L’eccezione democratica
I partiti non si fidano degli elettori: ne invocano di continuo la responsabilità. Salvo ritenersi deresponsabilizzati verso la propria base elettorale
Le modalità della fine del governo Draghi sembrano distante anni luce da quelle degli esordi di appena un anno e mezzo fa, ma in realtà il leit motif che ha caratterizzato questa crisi di governo è lo stesso che caratterizzò l’arrivo dell’ex governatore della Bce a Palazzo Chigi. Ora come allora il sistema mediatico- politico che fa perno da una parte sul Pd e dall’altro sui grandi giornali è fortemente insofferente ed impaurito verso il ricorso alle urne. Nel nostro paese ogni occasione di voto si trasforma in un allarme generalizzato per i supposti cataclismi prossimi venturi.
A, è il caso di dirlo, istituzionalizzare questo trend fu, nel 2011, Giorgio Napolitano che di fronte alla crisi irreversibile del berlusconismo decise che un paese sotto attacco dei mercati non potesse permettersi una tornata elettorale; quattro giorni dopo l’insediamento del Governo Monti, la Spagna il cui spread contro i bunds tedeschi era maggiore di quello italiano, andò al voto. Il discorso si ripetette quasi uguale un decennio dopo, con la caduta del Conte II: Mattarella ritenne che durante la pandemia non si potesse votare e, come il suo predecessore, spinse per una soluzione emergenziale; eppure due settimane prima dell’entrata in carico del terzo esecutivo della legislatura si era votato in Portogallo; nel frattempo la coeva crisi di governo in Olanda portava quel paese a elezioni generali in Marzo. Così, di norma, si comportano le democrazie funzionanti; non l’Italia che vive in un costante stato di eccezione.
I motivi di questo terrore per le urne sono sempre diversi, almeno in apparenza: i mercati – eppure lo spread continuò a salire durante il governo Monti; il Covid – eppure la pandemia di certo non rallentò mentre Draghi allentava le restrizioni; la destra – anche se due terzi di quella stessa destra che oggi tanto si teme era, fino alla settimana scorsa, nella coalizione di maggioranza. Il dato politico di fondo rimane che nelle stanze del potere si considera l’Italia una democrazia quantomeno imperfetta, immatura che ha bisogno di essere tutelata da tecnocrati, Presidenti della Repubblica, personaggi che sanno davvero cosa è meglio per il paese, al contrario dei partiti pieni di incompetenti e del popolino incolto che li vota.
È quasi ovvio ma comunque utile sottolineare che in una democrazia parlamentare le maggioranze si formano in Parlamento, che è sovrano. E che, dunque, formalmente la nascita di un governo tecnico, di unità nazionale o chiaramente diverso dalla volontà espressa nelle urne non viola in alcun modo il dettato costituzionale. Eppure la democrazia non è solo forma, ma anche sostanza, e di conseguenza qualche punto da discutere, inevitabilmente, emerge. Andiamo con ordine.
Innanzitutto il continuo gridare all’emergenza democratica in caso di esito sfavorevole al proprio partito è, di per sé, un grave problema in democrazia: delinea infatti una situazione di polarizzazione estrema e di solo parziale riconoscimento della legittimità della posizione politica altrui, tollerata se minoritaria o relegata all’opposizione ma che diventa financo pericolosa in caso di successo della posizione stessa. La delegittimazione avviene sia quando si accusa una forza politica di una scelta – che non si condivide ma legittima, in quella democrazia parlamentare di cui si accennava prima – atta a perpetrare i disegni di un nemico esterno (Putin, ovviamente!); sia quando si paventa il pericolo fascista (e quindi, la fine della democrazia) in caso di vittoria alle urne del nemico di turno. Come ci insegna un grande studioso come Przeworski, la delegittimazione dell’avversario – cosa che in passato, per altro, era prerogativa del berlusconismo – delinea inevitabilmente una democrazia in affanno quando non in crisi e trasforma ogni tornata elettorale in un “giorno del giudizio”, invece che considerare le urne come momento principe dell’espressione della sovranità popolare.
In secondo luogo, il mito dell’uomo forte, tipico del populismo classico, si è trasformato in Italia nella esaltazione di un altro tipo di uomo della provvidenza, il tecnocrate competente, una figura altrettanto pericolosa come possiamo vedere in questi giorni. La fine del governo Draghi è stato descritto, tanto dal Pd quanto dai principali giornali italiani, come una sorta di attentato al paese: «Vergogna» (La Stampa), «Italia Tradita» (La Repubblica, ma anche Letta: «L’Italia è stata tradita»). Commentatori e giornalisti si chiedono increduli come sia stato possibile rinunciare ad un personaggio così rispettato e competente, l’unico, pare, ad esser adatto a governare l’Italia. Non c’è bisogno di scomodare Brecht – beato il paese che non ha bisogno di eroi – per capire che c’è un problema: una delle differenze più importanti tra sistemi democratici o, se vogliamo, legal-razionali e le dittature carismatiche o regimi populisti è proprio il fatto che nessun leader dovrebbe essere indispensabile. L’esatto opposto di quanto fatto in questo anno dalla stampa mainstream e dalla politica centrista, che, in assenza di voti, ha eletto Draghi a suo paladino. Lo stesso Presidente del Consiglio è per altro incappato in uno scivolone lessicale ma soprattutto politico sostenendo, nel discorso alla Camera, che fosse «l’Italia a chiederci di andare avanti»: notoriamente in democrazia il popolo si esprime – chiede – attraverso il voto, che è invece proprio quel passaggio che Draghi non ha mai affrontato.
