
Le frocie società naturali
Con posizione pilatesca, la Corte costituzionale non ha mai davvero preso in considerazione le coppie omosessuali. O, per chi preferisce dirla così, le persone omosessuali come soggetti di diritto all’interno delle loro coppie
A cinque anni di distanza dalla legge n. 76/2016 sull’«unione civile tra persone dello stesso sesso» non si parla quasi più di matrimonio egualitario, mentre la stessa legge rimane generalmente poco criticata, quando non è direttamente celebrata come vittoria delle lotte Lgbti+ o del Partito democratico, del governo di Matteo Renzi, del lavoro di Monica Cirinnà.
È all’interno di queste celebrazioni (dentro cui trovano felice spazio – ancora, dopo cinque anni – diverse parti del movimento Lgbti+) che a me sembra si debbano inquadrare sia le minimizzazioni sulle differenze tra matrimonio e unione civile, avanzate da molte voci anche giuridiche, sia certe elaborazioni queer italiane, schiacciate più dall’urgenza di verificare le tesi di Lisa Duggan o Jasbir K. Puar che dal bisogno di contestualizzarle e metterle alla prova. A me sembra che, in Italia, ci siano possibilità – talvolta sottovalutate – di analisi e/o contestazione frocia persino attraversando la richiesta del matrimonio egualitario, su cui undici fa anni si espresse, per la prima volta, la Corte costituzionale con la sentenza n. 138/2010. Rileggendo questa pronuncia anche alla luce delle successive scelte compiute dal parlamento, emerge uno dei centri pulsanti dell’omofobia istituzionale, che investe non tanto e non solo la disciplina matrimoniale in sé, ma proprio la dimensione pregiuridica della famiglia, sintetizzata nell’articolo 29 della Costituzione con le parole «società naturale».
Ignorata dai testi Lgbtiq+, finanche nella sua portata politica, la sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale è stata fin troppo commentata dal mondo giuridico italiano, generando un florilegio di interpretazioni opposte, critiche, riposanti, arrabbiate, allarmate, apologetiche. Secondo alcune voci, per esempio, la Corte avrebbe dato un’interpretazione restrittiva dell’articolo 29 sui rapporti tra la Repubblica e la famiglia, considerando quest’ultima come unione tra un uomo e una donna (più eventuale prole) e, quindi, vietando del tutto il matrimonio egualitario, sic et simpliciter; secondo altre, non avrebbe espresso un divieto ma sostenuto che il matrimonio egualitario si possa fare, in Italia, solo con una legge di revisione costituzionale; secondo altre ancora, il legislatore potrebbe decidere qualsiasi cosa con una legge ordinaria; eccetera. Alla ricerca del senso di una sentenza complessa, ma in diversi punti considerata contraddittoria e problematica, tale dibattito ha, quasi sempre, dato per scontato che l’analisi giuridica potesse esaurire il campo interpretativo, al punto da dover spaccare il capello su determinati passaggi, frasi o ragionamenti della Consulta. Molto raramente, invece, gli argomenti utilizzati sono stati intrecciati ad altri campi e altre discipline – storiche, sociologiche, politologiche, semiologiche e via dicendo, inclusi, ovviamente, i saperi Lgbtiq+ – forse in grado di illuminare le assenze, i limiti, gli errori contenuti nella sentenza, addirittura la sua coerenza interna. Detta fuori dai denti, alcuni problemi dipendono dal fatto che la Corte costituzionale non ha mai, davvero, preso in considerazione le coppie omosessuali o, per chi preferisce dirla così, le persone omosessuali come soggetti di diritto all’interno delle loro coppie.
