È un avanzamento politico importantissimo rispetto alla spinta post-1992 di aumentare l’investimento di capitali, la partnership pubblico-privato, o i dialoghi superficiali sulle «relazioni razziali», tutti gesti che riabilitano il capitalismo – che ama sempre molto la polizia – ma non si confrontano con il potere della struttura della nostra economia. Celebriamo questo successo e guardiamo avanti.
*Tamara K. Nopper è una sociologa le cui ricerche si concentrano sulle disparità di ricchezza nei gruppi razzializzati e la relazione tra razzismo, finanziarizzazione, criminalizzazione e punizione. Questo articolo è uscito su Jacobinmag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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