Lezioni da Berlino
La vittoria del referendum per gli espropri della grande proprietà immobiliare ci consegna molte indicazioni sulle forme della mobilitazione, sul rapporto tra azione dal basso e livello istituzionale, tra movimenti e partiti
In un momento di sconfitte per la sinistra, celebrare una clamorosa vittoria diventa un evento speciale. Il 26 settembre, circa il 56% degli elettori di Berlino – oltre un milione di persone – ha sostenuto la richiesta radicale di socializzare 240 mila appartamenti nella capitale tedesca. Il fatto che questa campagna abbia fatto un uso così efficace della Costituzione tedesca (o Legge fondamentale), abbia utilizzato gli strumenti dell’organizzazione e unito movimenti così disparati è di per sé un successo politico concreto. Il fatto che abbia prevalso sulle tendenze alla privatizzazione nel mercato degli affitti è un evento storico, da cui la sua risonanza internazionale.
Eppure, in mezzo a un trionfo così inebriante, rischiamo di perdere di vista il fatto che la campagna per riprendere il controllo dei luoghi in cui viviamo non è ancora finita. Ora bisogna fare in modo che il voto referendario si traduca in cambiamento reale. Dunque, non basta più chiamare a raccolta e organizzare le persone, bisogna impegnarsi in un robusto confronto con il Senato. La sindaca socialdemocratica appena eletta, Franziska Giffey, sta già minacciando di ritardarne l’attuazione legislativa, adducendo problemi finanziari come scusa per non dare efficacia al voto. Le sue affermazioni mancano di qualsiasi fondamento fattuale, ma producono conseguenze politiche.
Questa strategia preventiva e la forza della lobby immobiliare erano fattori prevedibili, con cui la campagna avrebbe sempre dovuto fare i conti. Se vuole continuare a fare progressi, ora dovrà utilizzare tutti i margini legali e politici a sua disposizione. Allo stesso tempo, senza un partito forte che ne sostenga le richieste, si scontrerà con un limite politico, quel tipo di difficoltà che raggiunge sempre qualsiasi movimento monotematico: per quanto efficace possa essere stata questa mobilitazione, non può essere sostenuta per sempre.
La verità è che questa campagna di successo, come quasi tutti i gruppi e partiti di sinistra, produce di per sé contraddizioni. Anche guardando allo scarso risultato del partito di sinistra Die Linke nelle elezioni generali tenutesi lo stesso 26 settembre (sceso a meno del 5% di sostegno a livello nazionale), sarebbe fuorviante dire che la campagna single-issue è andata bene mentre il partito non ha avuto consensi. Entrambi condividono lo stesso problema: il loro nucleo è costituito dagli attivisti e non dalla società in generale.
Per vari motivi, il 56% della popolazione di Berlino ha segnato una croce accanto al Sì per la socializzazione degli immobili. Ma non ci è di nessun aiuto dire che si è trattato di un segno di partecipazione. Perché se vogliamo ripetere questo successo, dobbiamo anche guardare realisticamente ai punti di forza e ai limiti di una delle campagne più emozionanti e importanti degli ultimi tempi.
Un campo dinamico
Innanzitutto, vale la pena riconoscere che Berlino era quasi predestinata per un referendum come questo. Lo spirito della scena squatter aleggia ancora per le strade della capitale e nessun’altra città tedesca è cambiata così rapidamente nei trent’anni successivi alla riunificazione. L’aumento del costo degli affitti, la gentrificazione e la privatizzazione, gli appartamenti per le vacanze e gli Airbnb, gli stabili vuoti, gli sfratti e le proteste fanno tutti parte della storia della città. Quindi, il tema della casa si è imposto al centro della scena.
Il fatto che le proteste e le iniziative di diversi inquilini si siano finalmente unite in una lotta comune è dovuto alla consapevolezza che i singoli gruppi di resistenza non possono fare nulla contro la schiacciante pressione dei giganti immobiliari. La politica autonoma dell’occupazione e della ribellione era stata sconfitta. Il ricorso ai precedenti dibattiti sulla socializzazione – dalle discussioni dei sindacati sotto la Repubblica di Weimar all’articolo 15 della Legge fondamentale della Germania Ovest del 1949, che fornisce una base costituzionale per la socializzazione della terra, delle risorse naturali e dei mezzi di produzione – ne è una conseguenza. In quale altro modo si sarebbe potuta esercitare una pressione efficace?
