L’autunno dei Cpr
Non risultano annunci ufficiali ma oggi dovrebbe aprire il centro di detenzione di Gradisca d'Isonzo. Ennesima istituzione totale contro i migranti
Lo scorso 12 ottobre, la Rete no Cpr ha organizzato a Milano un corteo contro l’apertura del Cpr nell’ex Cie di via Corelli, del quale la ministra dell’interno Luciana Lamorgese rivendica l’idea dell’apertura. Nonostante la grande campagna mediatica e la scelta di affiancare l’opposizione all’apertura del Cpr a quella ai cosiddetti decreti sicurezza, la partecipazione era stata molto ridotta: secondo i manifestanti, erano scese in strada quattromila persone. Come era parzialmente prevedibile, la lotta contro i centri di internamento per persone senza documenti non raccoglie molta attenzione e capacità di mobilitazione; raccoglie tuttavia un’enorme attenzione e sforzo repressivo da parte delle forze di polizia.
Questo testo è la continuazione di un primo articolo che ho scritto qualche mese fa, prima della traslazione dal governo Conte I al Conte II. Da allora, oltre al velo illusorio di una retorica più accomodante e perbene, non è cambiato niente nella gestione governativa delle migrazioni. Tuttavia qualcosa è successo: secondo indiscrezioni, il Cpr di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) aprirà il 17 dicembre; al contrario, l’apertura Cpr di Macomer (Nuoro) – prevista per il giorno successivo – è stata rinviata. Individuato dal governo Amato, aperto dal secondo governo Prodi come Cpt, rinominato Cie dal quarto governo Berlusconi, ristrutturato dai governi Conte, il Cpr di Gradisca apre nell’inverno 2019, nel terzo mese dell’era senza twitter della ministra Lamorgese.
Questo articolo è scritto con la rabbia di chi, collettivamente, ne ha osservato la costruzione, augurandosi che non venisse aperto mai. È scritto in solidarietà piena con le persone rinchiuse, rimpatriate o fuggite e con chi sta subendo una stretta repressiva per aver lottato contro l’esistenza di questi centri, da dentro e da fuori.
L’apertura dei centri di detenzione
Con la legge Turco-Napolitano, emanata dal primo governo Prodi, con l’appoggio di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani e dei Verdi, si aprirono i primi Cpta, «diffondendo anche in Italia un diritto speciale che sanziona una violazione amministrativa come il soggiorno o l’ingresso irregolare nel paese con una forma di trattenimento, o per meglio dire detenzione, caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali e urgenti in cui questo è consentito in base all’articolo 13 della Costituzione italiana», come scrive Fulvio Vassallo Paleologo.
In breve, i campi di internamento per stranieri istituiscono in Italia – come già in Europa – dei luoghi di eccezionalità, degli spazi non governati dal diritto e per questo sottratti al mito della «rule of law», cioè quel concetto illuminista che indica al tempo stesso il fatto che il sovrano deve sottostare alla legge, che la legge è uguale per tutti, che nello stato moderno vige il principio di legalità su tutto il territorio. I Cpr – a differenza delle carceri – sono dei luoghi di trattenimento finalizzati ad continendos homines, non ad puniendos: cioè riproducono sulla superficie liscia dello stato-nazione contemporaneo una sacca del diritto pre-illuminista in cui le carceri erano pensate come luogo per contenere i condannati in attesa del giudizio o della pena (in questo caso, si tratterebbe invece dell’identificazione e dell’espulsione) e la privazione della libertà non era pensata come punizione in sé e per sé. Insomma, i Cpr sacrificano la libertà personale dei reclusi – diritto fra i principali previsti dal catalogo costituzionale – a seguito del riconoscimento di una mera violazione amministrativa, dunque di un illecito che non implica una presunzione di pericolosità sociale o una esigenza sociale di rieducazione; i Cpr si rendono così non-luoghi insostenibili anche alla luce degli stessi canoni di legalità previsti dal diritto italiano. Ciò nonostante, nessun governo dal 1998 a oggi ne ha mai proposto la chiusura o rimesso in discussione l’esistenza.
I Cpr come istituzioni totali
La definizione di cos’è un’istituzione totale si trova per la prima volta nel celebre testo di Erving Goffman, Asylums, tradotto da Franca Ongaro Basaglia e pubblicato da Einaudi nel 1968, sette anni prima dell’uscita di Sorvegliare e punire di Michel Foucault. Tra le caratteristiche che rendono un’istituzione una «istituzione totale», Goffman annovera: l’obbligo a condividere nello stesso luogo e sotto la stessa autorità tutti gli aspetti della vita; la costrizione a vivere ogni fase a contatto con molte persone e un unico piano razionale che governa il tempo della collettività. Chi viene rinchiuso in un Cpr, come mostrano le testimonianze raccolte nel docufilm Limbo, vive esattamente in queste condizioni: in un luogo sovraffollato e privo di intimità, controllato da operatori e operatrici (generalmente con contratti presso cooperative) e da un numero sovrabbondante di forze di polizia, dove la giornata è scandita dal tempo del sonno (spesso indotto da sonniferi, anche coattamente), quello della consumazione dei pasti ed eventualmente quello delle visite mediche.
