Labour pride
Questa stagione dei Pride potrebbe essere la prova genderale per dar voce all’orgoglio Lgbtqia+: proud to be part of a queer working class
Le persone Lgbtqia+ lavorano, sono sempre state parte del sistema produttivo. Lavorano perché, essendo in maggioranza appartenenti alla classe lavoratrice, devono sopravvivere vendendo la propria forza-lavoro a chi possiede i mezzi di produzione. Quest’affermazione sembra banale, ma negli scorsi anni è rimasta sempre un po’ nascosta tra le righe delle rivendicazioni dei movimenti di lotta contro l’oppressione per genere e orientamento sessuale. Proprio per questo, dirla esplicitamente ha un effetto immediatamente esplosivo. Se oggi è possibile dire questa banalità senza darla per scontata ma ridandole rilevanza politica è per una varietà di ragioni, la prima delle quali è strutturale.
Gli effetti della crisi sui soggetti al margine
Dai cascami della crisi economica globale del 2008-2010, a dieci anni di distanza un’altra crisi economica è stata partorita dalla catastrofe sanitaria che ha prodotto a sua volta la più classica delle dinamiche imperialiste. Da decenni il sistema economico globale soffre una crisi di sovrapproduzione – soprattutto nel caso dei capitali eurostatunitensi – inizialmente tamponata con la speculazione finanziaria e l’abbattimento dei salari, per salvaguardare i profitti aziendali, e lo smantellamento dei sistemi di tutele e welfare per supportare questo processo per mano statale.
Gli effetti si sono dispiegati a pieno durante la crisi pandemica, con l’ingolfamento dei sistemi sanitari pubblici e l’impossibilità per i sistemi sanitari privati di garantire l’accesso di massa alle terapie. Già da anni, però, i soggetti oppressi per genere e orientamento sessuale, i soggetti razzializzati, i soggetti caratterizzati da disabilità e neurodivergenza soffrivano le ricadute di questo processo dal margine del sistema economico: quello della riproduzione sociale, dove le discipline e i sistemi di controllo sociale arpionano il tempo di vita esterno al tempo di lavoro salariato. Lo dimostra l’escalation di violenza, istituzionale e non, verso le persone razzializzate e quelle oppresse per genere e orientamento sessuale anche nei paesi eurostatunitensi e sudamericani, alla quale gli stati hanno risposto proseguendo con lo smantellamento del welfare (e quindi dei servizi pubblici che contribuiscono all’autonomia economica e sociale dei soggetti in questione) e con un aumento della pressione e repressione per far rientrare questi soggetti nei ranghi della disciplina sociale e riproduttiva capitalistica. I movimenti però non sono rimasti in silenzio.
Non si campa d’aria
Uno dei grandi meriti di Non Una di Meno, purtroppo rimasto spesso confinato alla dimensione del movimento d’opinione, è stato quello di rimettere in gioco la doppia dimensione lavorativa che il sistema capitalistico assegna alle donne attraverso il dispositivo etero-patriarcale che vi si è installato all’interno.
Le donne svolgono lavoro salariato, quasi sempre a condizioni peggiori di quelle degli uomini, e l’ideologia corrente assegna loro un sovrappiù di lavoro da svolgere a casa senza retribuzione. Fare figli, curarne la crescita, cucinare, gestire le pulizie della casa sono tutte mansioni che il capitalismo cerca di tenere all’interno del suo nucleo fondamentale, la famiglia monogamica eterosessuale, demandandoli per lo più alle donne. Naturalmente, dove esiste una classe media con una certa capacità di spesa, questi lavori possono essere esternalizzati a soggetti per lo più femminili e nella maggior parte dei casi razzializzati (dove la razzializzazione non corre solo sulla linea del colore della pelle ma anche della provenienza geografica: vediamo per esempio quanto il badantato chiami a sé soprattutto donne provenienti dall’est europeo, così come la pulizia domestica è spesso affidata a donne del nord e centro Africa o del sud-est asiatico).