Ma anche altre circostanze hanno giocato a favore della campagna. Il tetto all’affitto imposto dal governo della città di Berlino all’inizio del 2020 non ha arginato il folle aumento affitti, ma l’ha contenuto. È stato un successo parziale per il movimento, che però ha anche tolto spazio alla richiesta di esproprio. Il fatto che il tetto sia stato cancellato dalla Corte costituzionale federale dopo solo un anno, a causa del ricorso presentato dai parlamentari del Partito liberal-democratico (Fdp) e dei cristiano-democratici, rappresenta la sottile ironia della storia. Perché la rabbia divampata nello scorso mese di marzo, dopo la sentenza del tribunale, ha fornito alla spinta per l’esproprio l’impulso di cui aveva urgente bisogno.
Le prime settimane di campagna sono state difficili: faceva freddo e il Coronavirus non ha facilitato le cose. Per i gruppi di quartiere, la raccolta delle firme necessaria per chiedere il referendum era andata secondo i piani, ma non aveva ancora slancio. La situazione è cambiata solo quando l’urgenza della domanda è diventata più chiara dopo la cancellazione del tetto agli affitti.
Ma non bisogna trascurare la stupidità strategica dei giganti immobiliari e l’impudenza della Spd di Berlino. La fusione delle due più grandi società immobiliari, Deutsche Wohnen e Vonovia, ha suscitato la contrarietà degli inquilini già indignati. Eppure sono andati avanti per la loro strada anche durante una campagna referendaria in cui i berlinesi avrebbero deciso sull’espropriao dei grandi latifondisti. Ancora più sfacciata è stata l’azione della Spd sotto il sindaco uscente Michael Müller, favorevole alla fusione.
Le azioni del consiglio comunale guidato dall’Spd sono diventate ancora più ridicole quando pochi giorni prima del voto ha approvato l’acquisto di quattordicimila appartamenti da ristrutturare da Deutsche Wohnen e Vonovia a un prezzo mostruoso. In tal modo, l’Spd ha minato la propria tesi secondo cui la requisizione rappresenterebbe soltanto un onere per il bilancio cittadino e non aiuterebbe il settore dell’edilizia. Piuttosto, la maggior parte degli elettori si è resa conto che la città veniva derubata; in effetti, il risicato successo elettorale del suo candidato sindaco Giffey ne è la prova. La Spd in quanto strenua oppositrice dell’esproprio, rimarrà la più grande avversaria della campagna, insieme alla lobby immobiliare.
Non solo dal basso
Dopo che il referendum del 2015 sugli affitti calmierati è stato sconfitto, gli attivisti avevano capito che una campagna che sfidava il potere dei proprietari immobiliari doveva essere ben organizzata e blindata dal punto di vista legale. Per questo è fuorviante glorificare il referendum di settembre semplicemente come frutto di un movimento dal basso. Perché sono state le persone politicamente attive della scena della sinistra berlinese a mettersi in rete e avviare la campagna che ha condotto alla vittoria. Sono state centrali, organizzando uno sforzo dall’alto.
Il fatto che anche altri abbiano poi aderito alla campagna, divenendo politicamente attivi per la prima volta, è sicuramente un grande merito. Nei gruppi di supporto l’organizzatrice impegnata si è unita all’energico comunista e alla donna curda con reti in tutta la comunità locale. Alcuni gruppi di quartiere, come a Neukölln, erano costituiti principalmente da giovani attivisti, tra i quali diversi migranti, altri venivano da Aufstehen [il partitino fondato dall’ex Linke Sahra Wagenknecht che in passato ha avuto posizioni vicine a quelle della destra sul tema dell’immigrazione, NdT]. Tutti hanno dato vita alla campagna. Il fatto che per un certo periodo si siano astenuti dal litigare sulle divergenze politiche è indice della struttura e dell’obiettivo comune che ha tenuto insieme la campagna.
Nel corso della campagna, tutti hanno imparato: il primo volantino era ancora scritto in gergo accademico, l’ultimo era breve e conciso. Molte hanno imparato a organizzare una riunione o un gruppo nel proprio quartiere. Gran parte del movimento ha maneggiato la comunicazione digitale con incredibile disciplina.
Allo stesso tempo, sarebbe sbagliato affermare che non ci siano state gerarchie informali o gruppi dominanti all’interno della campagna. La maggior parte degli attivisti proveniva dalla Sinistra Interventista (di estrazione autonoma), o magari dalla Linke. Gli individui che non provenivano da questi ambiti hanno confermato che il nucleo era costituito da soggetti che, oltre alla campagna, hanno lavorato per rafforzare le proprie organizzazioni. Non c’è niente di male. Ma in questo senso non si è trattato di un movimento immediatamente dal basso.
La diversità presente nei gruppi di quartiere non si rifletteva nelle riunioni organizzative di livello superiore. Qui si riunivano attivisti politici abituati a riunioni di un’ora. Un movimento dinamico come questo assomiglia a un apparato di partito, anche se a qualcuno non piace ammetterlo. Le forme politiche autonome teorizzano l’orizzontalità, ma sviluppano sempre gerarchie informali, soprattutto attraverso codici, linguaggi e consuetudini. Questo spazio è gestito soprattutto da giovani attivisti universitari. Con simboli scintillanti e bandiere, creano un immaginario di alto profilo, ma fanno parte di un ambiente che ha relativamente poco a che fare con la maggior parte della società.