Tuttavia, non sono questi elementi a rendere totale un’istituzione: «Per quanto siano dure le condizioni di vita nella istituzione totale – scrive Goffman – la sola durezza del trattamento non può dare questo senso di vita sprecata; dobbiamo piuttosto guardare alla frattura sociale provocata dall’ingresso nell’istituto e dall’impossibilità usuale di ottenere, all’interno dell’istituzione, profitti trasferibili nel mondo esterno». Negli istituti psichiatrici dove la devianza viene patologizzata, la medicina può essere uno strumento produttore di senso (cioè: il tempo non è perso perché serve per guarire), nelle carceri il trascorrere del tempo serve a pagare il debito con la società e quindi a guadagnarsi la libertà, mentre i Cpr sono per eccellenza il luogo del tempo sprecato, dell’attesa vana e senza una scadenza se non la decorrenza del tempo massimo di trattenimento, che può sfociare o nel rilascio con foglio di via, e quindi nella condanna alla clandestinità, o nella tragedia del rimpatrio forzato.
Un altro elemento rende i Cpr esemplari delle istituzioni totali, cioè mostra la loro appartenenza alla classe delle istituzioni totali e insieme il loro protendersi al di fuori dei limiti di quella classe. Secondo Goffman, le istituzioni totali non sono completamente impermeabili alla società esterna: la loro permeabilità si verifica qualora qualche membro dello staff meno qualificato abbia la stessa origine sociale degli internati, come può avvenire nelle prigioni statunitensi nel caso sia presente del personale nero. Al contrario, nei Cpr sussiste sempre una differenza di status (cittadina/o vs non cittadina/o) e, generalmente anche se non necessariamente, una differenza razziale: in breve, dentro i Cpr, ci sono sempre persone bianche che tengono sotto controllo persone nere o perlomeno al di là della linea del colore.
Le rivolte come consuetudine
Ad aver capito davvero cosa sono i Cpr, in Italia, sono solo le persone recluse. Le rivolte non sono occasionali, ma durature, continue, sistemiche. Generalmente prendono a pretesto un episodio, ma le ragioniprofonde sono strutturali. Nel solo 2019, con sette Cpr aperti in Italia, si contano moltissimi casi di fughe, incendi, distruzioni parziali dei centri. Quasi mai questi episodi trovano spazio nella cronaca nazionale e nemmeno nella narrazione delle bolle sociali antirazziste: per farne un archivio, bisogna affidarsi al lavoro di alcuni siti sensibili e alle cronache locali. Se da un lato le testimonianze che ha senso stare ad ascoltare sono solo quelle delle persone recluse, dall’altro non fuori da tutti i Cpr ci sono persone disposte a farsi orecchie e questo fa sì che, in questo tentativo d’archivio, ci si debba basare anche su notizie dei giornali e dei sindacati di polizia. Che questa rivolta continua non abbia non solo possibilità di farsi cronaca ma di conseguenza nemmeno di farsi storia è un aspetto tragico di questo fenomeno di segregazione contemporanea.
Nel Cpr di Torino, uno di quelli dai quali escono più notizie grazie alla maggiore ricettività esterna, negli ultimi dodici mesi si sono susseguiti continuamente scioperi della fame, incendi e fughe. Le condizioni di vita nel Cpr hanno avuto qualche visibilità mediatica in due occasioni: la prima, è stata la morte di Sahid Mnazi, un trentaduenne bengalese trovato morto dopo aver raccontato ai suoi compagni di aver subito una violenza sessuale; la seconda, è stata la liberazione del dissidente turco Deniz Pinaroglu dopo uno sciopero della fame. Deniz era fuggito dalla Turchia, dove rischiava il carcere dopo un processo per vilipendio al presidente della repubblica come molti altri giornalisti, attiviste e intellettuali turchi, e aveva raggiunto l’Italia tramite la rotta balcanica, dove era stato rinchiuso nel Cpr di Torino, nonostante avesse fatto richiesta di asilo. Dall’interno, commentava:
Qui le condizioni sono terribili. Dalle condizioni per dormire a quelle per passare la giornata si tratta di un posto peggiore di un carcere. Ci sono persone che restano qui anche per sei mesi in attesa dell’espulsione. Le condizioni psicologiche dei migranti sono terribili. In poco tempo ho assistito a due tentativi di suicidio e una rivolta molto violenta. In tutto questo la reazione della polizia è stata molto aggressiva.
