Quando d’un tratto tutto sembrò cambiare
Dieci anni fa da un piccolo centro della Tunisia si innescavano le primavere arabe, il primo movimento globale i cui prodromi avevamo visto a Seattle. Il mondo capì che una rivoluzione si può ancora fare
Dimostrazioni, tafferugli, tumulti. Una semplice manifestazione di scontento. Sono assiepati di fronte alla Prefettura di Sidi Bouzid, una piccola città della Tunisia interna, un posto dove nessuno va per turismo o per curiosità. Protestano perché a Mohamed Bouazizi, un ragazzo di 26 anni, la polizia ha sequestrato il banchetto di frutta e legumi. Mohamed è laureato in letteratura, è uno che ci ha provato e come tanti in Tunisia non è riuscito a trovare un posto. Tira avanti, nella sua città d’origine, facendo la corsa a ostacoli. È disperato, però, e allora compie un gesto sproporzionato: si dà fuoco e la città si infiamma. La gente scende in strada per protestare.
È il 17 dicembre e nessuno pensa che questo evento possa avere qualche conseguenza su scala nazionale né, tanto meno, divenire un simbolo. Negli ultimi anni in Tunisia si sono registrate manifestazioni, anche violente, ma tutte circoscritte, tutte legate a un evento locale. Tutte sedate senza che la comunità internazionale ne ricevesse anche solo l’eco.
La Tunisia è un paese relativamente libero, tutti pensano. Fra i paesi del Maghreb è il paese che sta meglio, se prendiamo come parametro il Pil o il reddito pro-capite. La libertà della Tunisia, invece, è una finzione. È uno Stato di polizia, corrotto, retto da un tiranno, dalla sua famiglia e dai suoi amici. Le televisioni non informano, la rete viene costantemente monitorata dalle autorità. I giornalisti vanno in galera.
Le denunce delle associazioni per i diritti umani e per la libertà di espressione non producono attenzione nei media internazionali, perché attorno a sé la Tunisia ha paesi meno liberi, meno ricchi ed è come se avere meno problemi significhi non averne affatto. È per questo che a livello internazionale passa sotto silenzio l’ondata di rivelazioni di Wikileaks (vedi in particolare questo) sul paese. I diplomatici statunitensi descrivono la Tunisia come una repubblica delle banane, il suo leader è un bandito, i suoi amici fanno il bello e il cattivo tempo. Alcuni tunisini, invece, vedono in quelle rivelazioni uno spiraglio. Non sono i soli a sapere ciò che succede nel loro paese, nelle ambasciate circolano le informazioni, e ora ci sono documenti che lo provano.
A Sidi Bouzid la protesta non si ferma. Mohamed è in ospedale, in fin di vita. Scendono in strada in tanti, con i volti coperti, quasi tutti giovani o giovanissimi. Lanciano pietre, hanno bastoni, non hanno paura, sembra, e questa è una novità. Affrontano le camionette della polizia quasi per inerzia.
La protesta varca i confini della città, si estende a macchia d’olio. In una decina di giorni sono almeno venti i centri in cui si registrano ribellioni. La scena è la stessa ovunque: si raccolgono attorno alle sedi del sindacato, protestano di fronte alle prefetture, di fronte alle stazioni di polizia. Distruggono, a volte, quello che si trovano davanti, e a volte saccheggiano.
Gli avvocati escono dai tribunali, con i loro abiti d’ordinanza, protestano anche loro a Tunisi, Sidi Bouzud, Jendouba. Ma nessuno, fuori dalla Tunisia, pensa che valga la pena darne notizia. Sembrano cose piccole, circoscritte, niente di più normale, niente per cui valga la pena scrivere una riga.
Invece è una rivolta, un’insurrezione, dilaga in centri grandi e piccoli, corre verso nord, dove ci sono le attività produttive, arriva sulla costa, nelle città portuali, fino ad affacciarsi a Tunisi, prima in forma di flash mob, poi in forma di dimostrazione di piazza. È il 27 dicembre, e la polizia impedisce a un migliaio di disoccupati di imboccare Avenue Habib Bourguiba.