Nicchia
Il fatto che centinaia di persone siano state costrette a entrare in contatto con il popolo di Berlino raccogliendo firme e parlando porta a porta con i residenti è stato un vero passo avanti per la sinistra. Improvvisamente, non stavamo solo blaterando in modo astratto sulla proprietà o sul capitalismo, ma dovevamo convincere le persone che la socializzazione è una strada plausibile e necessaria.
Ciò ha rafforzato le nostre ragioni e le ha anche ridotte all’essenziale. Ad alcune persone sarebbe piaciuto recitare il Capitale, ma alla fine hanno dovuto rendersi conto che il problema dell’affitto inaccessibile era più vicino a ciò che al momento preoccupa la maggior parte delle persone. Potremmo dire che la campagna ha riportato la sinistra con i piedi per terra. Per una sinistra spesso piuttosto alienata dal resto della società, si è trattato di una benedizione.
Ma soprattutto nelle ultime settimane prima del voto, quando non si trattava soltanto di raccogliere firme, è calata anche la mobilitazione all’interno delle squadre di quartiere, soprattutto quelli periferici. Bisognava intervenire nelle zone più benestanti di Neukölln e Kreuzberg perché l’organizzazione locale non aveva avuto abbastanza successo. Anche a Marzahn-Hellersdorf, una zona dominata da vecchi grattacieli della Germania dell’Est, il sì al referendum ha prevalso di poco, nonostante un massiccio lavoro organizzativo. Altri gruppi di quartiere hanno considerato una forzatura che i Neuköllner mostrassero come utilizzare al meglio gli emoji per mobilitarsi.
A pochi giorni dal voto, l’esproprio veniva spiegato in un video della campagna con un linguaggio comprensibile ed efficace, ma i social media della campagna erano ancora per lo più rivolti a coloro che già la conoscevano o ne erano entusiasti. Di recente, a febbraio, la sindacalista Jane McAlevey ha avvertito che bisognava allargare in modo massiccio la nostra base di attivisti e smettere di sprecare le nostre energie sui social media. Abbiamo trascorso la maggior parte del nostro tempo a mobilitare il voto piuttosto che organizzare a lungo termine gli inquilini.
L’alleanza con i sindacati, i Jusos (giovani della Spd) e Green Youth, Fridays for Future e l’Associazione degli inquilini sono stati essenziali per radicare la campagna nella società civile. Allo stesso tempo, mentre la campagna aveva partner forti, non è stato possibile mobilitare la società nel suo complesso. Alle manifestazioni per la casa, c’erano essenzialmente sempre le stesse diecimila persone di sinistra.
Per quanto importanti siano questi eventi per tenere alto il morale, provengono da un repertorio di movimento che non raggiunge le persone delle periferie, come i prefabbricati Plattenbaus, le case a schiera e gli orti. La rabbia e la frustrazione di molte persone non si riconoscono in videoclip rassicuranti, ragion per cui la gran parte della popolazione non si sentiva coinvolta, anche se l’85% delle persone a Berlino vive in affitto e quindi il potenziale elettorale era pazzesco.
Ad esempio, è stato discusso abbastanza presto che la campagna avrebbe dovuto porsi anche il tema del diritto di voto dei migranti. Sebbene questa richiesta sia corretta – dopo tutto, a Berlino circa il 25% dei residenti non può votare – dovrebbe essere altrettanto chiaro che questo tema richiederebbe un referendum a parte. Tuttavia, e nonostante le scarse risorse, c’è stato un lungo dibattito sulla raccolta di «firme politiche». Nel cercare di tenere insieme tutto, c’era il pericolo di dover fare troppe cose.
Anche la convinzione politica dell’elettorato era motivo di preoccupazione: per ottenere la maggioranza, avevamo bisogno di persone che votassero anche per i partiti di destra. Fortunatamente, non c’è nessun test del Dna prima di firmare una petizione. Quindi, non era raro che per strada capitasse di discutere con complottisti che pensavano che la lobby immobiliare fosse controllata da tre persone, o con persone di destra che odiavano Linke e Verdi, e che sostendendo la campagna volevano colpire il Senato.
Non si tratta di una visione maggioritaria, ma fa parte della società. Il fatto che un progetto di sinistra sia riuscito a raggiungere molte persone di tutte le sensibilità politiche con un messaggio sulla redistribuzione è stato – ed è – la forza della campagna. È sicuramente meglio sopportare l’ambivalenza di non essere in grado di convertire tutti al socialismo nell’ambito di una conversazione, piuttosto che non raggiungere affatto persone con altri punti di vista.