Da qui la risposta globale di Ni Una Menos: sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo. Con due limiti, soprattutto nel caso italiano. Il primo è la difficoltà a organizzare lo sciopero dal lavoro riproduttivo non retribuito, che spesso trova sbocco solo nel processo di trasformazione etico-politica delle donne e nella presa di coscienza della propria condizione sociale di genere. Il secondo è la responsabilità politica dei sindacati – soprattutto confederali – nell’essere poco ricettivi a tre aspetti dello sciopero femminista: la formulazione doppia della chiamata allo sciopero (produttivo e riproduttivo); la sua generalità (che non coglie l’aspetto vertenziale cui le strutture sindacali fanno maggiore attenzione, non solo per ragioni di autoconservazione); la chiamata annuale a scadenza fissa (che non viene risolta dagli stessi sindacati sottolineando l’aspetto di genere degli altri – pochi – necessari scioperi che si svolgono durante l’anno).
La trappola del diversity management
Sotterraneamente alcune parti del movimento queer, e in particolare quello italiano, hanno sempre provato a sottolineare la sovrapposizione tra precarietà lavorativa e oppressione per genere e orientamento sessuale. Attraverso questa sovrapposizione, partendo dal genere e dall’orientamento sessuale per arrivare al lavoro e al reddito, si è provato negli scorsi anni soprattutto a rendere visibile il sovrappiù di richieste che la disciplina sociale rivolge a questi soggetti (dentro e fuori dal lavoro).
La maggior parte dell’attenzione si è rivolta al tema del diversity management, concentrandosi per lo più sulla «discriminazione positiva»: la ricerca, da parte delle aziende, di soggetti che possano rappresentare questa diversity, a cui assegnare ruoli lavorativi specifici. Ad esempio gli uomini cisgenere gay indirizzati a fare carriera nel mondo della moda, spesso in posizioni di management, o a un livello più basso i commessi nei negozi di abbigliamento o gli steward nelle compagnie aeree; le donne cisgenere lesbiche in posizioni da ufficio stampa, spesso nell’editoria o nella cultura, o come lavoratrici parasubordinate con mansioni da ufficio. Le persone trans, invece, sono state troppo spesso dimenticate da questo discorso pur essendo cruciali nel ribaltare la prospettiva. La rappresentazione stereotipica vede le persone trans destinate esclusivamente al lavoro sessuale o impossibilitate ad accedere al lavoro: in effetti solo in pochissimi casi (specie in Italia) trovano visibilità e occasioni di carriera.
È qui che si rivela il trucco e la trappola del diversity mananagement e del pinkwashing, molto più dell’impatto sul consumo a cui è stata rivolta fin troppa attenzione. Non si tratta soltanto di creare o di cogliere fette e nicchie di mercato interessato a farsi rappresentare dal branding delle multinazionali, magari per attrarre sponsorizzazioni per i Pride più istituzionali (e le loro gradazioni di «istituzionalità» sono moltissime, a guardare meglio). Per il capitalismo si tratta invece di approfondire la divisione del lavoro attraverso il genere e l’orientamento sessuale, sia tramite la discriminazione positiva che quella negativa, e di agire ove necessario attraverso ricatti lavorativi basati sull’inclusività o meno dell’azienda.
Queer working class
Negli anni Settanta, anche l’allora «movimento di liberazione omosessuale» era approdato alla conclusione di dover cercare le persone Lgbtqia+ nei luoghi di lavoro in cui non era possibile fare coming out. All’epoca, naturalmente, questa situazione era più trasversale di oggi, con gli effetti della discriminazione che si abbattevano anche sulle posizioni lavorative più prestigiose (meno su quelle posizioni di rendita che consentivano un più agevole occultamento almeno delle pratiche omosessuali).