A Jendouba viene arrestato Mouldi Zoubi, un giornalista di Radio Kalima, un emittente vietata in Tunisia e nel mirino del regime da molto tempo. La repressione si fa più violenta e altri ragazzi emulano Mohamed Bouazizi. Un altro giornalista viene arrestato a Gafsa.
Su Facebook appare l’ultimo messaggio di Mohamed Bouazizi:
Me ne vado, mamma, perdonami, i rimproveri sono inutili, mi sono perduto lungo un cammino che non riesco a controllare, perdonami se ti ho disobbedito, rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca, non a me, io me ne vado e la mia partenza è senza ritorno, io non ne posso più di piangere senza lacrime, i rimproveri sono inutili in quest’epoca crudele, su questa terra degli uomini, io sono stanco e non mi ricordo niente del passato, me ne vado chiedendomi se la mia partenza mi aiuterà a dimenticare.
Ben Ali, il Presidente, inizia a sentirsi a disagio. Visita l’ospedale dove Mohamed Bouazizi è ricoverato. Il suo sorriso liftato non ha alcun impatto, anzi provoca maggiore astio se messo accanto all’immagine di un uomo fasciato dalla testa ai piedi che non riesce neanche a parlare. Il dittatore invita alla calma, promette posti di lavoro e prezzi più bassi, ma non serve a niente, la gente non lo ascolta più, o meglio: non lo ha mai ascoltato davvero e tantomeno adesso.
Scendono in campo gli hackers di Anonymous. Bloccano per prima cosa i siti della Borsa e del Ministero degli esteri: voi chiudete la rete ai tunisini, noi chiudiamo voi. E intanto si contano i morti. Due, cinque.
Le informazioni sono confuse, disturbate. Ma una cosa si sa. La maggior parte delle vittime si è suicidata. Sono tutti giovani, si sono dati fuoco, come Mohamed Bouazizi, uno di loro si è lanciato contro i fili dell’alta tensione, è morto fulminato. Si suicidano per testimoniare la disperazione, è come se dicessero agli altri di non aver paura: se uno si è immolato altri cento, altri mille possono scendere in strada, senza più freno, senza più riguardo per la propria incolumità.
Ma ancora nessuno, fuori, parla di tutto questo, fino a quando scoppiano i tumulti in Algeria. Lì la cosa è un po’ diversa. Nessuno lì si suicida, o meglio: il suicidio dei giovani in Algeria è purtroppo già routine e l’atto, finora, non ha spinto altri alla rivolta. Escono dai sobborghi delle città e saccheggiano, incendiano, le autorità reprimono con forza, uccidono. È meno difficile leggere l’Algeria, almeno da parte dei media internazionali, e solo adesso le televisioni e i giornali di tutto il mondo accendono i riflettori su quella cosa a cui viene dato il nome di «rivolta del pane».
Piovono analisi: i prezzi salgono alle stelle, le speculazioni finanziarie globali, il rischio – si dice – è che il malcontento si estenda al resto del Maghreb e oltre, in altre aree depresse del mondo. Fa di nuovo capolino la minaccia islamista, l’argomento su cui Ben Ali, Bouteflika, Mohammed VI, Mubarak & co. hanno giustificato la loro occupazione del potere negli ultimi decenni.
Però la gente questa volta non esce dalle moschee, come succedeva negli anni Novanta ad Algeri. Sono giovani, il terrorismo l’hanno subito due volte, con le bombe degli islamisti e con la repressione dei dittatori. Non hanno voglia di ascoltare i sermoni patinati di qualche «purissimo» barbuto youtube friendly, non gli interessa fare i kamikaze: vogliono vivere liberi nel loro paese. Hanno gli strumenti, le capacità, e saprebbero cosa fare se avessero la possibilità di fare.
