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L’Algeria è una repubblica, non un regno
L'opposizione al quinto mandato di Bouteflika è il casus belli di un paese sterilizzato dagli apparati di sicurezza e da una rete clientelare internazionale. Ma cittadini di ogni ceto da giorni scendono in piazza per la dignità e la democrazia
3 marzo 2019: “Bouteflika” invia una lettera alla televisione nazionale per rivolgersi al popolo algerino dopo l’eccezionale ondata di proteste contro la sua quinta candidatura alla presidenza della Repubblica algerina.
Sembrerebbe una notizia normale se non fosse che l’82enne presidente algerino è in precarissime condizioni di salute almeno dal 2013, quando ebbe il primo dei due ictus. Bouteflika, attualmente in Svizzera per controlli medici, non è quasi capace di proferir parola, difficile che sia in grado di scrivere una lettera. Non compare in pubblico da mesi, non pronuncia un discorso vero da anni, è un burattino in mano a una ristretta cerchia di militari e tutti si chiedono se questa volta, una volta rieletto, riuscirà davvero a pronunciare il proprio giuramento (già nel 2014 fece un po’ fatica).
Un Bouteflika virgolettato, dunque. E gli algerini, oltre a dover operare questo transfert da una persona – il Presidente – a un’entità-ombra – i vertici militari che lo “gestiscono” – hanno dovuto ingoiare anche il rospo di un comunicato a dir poco enigmatico: se verrà rieletto il 18 aprile, “il presidente” si impegna a non concludere il suo mandato, a ritirarsi anticipatamente previa convocazione – in data da precisarsi – di una “conferenza nazionale”.
La reazione alla lettera la dice lunga sull’aria che si respira in Algeria: c’è chi fa notare che nel marzo di cinque anni fa il malandato leader aveva promesso più o meno le stesse cose – il ché da la misura di quanto oggi il tutto appaia la farsa di una farsa. C’è invece chi la prende a ridere: «Il presidente Abdelaziz Bouteflika – si legge sul giornale satirico El Manchar – ha “annunciato” in una lettera scritta in Braille la sua intenzione di morire subito dopo le elezioni del 18 aprile, in caso di vittoria. Abdelaziz Bouteflika si è impegnato a tirare le cuoia per sempre, stavolta davvero, non appena eletto. Ha detto che ha esaurito il numero di vite a sua disposizione. Ne sono rimaste solo tre, sufficienti per sopravvivere a una bronchite acuta e a un cancro».
È chiaro che l’opposizione al quinto mandato di Bouteflika è per i manifestanti, scesi in piazza nell’ordine delle centinaia di migliaia in tutte le province algerine lo scorso venerdì, solo il casus belli: l’Algeria è un paese congelato, sterilizzato ormai da troppo tempo. E il regime, perché di questo si tratta, sta in piedi grazie a un apparato di sicurezza tarato da decenni sulla “lotta al terrorismo”, a una rete clientelare internazionale che – fra scandali e corruttele (vedi anche il caso Eni-Saipem) – permette ancora al paese – ricco di petrolio e gas – di comportarsi da rentier-State, e a una seppure ormai stentata politica di assistenza sociale (tipica di molti paesi che vivono quasi solo dello sfruttamento di risorse energetiche). Ma l’impianto traballa vistosamente, vista anche la pressione demografica (il 70% della popolazione è sotto i 30 anni e il 25% dei giovani non ha lavoro).
Gli algerini di ogni ceto, provenienza e affiliazione socio-politica e etnico-linguistica, da almeno due settimane scendono in piazza uniti per la dignità, per la democrazia e per la libertà. L’ironia dei loro slogan, la gioiosità che portano in piazza, la dicono lunga su quanto genuino sia il desiderio di voltare decisamente pagina. Il carattere pacifico della protesta dimostra quanto i manifestanti siano consapevoli dei numeri su cui possono contare.
Il movimento non ha leader, per ora, ma a parteciparvi non sono solo «singoli cittadini chiamati a unirsi tramite i social network» (come vorrebbero far intendere alcuni commentatori interessati), bensì gruppi, associazioni di tutti i tipi (in prima linea anche quelle femminili), categorie (tra cui molti studenti e avvocati), intellettuali, artisti e accademici, partiti politici di opposizione di ogni colore.
Non si contano più, ormai, le dimissioni di giornalisti e funzionari statali di ogni ordine e grado. La maturità di questo movimento si ritrova nella sua varietà e unitarietà, e in slogan dolorosi come «non siamo la Siria, non siamo l’Iraq, non siamo il Venezuela». La sua memoria si intesta alle rivolte del 2011, a quella che un giornalista americano ritenne di dover chiamare “primavera araba”, perché il «muro della paura è stato abbattuto» e «il popolo vuole la caduta del regime». Il fatto che “l’entità-ombra” abbia parlato in televisione rafforza l’idea che qualcosa dovrà cambiare, a breve o medio termine, sempre che qualcuno non decida di inquinare i pozzi, scatenare la violenza per produrre il caos e, di conseguenza, presentare al mondo la cara vecchia alternativa del “male minore”. Non senza aver prima prodotto una carneficina.
La domanda è dunque: cosa cambierà? Le operazioni di maquillage sono dietro l’angolo, ovviamente, ed è chiaro che gli azionisti più importanti dell’Algeria attuale – fra cui spicca chiaramente la Francia ma anche l’Italia, che è il primo partner commerciale dell’Algeria e vive del gas di quel paese – non attendono altro che un restyling. Qualcuno ipotizza che la repressione non c’è stata, finora, proprio perché “in alto” qualcuno ha già deciso cosa cambierà e come. C’è da capire se e quanto gli algerini siano disposti a farsi prendere in giro, se e quanto i diversi settori del potere riusciranno a immaginarsi un’Algeria libera, democratica e infinitamente meno corrotta.
Di certo la protesta non si ferma. Anzi, ci si attende che possa prendere maggior vigore proprio grazie alla pantomima della lettera, inviata nel giorno in cui quell’avatar di nome Bouteflika confermava la propria candidatura. E il prossimo 8 marzo in Algeria si terrà la “grande marcia”: gli organizzatori aspirano a far scendere in piazza dieci milioni di algerine e algerini, con una rosa in mano, «per la libertà, la dignità, l’uguaglianza e la bellezza». Quanto ai rantolanti media italiani danno solo qualche cenno di vita: il merito è di sparuti giornalisti che sanno quanto l’Algeria sia importante, che pensano l’Italia al centro del Mediterraneo – cose che non vanno di moda. Ma questo, lo sappiamo, è un altro problema.
*Lorenzo Declich è un esperto di mondo islamico contemporaneo. Traduttore dall’Arabo di saggi e romanzi, è autore tra l’altro di Islam in 20 parole (Laterza, 2016), Giulio Regeni, le verità ignorate (Alegre, 2016) e Siria, la rivoluzione rimossa (Alegre, 2017).
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