Ed è proprio questo aspetto che ci porta ad un ulteriore aspetto problematico legato all’esaltazione senza sosta del moderno «Principe» tecnocratico in contrapposizione alla politica populista. Se è vero che in un mondo complesso le capacità personali, la conoscenza della materia, sono un vantaggio notevole, sembra però si sia dimenticato che la politica democratica è innanzitutto creazione ed aggregazione del consenso – offrire una visione del paese, saperne interpretare i bisogni, rispondere alle domande. Le capacità, in democrazia, saranno poi giudicate in base all’azione di governo, quella che in inglese si chiama accountability e che in Italia continua a essere un vocabolo assente dal lessico della politica. Mentre il leader populista è alla disperata ricerca del consenso – credendosi l’unico in grado di incarnare il volere di tutto il popolo – il tecnocrate, pur assurto al ruolo di re taumaturgo, svaluta per sua stessa natura il momento elettorale, giudicato quasi irrilevante rispetto alle competenze. Competenze che, per altro, non sono mai spiegate in dettaglio anche perché ci si accorgerebbe che non esiste la tecnica neutra in politica, che ogni decisione crea vincitori e vinti – che è proprio il motivo per cui la creazione di consenso tra i vari settori della popolazione è l’atto fondante della democrazia.
Ne consegue che è lo stesso ruolo del Parlamento ad essere svilito da questi eventi. Il messaggio del solito Letta dopo la crisi è malaccorto ma soprattutto indicativo di un certo clima politico: sostenere che «il Parlamento si è messo contro l’Italia» è una frase che in bocca di altri leader politici avrebbe, giustamente, menato scandalo. Si ritorna a quanto detto in precedenza: se accettiamo il fatto che il Parlamento è sovrano, che le maggioranze si formano in aula anche a prescindere dal mandato elettorale, bisogna anche saper accettare quando queste maggioranze vengono meno senza attaccare l’istituzione. Ma vale anche la pena soffermarsi sul rapporto tra sovranità parlamentare e mandato popolare: per Robert Dahl una delle caratteristiche fondanti delle società democratiche è il controllo della cittadinanza sull’agenda del governo.
Ora par chiaro che la famosa agenda Draghi non solo non è stata votata ma non si avvicina a nessuna di quelle proposte dai partiti membri del suo governo alle scorse elezioni. Una legislatura con due maggioranze politiche di segno opposto e poi con un governo tecnico di unità nazionale è, non nelle forme, ma nello spirito, lontanissimo da un qualsiasi riferimento alla teoria democratica. D’altronde l’Italia non è certo l’unica democrazia parlamentare europea, eppure rimane l’unica dove le maggioranze cambiano colore, dove si alternano a intervalli quasi costanti governi tecnici. I governi di coalizione, sia chiaro, esistono anche altrove – e nel caso tedesco della Große Koalition destra e sinistra siedono insieme al governo. La differenza sostanziale è che questi governi rimangono invariabilmente politici e non di unità nazionale né tantomeno tecnici: il leader del partito di maggioranza relativa si prende l’onere di trovare una sintesi tra programmi – votati dagli elettori – diversi. In Italia l’agenda invece sembra doverla dettare il Premier tecnico non eletto: Italia Viva, e Calenda, tra i tanti cosiddetti moderati, hanno espresso in maniera piuttosto colorita questo inequivocabile disprezzo per partiti, Parlamento, e democrazia stessa.
In sintesi, dunque, ci troviamo davanti ad un establishment politico-mediatico che teme le elezioni; e che preferisce ad affidarsi a figure di cosiddetta garanzia (ma per chi?) evitando di confrontarsi con la ricerca del consenso; ed anzi, spesso, ignorando il mandato elettorale. Forse invece di accusare semplicemente la destra, che a scanso di equivoci è drammaticamente oscena, bisognerebbe cominciare un ragionamento su come siano stati i comportamenti e le parole dei moderati a usurare la democrazia italiana. Una democrazia in cui sempre meno gente crede, con partiti che non si fidano degli elettori, che non rispondono alle loro richieste, che invocano di continuo la responsabilità salvo ritenersi completamente deresponsabilizzati verso la propria base elettorale. A cominciare proprio da quel partito che porta l’aggettivo democratico nel suo nome.
*Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino
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