Siamo all’inizio del 2011 e in Tunisia, dopo i moti di Redeyef nel 2008 – durati diversi mesi ma rimasti circoscritti al bacino minerario di Gabes – e le proteste dell’agosto 2010 con epicentro a Ben Gardane, una cittadina alla frontiera con la Libia – che si chiusero con un arretramento delle pretese del regime di fermare i traffici di merci a buon mercato da quel paese – c’è una rivolta. È intitolata alla città di Sidi Bouzid ma è ormai di rilievo nazionale e inizia a trasformarsi, a organizzarsi in una rivoluzione. Lo vedi sui social network, lo leggi sui circuiti dei blogger ma sulla stampa di carta e di pixel non c’è niente: le cronache dalla Tunisia rimangono sullo sfondo. A nulla servono i comunicati delle associazioni, dei gruppi di cittadini, degli studenti, dei sindacalisti, degli avvocati.
Nel resto del mondo passa l’idea che è per il pane, non per la libertà, che questa gente scende in piazza. Dategli il pane e loro ritorneranno a casa, questa è la headline, così rassicurante, così facile, così distante da noi, che il pane ce l’abbiamo.
Invece il pane non basta. I tunisini la rivolta del pane l’hanno già fatta, e l’hanno vinta, fra il 1983 e il 1984, quando l’allora presidente (e «padre della patria») Habib Bourguiba, fece rientrare tutto con un messaggio in televisione e con l’immissione di derrate alimentari per la popolazione. Adesso è un’altra cosa: non vogliono più Ben Ali, non vogliono più gli sgherri del suo partito (Rcd, Rassemblement Constitutionnel Démocratique), non vogliono più vedere sua moglie e la sua famiglia saccheggiare la Tunisia, sono stanchi di pagare il pizzo ai poliziotti, di vivere sotto ricatto, vogliono indietro il loro paese.
Ben Ali, in televisione e alla radio, gioca la carta del nemico esterno. Ma nessuno sa chi sia questo nemico di cui parla il mezzobusto, nessuno li ha visti, i terroristi. È un vecchio giochetto che usava al tempo del colpo di Stato del 1987, quando con la complicità dei servizi segreti italiani, salì al potere (sì, Bettino Craxi era Primo ministro. Sì, Giulio Andreotti era Ministro degli esteri. Sì, nel 1994 Craxi scappò ad Hammamet dal suo amico Ben Ali).
Intanto gli amici di sempre si fanno avanti senza timore. In Francia la Ministra degli Esteri offre «appoggio tecnico» al Governo – che significa inviare truppe speciali – in puro stile coloniale. In Italia Franco Frattini «appoggia il Governo tunisino», agitando – come un disco rotto – lo spauracchio del terrorismo islamico. Tutti gli altri tacciono, o reagiscono poco. Alla spicciolata l’Unione Europea o l’Onu, con formulazioni tanto rituali quanto intempestive e sottodimensionate, «condannano le violenze».
Il 4 gennaio Mohamed Bouazizi muore nel suo letto d’ospedale e la rivolta raggiunge stabilmente Tunisi: non si patteggia più. L’esercito scende in campo, c’è il coprifuoco, è una rivoluzione, ma per il mondo è ancora quella «rivolta del pane» che in Algeria è stata ormai sedata: ci vorrà del tempo e del coraggio prima di rivedere qualcuno in piazza ad Algeri.
Girano voci di un possibile golpe e con esse si fanno avanti i complottisti, i postmoderni da salotto – i fanatici della fine della storia per cui «tutto è già stato scritto» – e gli amanti della letteratura spionistica – quelli che il Mossad l’aveva detto, quelli che il battito di farfalla in Cina.
Golpe mascherato, dicono. C’è un accordo con Obama. Ma da un bel po’. Girano foto in cui, da casa, gli «spettatori» si dovrebbero chiedere chi siano quei tunisini in pettorina durante la manifestazione: cospiratori? Militari in borghese? In pochi notano che l’esercito in Tunisia è sì una forza in campo, ma anche una forza debole: Ben Ali ha privilegiato la polizia, la guardia presidenziale. Il rapporto è di 1 a 4. Un militare per quattro poliziotti. E poi nessuno sa cosa faranno davvero i militari, neanche in Tunisia, tanto che nasce la proposta di «mettere fiori nei loro fucili», in particolare gelsomini. Ma il dibattito si ferma lì: non serve mettere niente nei fucili dei militari perché l’esercito si ritira senza sparare un colpo.
