L’interregno globale
Nonostante i grandi media offrano analisi semplicistiche e consolatorie, il mondo si trova in mezzo al guado: il declino degli Stati uniti non lascia spazio a un multipolarismo con rapporti avanzati
Le notizie di guerra si susseguono quotidianamente in una catena di crimini e orrori la cui fine non è attualmente prevedibile. Quello che non è successo con la guerra ucraina sta accadendo con i massacri nella striscia di Gaza: l’allargamento del conflitto. Il Libano è in attesa del momento giusto in cui Hezbollah possa sferrare una sua risposta, per quanto la sua leadership è ancora animata da una particolare prudenza. Il mondo ha conosciuto per la prima volta l’esistenza degli Houthi, gli sciiti yemeniti che in realtà combattono una guerra da quindici anni e che, in solidarietà con i palestinesi, si sono esposti nel golfo di Aden negli attacchi contro gli Stati uniti. Questi stanno attaccando le loro postazioni in Yemen ma hanno allargato lo spettro della risposta militare anche in Iraq provocando, dopo circa un ventennio, la reazione degli sciiti di quel paese pure appoggiati da Washington. Altri conflitti si sovrappongono e si intrecciano, la situazione mondiale non era mai stata così complicata e apparentemente non governata, sia pure da logiche di dominio come quelle imposte dagli Stati uniti dal 1991 in poi.
Il quadro restituisce una realtà internazionale la cui complessità si dipana ogni giorno sotto gli occhi di chi vuol vedere. La narrazione mainstream tende a rimuovere questa complessità e si accontenta di ricostruzioni storiche consolatorie. In gran parte del dibattito pubblico, ad esempio, il conflitto israelo-palestinese viene presentato come se fosse scoppiato il 7 ottobre del 2023 e non cinquanta o settant’anni prima; la guerra ucraina, provocata certamente dalle ambizioni neo-imperiali della Russia, ha comunque degli antefatti che non possono essere trascurati e non può essere letta senza guardare al progetto di espansione a est della Nato. Ma tutto questo, invece, viene costantemente accantonato con il solo scopo di difendere in maniera tetragona – uno dei commentatori più impegnati in questo esercizio è Paolo Mieli, sul Corriere della Sera e nelle ospitate tv – il quadro occidentale, le sue alleanze e le sue gerarchie o sostenere ciecamente Israele e il suo governo senza un briciolo di pietas per quanto sta accadendo a Gaza, spesso descritto come danno collaterale di una giusta guerra al terrorismo («Free Gaza from Hamas» è una delle campagne di cui va fiero il Foglio come se Hamas ormai non fosse parte integrante della popolazione della Striscia).
Nelle ultime settimane ci sono stati almeno quattro fattori, alcuni inediti, che invece descrivono sul terreno della guerra, guerreggiata o meno che sia, la complessità di cui parliamo.
Le manovre di Iran, Russia e Cina
Iran, Russia e Cina hanno annunciato che terranno manovre navali congiunte nelle prossime settimane e comunque entro la fine di marzo, a cui sono stati invitati anche altri paesi, anche se ancora non sono stati specificati. Non è stata specificata nemmeno l’area in cui si svolgeranno le esercitazioni, ma dalle precedenti esperienze si può dare per scontato che sia nel teatro del Medio Oriente.
I tre paesi hanno già effettuato manovre navali congiunte nel marzo del 2023 che si erano tenute nel Golfo di Oman. Non sfugge a nessuno che l’annuncio fatto in questo momento si inserisce nel conflitto in corso e contribuisce a delineare un quadro di alleanze e nuove competizioni, pure maturato nel corso di un decennio, che oggi assume particolare rilievo. Quello che colpisce, in particolare, è la partecipazione della Cina accanto all’Iran nonostante nelle scorse settimane Washington avesse chiesto ripetutamente a Pechino una pressione su Teheran per una cessazione delle azioni degli Houthi. La notizia offre platealmente il quadro di una relazione privilegiata tra paesi estranei al fronte occidentale, in parte definibili come appartenenti al «sud globale», due di essi, Russia e Cina, attori decisivi dei Brics e quindi promotori di una ridislocazione dei poteri nel quadro internazionale.
Una Nato europea
La seconda notizia ci porta in Europa dove, secondo il New York Times, la Germania si preparerebbe a una Nato senza Usa. Si tratterebbe di garantire la sopravvivenza dell’Alleanza atlantica senza il suo maggior contribuente, gli Stati uniti, in previsione di una vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre che potrebbe dare corpo alla minaccia, paventata più volte dall’ex presidente oggi di nuovo in corsa, di chiudere con i finanziamenti all’alleanza militare nata nel 1949. Bruno Kahl, capo dell’intelligence esterna tedesca, la Bnd, ha dichiarato: «Se l’Ucraina sarà costretta ad arrendersi, ciò non accontenterà la sete di potere della Russia. Se l’Occidente non dimostrerà una chiara capacità di difendersi, per Putin non ci saranno più ragioni per non attaccare la Nato». Un quadro allarmante e anche allarmista, ma che lascia intravedere sullo sfondo la necessità per il paese-chiave dell’Unione europea di giocare un ruolo in piena autonomia possibilmente insieme a un’Europa più forte politicamente e militarmente (prospettiva che in fondo si è affermata attorno alla questione dei finanziamenti all’Ucraina e alla minaccia del veto da parte dell’Ungheria: Viktor Orbán alla fine ha dovuto piegarsi a una spinta sovranazionale molto determinata).