Un compagno di Sahid Mnazi, invece, aveva dichiarato a fanpage.it:
Qui dentro la situazione è indescrivibile e le violenze sono frequenti. Qualche giorno fa un ragazzo è stato picchiato da degli agenti di polizia e ha perso quattro denti. Lo stesso ragazzo oggi ha partecipato alla rivolta dopo la morte di Sahid. Non siamo animali.
Dei Cpr pugliesi si sa molto meno: a Bari-Palese, uno dei centri più duri e violenti, ci sono state grandi rivolte soprattutto a dicembre 2018 e ad aprile 2019, alle quali sono seguiti gli arresti di alcune persone. A Bari-Palese, nel luglio 2019, è stato temporaneamente trattenuto Divine Umoru, dopo la notifica di un decreto di espulsione ad personam, firmato direttamente dall’allora ministro dell’Interno. Stando a un comunicato a firma Compagn* di Divine, nonostante Divine vivesse in Italia da circa vent’anni e avesse le carte in regola per lapermanenza, un giudice aveva convalidato la misura di espulsione attraverso un’udienza per direttissima. Il rimpatrio era stato evitato grazie all’intervento di una sessantina di persone all’aeroporto di Malpensa, mentre gli avvocati preparavano una serie di ricorsiper sospendere l’ordinanza ministeriale, tra i quali uno alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che lo aveva accolto sospendendol’espulsione. A Brindisi, Harry, un ventenne nigeriano, si è suicidato nella notte del primo giugno 2019, nel Cpr di contrada Restinco, dove era rinchiuso nonostante i suoi problemi psichici fossero noti al Csm, secondo quanto riportato dal sito della campagna LasciateCIEntrare.
Se in tutti i Cpr le rivolte sono costanti, alcuni sono noti per essere particolarmente combattivi, come il Cpr di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. In quel Cpr le rivolte e soprattutto le fughe sono continue e massicce, come sono costretti a riconoscere gli stessi sindacati di polizia: il Coisp lamenta che «nei giorni immediatamente precedenti la Santa Pasqua [2019, nda] ne scapparono via 22!», mentre il Silp-Cgil a settembre 2019 riferisce che i trattenuti, «quando sono stanchi di sopportare i disagi del centro, scavalcano e lo lasciano.Negli ultimi giorni oramai sembra che l’allontanamento arbitrario dal centro sia una pratica diffusa».
In Sicilia, a Caltanissetta si registrano ripetutamente rivolte contro le deportazioni: la stessa Questura locale ha ammesso che le proteste sono ormai «una consuetudine perché scattano ogni volta che si prefigura il rimpatriodi alcuni ospiti del Cpr previsti settimanalmente». Il Cpr di Trapani, situato nella frazione Milo, già Cie (dal 2015) e hotspot (dal 2018), è stato riaperto ufficialmente come Cpr a settembre 2019, a venti anni dalla strage del Cpt Serraino-Vulpitta, quando sei persone morirono bruciate in una cella, dove erano state rinchiuse dopo una rivolta in seguito all’internamento subito dopo lo sbarco, come racconta un sopravvissuto.
A Roma, a novembre 2018, le donne della sezione femminile (unica in Italia) del Cpr di Ponte Galeria hanno comunicato alle persone solidali in presidio la morte di una donna all’interno del centro. La notizia è stata poi confermata nella relazione del 2018 del garante delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale della regione Lazio, dove si legge che «una donna di nazionalità moldava è morta per un attacco cardiaco all’interno del Centro.Risiedeva in Italia da molti anni con impiego da badante ed era stata fermata con documenti non validi pochi giorni prima nelle strade della Capitale». Lo stesso garante riferisce che nella sezione femminile del Cpr «lo stato delle zone di trattenimento delle donne è al di sotto di qualsiasi standard umanitario»; del resto, Rachel, una trentenne reclusa, aveva detto a dei consiglieri regionali in visita: «Qui si sta peggio che in manicomio, facciamo una vita che può distruggere le persone, certo non le può migliorare. Piano piano la vita così va giù». Dopo la riapertura della sezione maschile a giugno 2019, il Cpr di Ponte Galeria è stato tra i più accesi, con le prime rivolte a un mese dall’apertura. In seguito alla rivolta di settembre scoppiata all’annuncio di una deportazione, quattro sezioni su sei sono state pesantemente danneggiate, ma solo una è stata chiusa, costringendo cosìdecine di persone a dormire all’aperto.