Ben Ali prova la stretta repressiva. A Tunisi la protesta viene soffocata pesantemente dai poliziotti, gli avvocati vengono presi a bastonate, mentre a Qasserine, nel centro del paese, si consumano gli scontri più sanguinosi, oltre 50 morti. Ma la rivoluzione non si ferma e il regime si scopre al capolinea.
Il 13 gennaio, il giorno prima dello sciopero generale di Tunisi, Ben Ali riappare in TV per dire che darà tutto ciò che la gente chiede: democrazia, occupazione, libertà di stampa e di associazione. Lascerà il potere nel 2014, dice. Chiede alla polizia di non usare la forza se non per difendersi ma proprio in quelle ore dai social network arriva la notizia che nelle dimostrazioni entrano in azione gli infiltrati, che distruggono tutto e danno l’alibi ai poliziotti per attaccare gli inermi.
È l’ennesimo bluff, ed è comunque troppo tardi per giocarlo. Già da qualche giorno girano le facce dell’opposizione democratica, l’alternativa «accettabile» al tiranno. È il 14 gennaio e Ben Ali si dà alla fuga. Forse è a Malta, forse è in Italia, forse in Francia. Sembra che non lo voglia nessuno e alla fine se lo prende l’Arabia Saudita, il rifugio dei tiranni. Lui, il campione della laicità nel mondo arabo, si va a nascondere nel paese più confessionale e retrogrado del mondo: il vero volto dell’autocrate è svelato.
In Tunisia è il giorno della vittoria. La bandiera nazionale, la piazza. La Tunisia è nelle mani dei manifestanti che abbattono i simboli, tolgono le effigi del dittatore dai luoghi pubblici, dai negozi. Le residenze del Re e della Regina vengono prese d’assalto. Ora tutti, nel mondo, la chiamano «rivoluzione del gelsomino».
Le cose si dispongono in un ordine, anche se precario: l’esercito è dalla parte degli insorti, li protegge. Dall’altra parte ciò che rimane del regime – i fedelissimi del partito, i suoi sicari, molti poliziotti – scatena la propria rabbia, mettendo a ferro e fuoco le sedi dei partiti d’opposizione, saccheggiando quello che si può, cercando – invano – di provocare il caos. I più prezzolati scappano col bottino, le seconde file girano in pick-up e fanno razzie, mentre la gente organizza ronde, posti di blocco, autodifesa.
Giorni di apnea. Nasce un governo provvisorio dal quale escono immediatamente tutti i rappresentanti delle opposizioni. La gente scende ancora in piazza, stavolta con più fiducia: vogliono che l’Rcd sia dichiarato fuorilegge, vogliono chiudere la partita. E le cose sembrano andare sempre meglio.
In giro per il mondo, invece, sono giorni di paura. Paura per i dittatori dei paesi vicini che vedono crescere il dissenso, in forme che ricordano i primi vagiti della rivoluzione tunisina. Paura per tutti i partiti e le associazioni islamiste che avevano fatto fortuna col motto (coniato dai Fratelli Musulmani) «l’islam è la soluzione» e avevano vivacchiato sotto i regimi autoritari, talvolta colludendo con essi. L’islam in Tunisia non è stato la soluzione, fino al 14 gennaio 2011. Così come la soluzione non è lasciare al potere i tiranni, e permettere che a loro succedano altri tiranni. Hanno sbagliato tutti, in Europa, in Occidente. Tornano le parole giuste: dittatura, regime. La categoria «paesi islamici moderati» è disintegrata, non compare più da nessuna parte. Almeno per ora, almeno alla fine di questo primo round.
Il secondo è in preparazione. In Egitto, paese chiave del mondo arabo, la prima manifestazione è programmata per il 25 gennaio ma è lo Yemen a scendere in piazza per primo in questa seconda ondata. Seguiranno con motivazioni simili ma con risposte ed esiti diversi Sudan, Bahrain, Libia, Siria, Algeria, Marocco (Sahara occidentale), Giordania, Mauritania, Iraq, Palestina. Si registreranno manifestazioni e moti di piazza addirittura in Arabia Saudita – nell’est a maggioranza sciita –, nell’Iran arabofono, il Khuzestan, in Oman, In Kuwait. Gli unici paesi arabi a rimanere inerti, sintomaticamente, saranno le restanti monarchie petrolifere, sociologicamente parlando dei «non-paesi».