La sentenza n. 138/2010 ha stabilito che «l’unione omosessuale» sia da annoverare tra le «formazioni sociali» dell’articolo 2 della Costituzione, poiché «per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» [corsivi aggiunti]. In tale senso, dunque, (anche) alle persone omosessuali «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», mentre è al parlamento che, con «una disciplina di carattere generale», tocca riconoscere l’unione same-sex, insieme ai diritti e ai doveri dei suoi componenti. Per la Corte costituzionale, cioè, non può essere lei a intervenire sulla materia e non è lei a poter dare risposte, ma il legislatore che deve, perciò, muoversi «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost.». Inoltre, sottolinea la Corte, andrebbe escluso che «l’aspirazione» al riconoscimento giuridico delle coppie formate da persone dello stesso sesso «possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». Secondo alcune analisi, in questo passaggio si aprirebbe – più che altrove – l’ipotesi del matrimonio egualitario per via legislativa e non esclusivamente quella di un istituto giuridico altro, come l’unione civile (regolata oggi dalla legge n. 76/2016). D’altra parte, la «famiglia» dell’articolo 29 è generalmente considerata come «formazione sociale primaria» e, in questo senso, potrebbe risultare un effetto dell’applicazione dell’articolo 2, sebbene lungo un percorso comunque infarcito di privilegi. Ferme restando queste interpretazioni, a me sembra che non sia mai stato adeguatamente sottolineato il linguaggio usato dalla Corte, il suo orizzonte di pensiero e le ricadute teorico-pratiche della sua rigida impostazione. Soprattutto, non mi sembra sia stata sondata – e denunciata, più che descritta – l’omofobia o, se preferite, la profondità della norma eterosessuale nelle istituzioni della Repubblica italiana.
Per la sentenza n. 138/2010, in quanto frocia, io avrei un diritto inviolabile a vivere liberamente una condizione di coppia con una persona del mio stesso sesso (anagrafico) – e non si capisce perché non dovrebbe essere così, come potrebbe mai essere altrimenti – ma non posso far altro, poi, che «aspirare» a un riconoscimento giuridico della mia coppia «con i connessi diritti e doveri». Se, cioè, mi è stato riconosciuto il diritto fondamentale di autodeterminarmi nelle mie relazioni, non mi è stato riconosciuto il diritto, ossia la pretesa, delle tutele derivanti dal vivere dentro quella relazione frocia. In sostanza, non ho il diritto ad avere i diritti connessi alla coppia proprio per il fatto di aver agito, prima, il diritto alla mia libertà, da sommare a quella agita dal mio partner (come a dire: chi vuole la bicicletta…); per tali libertà agite, entrambi paghiamo lo scotto nei termini di una mera «aspirazione» all’ottenimento, «nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge», di una non precisata forma giuridica che coincida con la nostra, frocia, «condizione di coppia». Laddove, invece, qualora fossi parte di un’unione eterosessuale, magari contro la mia autodeterminazione, non soltanto avrei il diritto fondamentale a vivere liberamente una condizione di coppia, ma potrei forzare la Repubblica a riconoscermi tutele attraverso un istituto come quello matrimoniale.
Rispetto al «diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», con la sentenza n. 4184/2012, la Corte di Cassazione ha seguito l’interpretazione su esposta, al punto da aggiungere che la Consulta abbia di fatto affermato (o confermato), in base al primo comma dell’articolo 3 sul principio di eguaglianza, il divieto «di qualsiasi atteggiamento o comportamento omofobo e [di] qualsiasi discriminazione fondata sull’identità o sull’orientamento omosessuale». Tutt’al più, scrive la Suprema Corte, quel diritto fondamentale derivante «immediatamente» dall’articolo 2 «comporta che i singoli (o entrambi i) componenti della “coppia omosessuale” hanno il diritto di chiedere, “a tutela di specifiche situazioni” e “in relazione ad ipotesi particolari”, un “trattamento omogeneo” a quello assicurato dalla legge alla “coppia coniugata”, omogeneizzazione di trattamento giuridico che la Corte costituzionale “può garantire con il controllo di ragionevolezza”». Da questo si ricava, quindi, che non si tratta, come talvolta detto, di un vero e proprio «diritto alla vita familiare». Come frocia, posso pure vivere una relazione con una persona del mio stesso sesso (anagrafico), posso pure convivere con lei, posso pure definirmi in coppia senza che mi si possa sanzionare o rendere oggetto di discriminazioni o vai a sapere, posso pure provare a vincere una cinquina alla lotteria dei diritti fondamentali, ma poi, in realtà, compiuta quella scelta libera e condivisa, anzi: proprio perché l’ho compiuta, agli occhi della Repubblica divento un soggetto di menomabile diritto. Se in quanto individuo e in quanto cittadino sono tutelato nel mio percorso di autodeterminazione, addirittura frocia, e grazie tante, per il diritto italiano la mia coppia non ha piena dignità sociale, resta diseguale e può esistere solo nella misura in cui viene creata, istituita, dal legislatore.