La coscienza della rivolta sistemica
Ad aver capito che dentro i Cpr la lotta è costante e inevitabile, invece, è lo stato italiano, che costruisce queste strutture a prova di rivolta, su modello delle carceri, e secondo lo stesso uso repressivo dell’architettura in base al quale gli arredi urbani e gli spazi pubblici sono progettati a favore del cosiddetto decoro, cioè della marginalizzazione della devianza e della povertà. Stando a una testimonianza di una delegazione di Sel, entrata nel Cie di Milano nel 2013, le stanze avevano 4-6 letti ognuna, ancorati al terreno e saldati in ogni loro pezzo, non vi erano mobili, ma una sorta di antina in cemento incassata nel muro; i materassi erano ignifughi e le finestre dotate di sbarre strette; le porte in metallo erano prive di maniglia all’interno e il riscaldamento eraa pavimento. Questa descrizione corrisponde a quella fatta dagli internati nel Cie di Torino e in altri centri. Per esempio, secondo il blog Hurriya, la sezione maschile del Cpr di Ponte Galeria è oggi composta da
sei grandi celle [delle quali cinque rese inagibili dalla rivolta di settembre, nda] circondate da sbarre di ferro, dalle quali non si esce mai se non per andare in infermeria o a fare la doccia e la barba. Il cibo e l’acqua (una bottiglia al giorno, calda, senza tappo) vengono passati direttamente dalle sbarre: non esistono infatti zone comuni con tavoli e sedie dove poter mangiare o parlare con chi è in altre aree. Evidente è l’intento di ostacolare il più possibile forme di socializzazione e organizzazione collettiva dei reclusi.
Negli anni, in seguito ai danneggiamenti delle strutture provocati dalle rivolte, i Cpr sono stati progressivamente dotati di un arredo interno sempre più minimale e inutilizzabile ai fini di protestare. Stando a un articolo del quotidiano locale, la struttura rinnovata del Cpr di Gradisca – che sarà gestito dalla cooperativa Edeco, nota per aver coordinato il campo-lager di Cona (VE) – è «di massima sicurezza, contanto di sistema di videosorveglianza potenziato rispetto a quello dialcuni anni or sono, vasche esterne non più comunicanti tra loro ma diviseper camerata, e l’impossibilità di accedere al tetto», cioè al luogo dal quale gli internati in rivolta tentavano la fuga e riuscivano a comunicare con l’esterno.
Il nuovo governo: «Una vicenda non particolarmente bella»
La ministra Lamorgese, a margine del summit di Malta a settembre 2019, diceva: «Gli accordi con la Libia li teniamo, stiamo lavorando bene con la Guardia Costiera, che fa un gran lavoro». La stessa ministra, nell’audizione sulle linee programmatiche del ministero alla I commissione della camera il 20 novembre scorso, rivendicava un numero di rimpatri maggiore del suo predecessore e chiedeva che il parlamento destinasse più fondi alla costruzione di nuovi campi di internamento:
Consideriamo l’intensificazione dei rimpatri una priorità. Dall’inizio dell’anno al 14 novembre sono stati effettuati 5940 rimpatri a fronte dei 5395 dello stesso periodo del 2018. In particolare, dal 5 settembre di quest’anno – data di insediamento del governo – sono ben 1304 rimpatri portati a compimento. Le procedure accelerate […] stanno effettivamente dando degli ottimi risultati. […] Sempre sul piano interno, anche al fine di intensificare l’azione tesa a rendere effettivi i rimpatri coattivi, conto nei prossimi mesi di poter aggiungere ai sette Centri di permanenza per il rimpatrio attualmente una disponibilità di ulteriori posti, pari a trecento, attivando ulteriori strutture.
Se quanto alla questione immigratoria, l’attuale governo prosegue la politica del governo precedente, indorando tuttavia la stessa politica di morte con una narrazioneun poco più accogliente e multiculturalista, al contrario, sulla questione specifica dei Cpr, non sente la necessità nemmeno di moderare i toni o far passare sotto silenzio la sua politica segregazionista: le espulsioni non solo sono da fare, ma sono da rivendicare, anche per il Partito democratico. Leggere la questione dei Cpr in rapporto a questo governo, a quello precedente, a tutti i governi degli ultimi vent’anni, è un modo per capire l’ideologia profonda dei partiti al potere e svelare le aporie di certi antirazzismi, mentre la gente che sta rinchiusa dentro, in Italia come nel resto d’Europa, continua a lottarci contro.
Scriveva Michel Foucault in Le parole e le cose,
Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie […] inaridiscono il discorso, bloccano le parole su sé stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi.
E i Cpr sono solo eterotopie da distruggere.
*Michela Pusterla è dottoranda in italianistica all’Università di Trieste
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.