La campagna ha anche rischiato di fallire quando le riunioni sono state travolte da una denuncia per violenza sessuale. La campagna chiaramente non poteva esprimere un giudizio sull’accusa stessa. Ma al posto di una discussione ordinata, ci sono stati dibattiti che hanno paralizzato e diviso la campagna e hanno approfondito le divisioni preesistenti tra attivisti di differenti età e aree. Da questo abbiamo imparato che una campagna di queste dimensioni e portata deve saper affrontare casi del genere.
Una campagna non è un partito (e viceversa)
Il sì ha vinto per il tema del referendum, per l’urgenza della questione, ma anche per la professionalità della campagna, che si è distinta rispetto alla campagna elettorale amatoriale condotta contemporaneamente dai partiti politici tedeschi.
I poster e i materiali sono stati splendidamente progettati e anche i laboratori di argomentazione e raccolta delle firme hanno arricchito gli attivisti. Se una parte di attivisti era fortemente motivata, un’altra parte si è lasciata mobilitare, almeno per un po’. Sarà difficile continuare a tenere sullo stesso piano questa composizione eterogenea ora che il referendum è stato vinto.
Ma quando si tratta di raggiungere l’obbietitvo, i limiti della campagna diventano chiari. Perché senza una consistente forza politica, che la campagna venga incardinata in parlamento non è scontato. Ci sarebbe stato bisogno della Linke — l’unico partito a sostenere il referendum fin dall’inizio — per fare meglio. Invece con poco meno del 14% nelle elezioni del Senato di Berlino, ha fatto anche peggio delle scorse elezioni. Sebbene abbia spinto per il tetto degli affitti e abbia portato nella sua campagna elettorale il tema della casa, non ha beneficiato del successo della campagna a favore degli espropri. Un partito è più di una semplice iniziativa che si mobilita per un problema specifico; deve anche trasmettere forza. Se un partito è percepito solo come un’appendice di una campagna, appare minoritario. Quando i suoi funzionari raccolgono firme, può far piacere, ma il loro vero compito sarebbe competere con l’Spd nel proporre la migliore soluzione sugli affitti che renda una città vivibile.
Così, si è rafforzata l’impressione che il partito stesse disperatamente cercando di ottenere un piccolo aumento di elettori e iscritti sulla scia della campagna. Ma un movimento non è un partito, e vale anche il contrario. Le parti possono posizionarsi strategicamente per fare campagna; possono combinare problemi e concentrarsi su progetti governativi, ma le due cose non dovrebbero confondersi.
La campagna ha giustamente marcato la distanza dalla Linke, anche perché la privatizzazione degli alloggi comunali – ciò che ha reso necessario l’esproprio – è stata tragicamente attuata da un Senato governato da una coalizione Spd-Linke. Allo stesso tempo, l’impostazione politica delle aree autonome ha chiaramente mostrato un suo limite, dato che l’attuazione del referendum ora spetta al parlamento.
In definitiva, una campagna come «Expropriate Deutsche Wohnen & Co» deve ammettere di operare all’interno delle istituzioni statali, dal momento che si appoggia sulla Legge fondamentale della Repubblica Federale. Nonostante tutta l’efficacia dell’organizzazione, non puoi prendere il potere nello stato senza un partito di sinistra o socialista. In questo senso, le speranze di concretizzazione della campagna sono purtroppo legate alla relativa sconfitta della Linke. Una mobilitazione perpetua al di fuori delle istituzioni – la classica strategia autonoma – potrà essere sostenuta solo da un nucleo di attivisti; la campagna non può restare in piedi ad alti livelli a lungo termine.
La realtà è più radicale di noi
In migliaia di conversazioni, abbiamo potuto vedere che le persone sono a volte più radicali di quelle che partecipano ai progetti della sinistra. Questo dovrebbe farci essere ottimisti. La maggior parte delle persone sa molto bene quanto sono aumentati gli affitti e quanto questo sia colpa delle grandi aziende. Capiscono il principio del profitto per pochi. E sanno anche che vengono derubati ogni mese e devono pagare sempre di più per affitti in continua crescita.
Non dobbiamo spiegare nulla. Dovremmo fare una campagna fiduciosa nella nostra richiesta concreta, che potrebbe migliorare le condizioni di vita di centinaia di migliaia di persone. Perché tutto ciò si affermi, non possiamo ricorrere a una comunicazione di nicchia e a una base sociale ristretta. Questo vale anche per la Linke. Si può parlare in modo diretto e convincere la maggioranza delle persone. L’esempio di Berlino ne fornisce una dimostrazione straordinaria.
*Ines Schwerdtner è analista politica e conduttrice del podcast halbzehn.fm. Vive a Berlino. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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