Questo ha prodotto, soprattutto dagli anni Duemila e quasi sotterraneamente, anche alcuni provvedimenti legislativi, spesso ignorati in Italia persino dal movimento stesso: il decreto legge del 9 luglio 2003, n. 216, e il decreto legge del 25 gennaio 2010, n. 5, in attuazione delle direttive europee sulla parità di trattamento. Queste conquiste sono tutt’altro che secondarie, per quanto scarne, frammentarie e non inclusive della dicitura «identità di genere» fondamentale per interpretazioni non fuorvianti di casi di discriminazione verso persone trans* e non binarie. Rimangono però in secondo piano rispetto alla piattaforma rivendicativa standard sulla quale si è assestato il movimento Lgbtqia+ mondiale: il matrimonio egualitario (in Italia, in realtà, poco perseguito e per di più sostituito da quel disastro nel diritto di famiglia che è la legge sulle Unioni Civili, che ha prodotto l’impensabile situazione di tre diversi istituti riferiti allo stesso soggetto: la coppia); una legge generale antidiscriminazione; una legge sull’affermazione di genere (in Italia raggiunta molto rapidamente all’inizio degli anni Ottanta e adesso parecchio invecchiata rispetto all’avanzamento delle rivendicazioni del movimento).
Le due conquiste lasciate in secondo piano sono però dei punti cruciali su cui fare perno. Oggi bisogna parlare dell’ipersessualizzazione che caratterizza i lavori a discriminazione positiva e l’iposessualizzazione (non poter essere out sul luogo di lavoro) dei lavori a discriminazione negativa. La fabbrica, prima di tutto. Ma anche la scuola, per esempio, luogo di vulnerabilità massima della disciplina sessuo-riproduttiva a cui da anni rivolgono la maggior parte della loro attenzione i movimenti di estrema destra – proVita, no gender, e in generale tutti i movimenti reazionari che mettono al centro il tema economico-politico della crescita demografica zero.
La dimensione del diversity management non produce soltanto una differenziazione di carriere, ma anche di condizioni contrattuali: nel terzo settore non è infrequente il sottoinquadramento contrattuale motivato dalla (supposta) maggiore adeguatezza delle persone Lgbtqia+ a svolgere lavoro relazionale e di accoglienza, soprattutto quando ci si occupa dei fenomeni migratori – in parte anche per l’ampia delega che lo stato italiano fa all’associazionismo (specie quello Lgbtqia+) esternalizzando i servizi che non può garantire per via dei tagli al welfare.
Ma si può (e si deve) dire di più. Si deve parlare infatti anche di come la piattaforma ridotta e a misura del ceto medio, costituita dalla triade di rivendicazioni di cui sopra, viene comunque invalidata dalla discriminazione sul luogo di lavoro. La mancata equiparazione delle Unioni Civili al Matrimonio eterosessuale sul piano del diritto di famiglia, per esempio, produce lunghissime ed estenuanti procedure per dimostrare in sede aziendale di aver diritto a misure fondamentali come congedi matrimoniali, reversibilità della pensione e assegni familiari. Per non parlare di quanto si complichi la situazione nel caso di configurazioni affettive che implicano più partner. I lunghissimi percorsi di affermazione di genere, previsti in Italia esclusivamente nella forma medicalizzata, conducono all’impossibilità di cambiare i documenti anagrafici in tempi brevi e alla necessità di ricorrere allo strumento, in sé problematico, della «carriera alias» – già sperimentata nelle università – come surrogato del cambio anagrafico, esponendo le persone trans* e non binarie a un surplus di violenza e discriminazione sul luogo di lavoro. Inoltre le leggi antidiscriminazione restano spesso inapplicate per la difficoltà che si sconta oggi a fare formazione su questi temi nei luoghi di lavoro e dell’istruzione, per la frammentarietà del quadro legislativo o per la distruzione della contrattazione nazionale sistematicamente perseguita dai governi italiani degli ultimi vent’anni.
A partire dal movimento #moltopiùdizan, in accordo con il proprio slogan, la piattaforma di «Stati Genderali» sta provando a mettere a tema e nelle prassi questa riflessione. Questa stagione dei Pride potrebbe essere la prova genderale per dar voce a questa dimensione troppo sussurrata dell’orgoglio Lgbtqia+: proud to be part of a queer working class.
*Enrico Gullo è dottore in storia dell’arte, lavoratore dell’editoria e attivista con particolare attenzione alla cultura queer. Ha collaborato con Prismo e collabora attualmente con Not e Il Tascabile.
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