È qui racchiusa la potente concezione ideologico-politica – trasformata in tesi – della sentenza n. 138/2010 che orienta anche la legge n. 76/2016 sull’unione civile tra persone dello stesso sesso e la convivenza: secondo le istituzioni repubblicane e democratiche, le persone che vivono in una coppia same-sex non darebbero né potrebbero dar luogo mai a una «società naturale», ossia – tradotto – a una società che vanta «diritti originari e preesistenti allo Stato», invocabili in presenza di vuoti, soprusi, mancanze. Non essendo, non potendo essere una famiglia, danno piuttosto luogo a una «comunità d’affetti» e, si sa, l’affetto come ponte relazionale non genera diritti. La famiglia ha le sue ragioni, che il cuore non conosce – così come non le conosce l’eguaglianza. Infatti, per non meglio specificate e all’apparenza assurde «ragioni di ordine logico», la Corte costituzionale ha dichiarato di non poter leggere l’articolo 29 alla luce del 3 sul principio di eguaglianza, ma di dover fare l’esatto contrario. O, forse, più propriamente ma timida nel volerlo ammettere, rifiutandosi ab origine di considerare le persone omosessuali eguali alle persone eterosessuali nelle rispettive formazioni sociali e dando quindi, fin dall’inizio, un’interpretazione catastrofica del principio di eguaglianza, arriva a sostenere che l’articolo 29 definisce come «società naturale» solamente la «famiglia legittima», cioè quella fondata sul matrimonio tra persone di diverso sesso (anagrafico).
Per arrivare a trattare a valle l’articolo 3 nell’ordine logico scelto a monte, la Corte costituzionale sente il bisogno di costruire una cornice interpretativa che possa sostenere l’assenza di un’«irragionevole discriminazione» nelle norme dell’ordinamento italiano e che funzioni, in sostanza, come deroga razionale e ponderata all’eguaglianza, «in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee» non alle unioni tra persone di diverso sesso, coniugate o meno, bensì – attenzione – «al matrimonio». Ma porre sullo stesso piano un istituto giuridico straight, per dirla col lessico di Monique Wittig, e una formazione sociale queer, frocia (quando quest’ultima interroga proprio l’elemento qualificante della straightness) significa voler con violenza rinaturalizzare il matrimonio come differenza e complementarità 2.0 dei (due) sessi (anagrafici), reincorporarlo – con tali caratteristiche – nella «società naturale» e, quindi, ritenerlo di per sé stesso dentro il pregiuridico, le cui porte sarebbero chiuse alle coppie same-sex, all’omosessualità. Per certi versi, d’altronde, è ciò che è stato definito, in senso forse più descrittivo che critico, «paradigma eterosessuale». La coppia eterosessuale coniugata, cioè la «famiglia legittima», coinciderebbe del tutto con la «società naturale» e si porterebbe appresso l’intero matrimonio; più in profondità, la coppia eterosessuale coinciderebbe con la pretesa dei suoi diritti originari innanzi alle istituzioni della Repubblica democratica. La coppia omosessuale, invece, sarebbe talmente incapace di «(potenziale) finalità procreativa» – uno dei punti sollevati dalla Corte per sottolineare il rilievo costituzionale del matrimonio – da non riuscire nemmeno a produrre diritti originari e preesistenti allo stato giacché mancante di dignità sociale, come si è già detto, e considerata fuori dalla linea del tempo.
