I perfidi mangiarane e il dispositivo neonazionalista
Il governo giallobruno adopera brandelli di retorica anticoloniale ma non ha a cuore il destino degli africani. Piuttosto vuole assolversi. E tenersi le mani libere per agire nel complesso scenario globale
Come reagire di fronte alle molteplici uscite di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista sulle responsabilità francesi per le migrazioni dall’Africa, a causa delle loro politiche neocoloniali esemplificate dalla vicenda del Franco Cfa? Al primo impatto verrebbe da considerarle come semplici boutade senza alcun contenuto politicamente credibile. Una versione appena più raffinata delle demenziali uscite del senatore grillino Lannutti sui Savi di Sion. Ma forse c’è qualcosa di più.
Anche le spiegazioni di chi le considera semplici ballon d’essai (e qui pare di essere pagati dai francesi per utilizzare la loro lingua…) non ci sembrano del tutto pertinenti. È vero che queste uscite sono una forma di distrazione di massa, pensate per scaricare su altri le responsabilità politiche di questo governo della morte di centinaia di migranti nel mare Mediterraneo. Ma è necessario uno sforzo in più per capire la possibile portata di questa narrazione ideologica.
Bisogna premettere che il discorso sulle responsabilità coloniali e neocoloniali francesi in Africa non è per nulla campato in aria. Misurare l’impatto del Franco Cfa sulle economie subsahariane è cosa certamente più complessa di quanto dicano i leader del governo giallobruno, ma è indubbio che la Francia abbia continuato a mantenere una forma di scambio ineguale e di sfruttamento dei territori africani. In questo senso la Francia, come tutte le altre potenze coloniali e imperialiste, è certamente causa dello sviluppo diseguale e della subordinazione dei governi africani alle sue politiche e ai suoi interessi. D’altra parte sappiamo che queste “interferenze” hanno portato anche a interventi diretti o per procura – basta ricordare l’assassinio di Thomas Sankara voluto dai padroni francesi e portato a termine dal loro sodale Blaise Compaorè.
Allo stesso tempo è altrettanto evidente che la Francia non è la sola potenza economico-finanziaria e politica responsabile dello sviluppo ineguale e delle politiche neocoloniali. Il sistema-paese italiano ne è altrettanto responsabile, dalla Nigeria alla Libia, dal Corno d’Africa, all’Africa occidentale. In buona compagnia dell’insieme dell’Unione europea. Per fare solo un esempio (di cui parla in maniera approfondita Stefano Liberti nel suo libro I signori del cibo), le pressioni europee (e italiane) sul Ghana per la liberalizzazione in entrata di concentrato di pomodoro hanno distrutto la produzione locale, causando tra l’altro una massiccia emigrazione, che arriva anche sulle nostre coste.
Dietro questa strategia comunicativa c’è qualcosa di più, che possiamo definire neo-nazionalismo. Da una parte, l’attacco alla Francia (e al suo odiato e indifendibile presidente) come unica responsabile dello sfruttamento è l’ennesimo episodio del vittimismo italiano, che lamenta sempre l’ipocrisia delle altre potenze coloniali che attaccano le imprese italiane. È il ritorno sotto altre forme e in altri contesti dell’invettiva mussoliniana contro la perfida Albione. O della dichiarazione d’innocenza di Silvio Berlusconi, il quale disse di aver partecipato all’intervento in Libia del 2011 solo perché costretto dalla cattiveria francese che voleva escluderci dal controllo di quel territorio.
Dall’altra parte questo atteggiamento vittimista è alla base anche dei discorsi giallobruni sulle responsabilità dell’Unione europea della crisi italiana e delle difficoltà del sistema-paese di potersi risollevare. Sono argomentazioni che trovano sponda nelle reali responsabilità delle istituzioni finanziarie internazionali nell’implementazione delle politiche neoliberiste nel nostro paese, ma che naturalmente tacciono sui benefici tratti da moltissime imprese italiane dalla partecipazione all’Ue.
Sentendo le dichiarazioni di Di Battista nel teatrino di Fazio-Littizzetto, ci sono tornate alla mente le ben più profonde e solide argomentazioni del sottosegretario 5 Stelle Michele Geraci. Il quale scriveva: «Se siamo fortunati, la Cina potrebbe riuscire a riprodurre il proprio modello di successo anche in Africa. L’Italia è uno dei paesi che può giocare un ruolo attivo in questa presenza cinese in Africa, aiutando la Cina ad ‘aiutarli a casa loro’ che non è uno slogan ma la realtà di questo nuovo mondo globalizzato». Ecco dunque che si affaccia un’ipotesi di politica internazionale ben più corposa delle dichiarazioni dei frontman 5 Stelle: l’idea che in un non lontano futuro sia possibile per l’Italia provare a giocare in proprio una partita di relazioni dirette con la potenza cinese in ascesa, in Africa e non solo. Una ri-nazionalizzazione della politica estera avverrebbe sbarazzandosi della Ue e dei suoi padroni e padrini e sottovalutando alcuni errori di prospettiva. Intanto, la Cina in Africa non ha esattamente una storia di relazioni pulite ed è anch’essa foriera di atteggiamenti neocoloniali – basti pensare alle recenti elezioni in Zimbabwe e al ruolo cinese nella transizione verso un nuovo assetto di “mugabismo senza Mugabe”. Intanto il 25 gennaio arriva a Roma Wang Yi, ministro degli esteri cinese. Anche se al momento la Cina non pare particolarmente interessata a relazioni privilegiate con l’Italia, che semmai è la porta di un maggiore ingresso cinese in Europa.
Il dispositivo neo-nazionalista non si manifesta in un discorso compiuto, tantomeno costruisce una definita strategia di politica internazionale. Ma agita argomenti che possono incidere sulla cultura politica di questo paese e che non devono essere sottovalutati. La pericolosità di questo discorso ideologico non sta nella sua reale fattibilità, quanto nelle possibili conseguenze. Si tratta di mettere insieme diversi indizi, anche osservando altri scenari, come l’insistenza di una parte della maggioranza giallobruna per la riapertura dell’ambasciata italiana in Siria.
Il neo-nazionalismo, purtroppo condiviso anche in settori di autodefinitasi “sinistra”, guarda a un mondo di ri-sovranizzazione delle relazioni internazionali, nel quale il “nostro paese” possa navigare in maniera furba e creativa senza prendere posizione e schierarsi fino in fondo. È la politica di chi partecipa da anni ai convegni internazionali organizzati dagli intellettuali di riferimento di Putin e allo stesso tempo considera Donald Trump il proprio faro ideologico e comportamentale. La ri-nazionalizzazione vorrebbe dare al sistema-Italia la possibilità di nuovi rapporti internazionali, naturalmente svincolati da qualsiasi interesse per le vite altrui e per comuni vicende umane e politiche.
Cerchiamo di evitare di farci prendere in giro da una nuova «grande proletaria». È l’esatto contrario di quello che per noi è stato e dovrebbe essere l’internazionalismo, che alcuni chiamano con qualche buona ragione trans-nazionalismo: non mettere al centro la nazione o peggio la patria, quanto i soggetti oltre le nazioni, quei soggetti con cui costruire uno sviluppo compartecipato e condiviso, a partire dalla consapevolezza di quale sia il nostro posto in questo disordine mondiale.
*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerra&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre).
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