Le vicende si faranno molto complicate e narrarle impiegherebbe ben più di un articolo. Soprattutto non è questa l’intenzione: l’intenzione e di fermarsi per un attimo lì, in quel 14 gennaio, perché in tanti – io stesso – si sono esercitati con analisi socioeconomiche, geopolitiche, culturali che descrivono «l’esplosione» e altrettanti si sono attardati attorno alle sue conseguenze, talvolta chiedendosi – sbagliando – se «ne valesse la pena». Era prevedibile, non era prevedibile, era giusto, era sbagliato, erano ingenui, non lo erano affatto. Il 14 gennaio 2011 tutte queste cose non avevano motivo di esistere: il bastardo scappava via con la coda fra le gambe e la rivoluzione tunisina vinceva. Quindi si poteva fare, questa cosa si poteva fare. In quei giorni il messaggio – nonostante le analisi, nonostante il carico da dodici dei complottisti di ogni dove, nonostante le retoriche usate immediatamente dai diversi «padroni del discorso democratico» o economico per mettersi dalla parte giusta della storia – arrivava dritto a milioni, miliardi di persone nel mondo.
E lo sapevano tutti, da una parte e dall’altra. Ci fu un effetto domino evidente, a più livelli, davvero impressionante. Addirittura a fine febbraio, dopo qualche manifestazione e diversi arresti, in Cina vietarono i gelsomini, simbolo (controverso) della rivoluzione tunisina. All’inizio di quel mese, quando in Egitto Mubarak stava per andarsene, Hillary Clinton aveva parlato del rischio di una «tempesta perfetta», una tempesta avversa agli interessi americani e occidentali, ovviamente, che la navigatissima statunitense definiva «rischiosa per la stabilità dell’area» e, potenzialmente, per tutte le aree povere del pianeta. E, nonostante fin dal 6 gennaio fosse stata coniata l’espressione «primavera araba» (Marc Lynch, «Obama’s ‘Arab Spring’?», Foreign Policy, 6 gennaio 2011), nonostante l’espressione avesse trovato il modo di affermarsi perché il «mondo arabo» si rivolterà nella sua interezza, il meme della rivolta, dell’occupazione delle piazze, dei giorni della rabbia, il «si può fare» sfonderà il recinto «etnico-linguistico» con cui analisti ed esperti avevano da subito iniziato a far amicizia. Scoppieranno le proteste in Iran, in una seconda ondata dopo quella che aveva seguito la vittoria elettorale di Ahmadinejad. Poi sbarcheranno in Europa: c’è il maggio spagnolo, con gli indignados che occupano Puerta del Sol come fosse la Maydan at-tahrir del Cairo, e fra il 6 e l’11 agosto in Gran Bretagna distruzione e rapina finiscono per prevalere in una manifestazione di scontento che partendo da Londra si espanderà in diverse città del paese. A settembre la rivolta supera l’Atlantico e arriva sulle sponde Pacifico: da Zuccotti Park parte Occupy Wall Street che segnerà il risveglio di un’intera generazione di studenti statunitensi, dalla Columbia fino a Berkeley. Più tardi, nel maggio 2013, con il sit-in permanente al Gezi parki di Istanbul la contestazione prenderà piede anche nella Turchia islamocapitalista di Erdogan. Gli echi della vittoria tunisina li ritroviamo ancora in Sudan, con la rivoluzione del 19 dicembre 2018 e in Algeria: il hirak algerino nasce il 16 febbraio 2019 e si ferma, dopo le dimissioni del presidente-cariatide, solo di fronte alla pandemia. A Baghdad e a Beirut, invece, la protesta esploderà in ottobre.