Nella sentenza n. 138/2010, è dunque la sfera del pregiuridico – non del giuridico – a essere negata alla coppia same-sex. Una negazione che rimane, sempre, il centro delle argomentazioni della Corte costituzionale e della sua concezione politico-ideologica, permettendole di scrivere con coerenza e con chiarezza che «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio», dove il nome del «matrimonio» non indicherebbe l’istituto di diritto positivo ma la «società naturale». Questo «quadro» teorico, da appendere dritto persino dentro stanze queer, è forte al punto da ricalibrare l’articolo 3 della Costituzione in nome del pregiuridico, mentre sembra salvarsi, quanto meno in apparenza, la tenuta del principio di eguaglianza e, precisamente, il piano giuridico della sua applicazione. Detta altrimenti, con i suoi diritti preesistenti allo stato e originari, la «società naturale» non può che entrare nell’articolo 3 e ri-definirlo, nel senso di porre un limite e una precisazione, senza però scalfirne né la lettera né il principio democratico.
Laddove, quindi, il primo comma dell’articolo 29 recita che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», il «nucleo» starebbe non tanto e non solo nei rapporti tra lo stato e la formazione familiare – in modo da prevenire ed evitare l’ingerenza del legislatore nella sfera della famiglia, come accadde sotto la dittatura fascista – ma soprattutto nella norma eterosessuale di quella formazione. Se dunque, per alcune voci della giurisprudenza italiana, l’articolo 29 si fonda sulla volontà di «affrontare un problema politico» da parte dell’Assemblea costituente, come ha puntualizzato anche Stefano Rodotà in Diritto d’amore, per la Corte costituzionale tale «problema politico» si porrebbe solo rispetto all’eterosessualità di una coppia, cui è riconosciuta, in via esclusiva, la capacità di incidere sulla linea del tempo. La norma eterosessuale sarebbe l’unica norma scritta – e tangibile – dentro gli sviluppi della storia italiana. Per la Consulta, in questo senso,
è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere ‘cristallizzati’ con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
L’aver posto il matrimonio come indice della differenza e della complementarità dei (due) sessi (anagrafici) nel «paradigma eterosessuale» della «società naturale» non permette alla Corte di poter anche solo vedere le coppie same-sex, estranee quindi alle «trasformazioni dell’ordinamento» e all’«evoluzione della società e dei costumi». Persino quando entrano nei tribunali alla ricerca del riconoscimento di diritti fondamentali, bisogna che si ricordi alle frocie che non c’è posto per l’omosessualità nella storia, nella cultura, nel diritto, nei costumi, nella società, nel «pensiero straight» italiano e, dunque, non v’è traccia delle loro relazioni e delle loro, eventuali, pretese. Questa immaterialità è senz’altro vera sia per la Consulta sia per l’Avvocatura dello Stato, allorquando entrambe registrano i mutamenti della famiglia o del matrimonio ma non sono disposte a cedere sulla coppia formata da un uomo e una donna: il matrimonio non egualitario val bene una «parità dei sessi» (anagrafici).
Per giustificare l’a-storicità delle coppie formate da persone dello stesso sesso e, in fondo, dell’omosessualità, la Corte costituzionale riparte dalle origini e si rifà alle intenzioni dell’Assemblea costituente, ponendo la concezione anni Quaranta del matrimonio come metro di misura delle suddette intenzioni, quindi come parametro-limite entro il quale muoversi alla ricerca (parzialmente fittizia) di una possibile smentita alle sue tesi. Quando dovettero scrivere la Costituzione – è stato evidenziato dalla Consulta – le e i costituenti «tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che […] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso». Insomma, delle coppie same-sex non v’è traccia. Difatti, si dice nella sentenza n. 138/2010, «la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta» [corsivo aggiunto].