La missione nel Mar Rosso
Questa eventualità si sposa del resto con la decisione europea di dare vita alla missione nel Mar Rosso, la missione Aspides, di cui l’Italia assume il comando tattico. Si tratta di un’iniziativa che si svolge senza un mandato dell’Onu e tutta interna al quadro europeo. La sua approvazione, infatti, è demandata al Consiglio europeo Affari esteri del 19 febbraio e, come ha specificato il ministero della Difesa italiano, «solo dopo questo passaggio la missione verrà presentata al Parlamento italiano, che potrà approvarla o meno, come è sua prerogativa». L’Ue, e il governo italiano, assicurano che Aspides è una missione di difesa «concepita per tutelare la sicurezza e la libera navigazione». Una rassicurazione che in realtà non fa che sottolineare il legame stretto tra interessi commerciali e funzione delle forze armate e che aiuta a comprendere meglio perché in Europa si sia invertito dopo diversi anni, il ciclo delle spese militari con aumenti esponenziali in quasi tutti i paesi membri (la Germania garantisce, ad esempio, il raggiungimento entro quest’anno dell’obiettivo Nato del 2% di spese militari in rapporto al Pil, in Italia ci si lavora alacremente anche se il target sembra abbastanza lontano).
La missione si inserisce nelle preoccupazioni europee circa il controllo dei canali di navigazione e, del resto, chiunque conosca il peso dei cosiddetti choke point, i canali decisivi del commercio marittimo mondiale, sa cosa vuol dire perdere o avere limitazioni al traffico del canale di Suez o del golfo di Aden. Il protagonismo europeo, tanto vagheggiato in termini di «esercito europeo» mai nato finora, con la guerra ucraina ha preso una direzione di marcia ben precisa. Lo dimostra l’European Peace Facility Fund, uno strumento «fuori budget» che è stato creato nel 2018 per «prevenire i conflitti, costruire la pace, rafforzare la sicurezza internazionale» (tutti termini frequentemente utilizzati negli ultimi trent’anni per supportare iniziative militari) e che ormai ha raggiunto, dopo rifinanziamenti costanti, la cifra di 12 miliardi di euro (inizialmente erano cinque).
La crisi del primato Usa
Tutto ciò si lega alla quarta notizia, non inedita, ma importante per il momento in cui si verifica. In un saggio apparso sulla rivista Foreign Affairs, il capo della Cia, William Burns, illustrando l’attività contemporanea dello spionaggio nel rinnovato quadro geopolitico, ha scritto: «L’ascesa della Cina e il revanscismo della Russia pongono sfide geopolitiche scoraggianti in un mondo di intensa competizione strategica in cui gli Stati uniti non godono più di un primato incontrastato».
Il tema del lento declino geopolitico, ed economico, di quella che resta ancora la prima potenza del pianeta è parte integrante di una letteratura molto ampia tra chi nega questo decorso annunciato da sempre e chi invece lo ha predetto giù un paio di decenni fa (si vedano i due saggi Who are we? di Samuel Huntington o L’era postamericana di Fareed Zakaria). C’è una riflessione, intensa soprattutto negli Stati uniti, sul declino statunitense che ormai risale all’11 settembre del 2001, l’attentato terroristico più spettacolare della storia e sicuramente il più devastante sul suolo americano a cui gli Usa hanno risposto con il rilancio della dottrina Bush nel 2002 basata sulla «guerra preventiva», «l’azione unilaterale» con l’obiettivo di affermare «democrazia, libertà e sicurezza» in tutte le parti del mondo. Alias, affermare ovunque gli interessi degli Stati uniti.
Il sistema unipolare in realtà era stato annunciato dall’altro Bush, il padre, con la prima guerra del Golfo nel 1991 tramite la quale si sarebbe dovuto costruire un «nuovo ordine mondiale» basato sul potere preminente degli Stati uniti e su un sistema di alleanze occidentali in grado di governare il mondo. Si rilanciano così gli organismi sovranazionali come Wto, Fmi e G7 incaricati davvero di delineare la governance mondiale. L’11 settembre costituisce una ferita drammatica a cui si cerca di reagire con le due guerre conseguenti in Afghanistan e Iraq. Il ritiro statunitense dal primo paese e la fase di ingovernabilità in cui versa ancora il secondo – oltre a scatenare una recrudescenza del terrorismo islamico con la nascita dell’Isis – dimostrano ampiamente come quel progetto sia completamente fallito. Una lezione della storia che però non è stata mai tratta davvero in occidente e che non costituisce la preoccupazione prima dei governi o delle istituzioni internazionali.