Sempre Stefano Rodotà, ne Il diritto di avere diritti, in poche righe è riuscito a riassumere le più acute critiche alla sentenza n. 138/2010 da parte della dottrina. Condividendo l’idea di trovarsi davanti a una pronuncia «pilatesca» e mettendo in parallelo le argomentazioni della Consulta con quelle del Tribunal constitucional del Portogallo (il quale, «negli stessi giorni» e «in una situazione normativa sostanzialmente analoga a quella italiana», accolse la possibilità dell’interpretazione egualitaria del matrimonio), Rodotà ha sostenuto che
la Corte costituzionale, invece di partire dal principio di eguaglianza per interpretare l’art. 29 della Costituzione sul matrimonio, ha preso le mosse dal modo in cui il codice civile disciplina l’istituto matrimoniale, dando così testimonianza della fatica che ancora si fa quando si tratta di riconoscere la posizione sovraordinata della Costituzione e di prendere atto, come altrove era avvenuto, delle dinamiche culturali e sociali che accompagnano la vita delle istituzioni giuridiche [p. 294].
Avanzando una tesi non giuridica ma politica, sebbene dimostrata attraverso il linguaggio delle norme, la Corte costituzionale non ha inteso riferirsi al codice civile come insieme ordinato di disposizioni. Piuttosto, lo ha letto come espressione della società e come orizzonte di pensiero dell’Assemblea costituente, riconoscendogli, cioè, la capacità di restituire un clima culturale. La straightness del matrimonio del 1942 può essere accostata, addirittura anteposta, alla Costituzione, nella misura in cui caratterizza non un istituto giuridico e basta, ma una convenzione sociale che informa il dato pregiuridico, che viene quindi costituzionalizzata dall’Assemblea e che dalla Corte è leggibile, ancora nel 2010, attraverso le parole «società naturale». Detta altrimenti, l’articolazione straight del matrimonio nel codice civile, emanato sotto la dittatura fascista, rinforzerebbe l’a-storicità dell’omosessualità. D’altro canto, come già anticipato, nella sentenza n. 138/2010 si legge che «la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta» [corsivo aggiunto]. La stronzata, innanzitutto di ordine storico, racchiusa in questo passaggio è rivelatoria dell’incapacità ermeneutica della tesi politica avanzata dalla Consulta; un’incapacità rivolta, da un lato, all’apertura del matrimonio in senso egualitario e, dall’altro, proprio alla possibilità di cogliere le coppie di «Affermazione civile» e l’evoluzione dei discorsi intorno all’omosessualità, passata dal confino, dai manicomi e dalle galere alle esplosioni di orgoglio e fierezza frocia. In sostanza, i giudici costituzionali della sentenza non vedono né possono vedere tutto ciò che, per loro, non ha né valore né dignità sociale poiché – dicono – da nessuna parte rinvenibile, positivamente o indirettamente. Dentro una tale, omofoba, concezione politico-ideologica della scrittura del tempo straight, non vedono né possono vedere l’emersione della «società naturale» frocia, variamente vissuta nelle dialettiche politiche, nell’attraversamento di tempi e spazi Lgbti+, nelle politiche queer e, persino, nel radicale rifiuto del matrimonio.
Non volendo sanare la crepa ormai aperta, sei anni dopo la sentenza n. 138/2010, il Legislatore ha dichiaratamente accolto e istituzionalizzato l’intera tesi politica della Corte costituzionale. La disciplina generale per le coppie same-sex, infatti, si apre con queste parole: «La presente legge istituisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione» [l. n. 76/2016, primo comma]. Ciò che, un tempo, era l’ostacolo ermeneutico all’interno di una complessa, e omofoba, argomentazione teorico-politica della Consulta è, oggi, legge dello stato. Esclusa dal pregiuridico, la coppia same-sex unita civilmente è così, ufficialmente, «istituita» dalla Repubblica, fusa dentro l’istituto giuridico che regola i diritti e i doveri delle due parti dell’unione civile e irrimediabilmente resa fragile, aggredibile, dall’abuso autoritario del diritto. La specificità dell’«unione civile tra persone dello stesso sesso» è racchiusa qui, nella negazione delle sue pretese in quanto «società naturale».
Forse, allora, è il tempo di ibridare i discorsi e tornare, anche noi, a far politica.
*Yàdad De Guerre è studioso dei movimenti anti-femministi, anti-LGBTIQ+ e neofascisti. È autore del blog Playing the Gender Card.
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