Un multipolarismo senza «buoni»
Il progetto, già presuntuoso al momento della sua concezione, mai affermato realmente, entra in crisi in particolare in due passaggi tra loro collegati: la crisi economico-finanziaria del 2007-2008 e la fase delle «primavere arabe» apertasi nel 2009 con le rivoluzioni democratiche nel Maghreb e in Egitto. I paesi occidentali sono costretti a ripiegare su sé stessi per reagire a una crisi che riduce drasticamente i livelli di benessere economico – la curva dei salari è lì a dimostrare la situazione della maggioranza della popolazione – aumenta spaventosamente il debito e comprime i bilanci nazionali. Le rivoluzioni arabe mettono a soqquadro il mondo mediorientale che però, a causa della loro fragilità e del mancato sostegno occidentale – anche da parte di movimenti di opposizione – contribuiscono a creare una nuova situazione di instabilità. Queste fratture aiutano a capire il nuovo protagonismo di attori inediti, per quanto già robusti sul piano economico e politico, come la Cina o le stesse monarchie del Golfo, non toccate dalle «rivoluzioni» e che diventano nuovi protagonisti politici. Il cambio di scenario è ben rappresentato dalla decisione del G20, il gruppo che racchiude i maggiori paesi industrializzati del mondo, di non tenere più i suoi consessi internazionali solo a livello di ministri dell’Economia o delle Finanze, ma di riunire dal 2008 direttamente i capi di Stato o di governo. Un salto di qualità che cerca di distribuire il più possibile i costi della crisi e che mette la sordina alle riunioni del G7 che pretendeva di rappresentare il governo del mondo. A distanza di quindici anni da quella crisi, i problemi non sono stati mai del tutto superati, i livelli di debito sono ancora lì a gravare sui bilanci pubblici – come l’Italia sa bene – e la pandemia da Covid ha aggravato la situazione. Allo stesso tempo il G20 non è diventato la stanza di compensazione delle crisi internazionali mentre il G7 è rimasta un’istituzione attualmente poco efficace per gli stessi interessi che rappresenta visto che buona parte dell’economia e del commercio mondiali sfuggono al suo controllo. Il rafforzamento del gruppo dei Brics – a cui, dai paesi fondatori che ne giustificano il nome, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, si sono aggiunti Egitto, Etiopia, Iran e Emirati arabi uniti (l’Argentina inizialmente aderente si è sfilata dopo la vittoria di Javier Milei alle presidenziali) – nel frattempo è proseguito in modo costante rappresentando oggi una prospettiva di alleanza economica e politica per molti paesi del «sud globale». Il mondo si trova insomma in una fase caratterizzata dall’immancabile «non più e non ancora», una fase di interregno in cui l’assetto unipolare non è più dominante e quello multipolare non ancora compiutamente realizzato. Ma tende verso questo secondo assetto, un multipolarismo abbozzato esiste già e aiuta a spiegare l’attivismo e le ambizioni di paesi come Cina e India, ma anche l’espansionismo russo cui tende Putin e la stessa offensiva, violenta e dirompente, di Hamas.
Si tratta di un multipolarismo spurio, non certamente espressione di un quadro avanzato dei rapporti internazionali, possibilmente centro di equilibrio di tensioni irrisolte, ma frutto di smottamenti che sono destinati a durare e che alimentano tensioni nuove. Un multipolarismo in cui non esistono «poteri buoni» con cui schierarsi, per cui sono destinati a fallire le nuove pulsioni «campiste» che animano una parte della sinistra soprattutto italiana, quella più arcaica e nostalgica nonché dalle mai sopite tentazioni nazionaliste o compiutamente sovraniste.
Quest’analisi va compiuta nel modo più accurato possibile perché ad esempio permette di farci vedere meglio – e nel dibattito del fronte pacifista questo finora non è avvenuto fino in fondo – che oltre alla guerra voluta, incentivata, auspicata dall’Occidente c’è la guerra voluta dalla Russia di Putin anch’essa, come scrive Fabio Armao nel suo Capitalismo di sangue, «conseguenza dei processi di globalizzazione» e che si inserisce in un quadro che è stato definito «de-globalizzazione», anche se su questo termine è in atto un dibattito e le cose sono sempre più complicate di così. Solo questa discussione potrà dare a chi si batte per la pace, movimenti o forze politiche che siano, strumenti più efficaci per condurre un’iniziativa che non sia di retroguardia o puramente emotiva, che abbia chiaro la complessità dei fenomeni, che non si rassegni a una dimensione nazionale e che possa sviluppare quella nuova vitalità di cui c’è bisogno.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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