Dunque il 17 dicembre 2010 ha inizio, nel bene e nel male, in mezzo a mille contraddizioni, il primo movimento globale i cui prodromi avevamo visto a Seattle. Il 14 gennaio seguente il mondo capisce che una rivoluzione si può ancora fare. Certo, più tardi molte cose sono andate molto male ma, anche col senno di poi, lo squilibrio gigantesco sia nel dominio della violenza che in quello dell’economia dovrebbe ricordarci del coraggio e della forza di volontà di chi è sceso in piazza, non del fatto che quell’impianto è così forte da non poter essere abbattuto. Dovrebbe ricordarci che quel movimento ha registrato un grande successo, che ciò che è andato storto non è dovuto ai tunisini in piazza ma al complesso economico-finanziario che già il 19 gennaio 2011, a cinque giorni dalla fuga di Ben Ali, abbassava il rating della Tunisia. Che la responsabilità di ciò che succede in Egitto ora non è dei giovani egiziani ma dei militari egiziani. E non ha senso dire: «dovevano aspettarsi questa risposta». Sono certo che i giovani siriani, ad esempio, sapessero benissimo quanto duro fosse il regime degli Asad, motivo per cui dovettero farsi davvero molto coraggio quando decisero di scendere in piazza. Non è un caso che partirono in sordina. Non è un caso che all’inizio chiesero riforme e non «la caduta del regime». Non immaginavano che Bashar avrebbe decuplicato gli sforzi di suo padre Hafez in ferocia, accanimento ed efferatezza. E non lo immaginavano nemmeno tutti i governi e i media occidentali che da anni presentavano il futuro genocida come un «giovanotto» un po’ goffo, ben educato e civile, un liberale aperto alle nuove idee (e, cosa che non guasta, con una moglie bella, senza velo, con un debole per lo shopping londinese). Sono certo, certissimo, che i giovani egiziani conoscessero a fondo l’infamità della sicurezza egiziana. La conoscevano così bene che il gruppo che promosse le prime manifestazioni, il 25 gennaio 2011, era intitolato a Khaled Said, vittima della repressione poliziesca. Se leggete la loro piattaforma, che circolò in rete per anni e forse è ancora lì, non avreste dubbi e non li chiamereste «ingenui»: manifestavano proprio contro la repressione nel giorno della festa nazionale della polizia. Cito:
Nel 1952 i nostri nonni arruolati nella polizia resistettero con le loro pistole di ordinanza ai carri armati dell’esercito regolare britannico. Perirono in 50 e più di 100 furono i feriti: rappresentano il miglior esempio di sacrificio per la patria. E ora noi, a più di cinquant’anni di distanza, subiamo le sopraffazioni delle forze di polizia, che sono diventate uno strumento di umiliazione e tortura per gli egiziani. Abbiamo scelto questo giorno particolare perché simboleggia l’unione delle forze di polizia con la gente e speriamo che nel giorno della manifestazione si uniscano a noi gli alti ufficiali, perché la nostra causa è una.
Anche lì la violenza subita, in tutte le fasi post rivoluzione – compreso il governo dei Fratelli Musulmani – è di gran lunga superiore alle aspettative di tutti, dentro e fuori il paese, non avendo precedenti. Solo che in questo caso c’è chi mira a metterla in secondo piano perché «abbiamo interessi importanti laggiù».
Certo, da questi eventi si può estrarre la misura della violenza che chi sta al potere è disposto a erogare. Spaventa, in effetti, tanto che invece di rappresentare una lezione per i tempi a venire può determinare un blocco. Spaventa, soprattutto, perché si è capito che la «comunità internazionale» è inerte se non ostile, che nel gioco della geopolitica perde sempre – o quasi – chi viene dal basso. Da una prospettiva meno depressiva, si può invece dire che i mesi, gli anni seguenti alla rivoluzione tunisina, sono importanti, fondamentali. Certo, si può cedere al buio, si può guardare tutto con gli occhi del dolore. E poi a fare i profeti di sventura sono tutti molto bravi. Ci si azzecca spesso, per un motivo molto semplice: il mondo è pieno di infami, è pieno di armi, è pieno di odio e paura e di persone che fomentano odio e paura. Ma nessuno può negare che c’è stato un prima e un dopo questa serie di eventi, non si può semplicemente ignorarli. E questo è chiaro quando si guarda al precedente giro di giostra, quello del 2001, con il G8 di Genova e le Torri Gemelle. Con quei fatti, le immagini dei tedeschi che festeggiano a Berlino la caduta del muro, finivano in archivio. Il mondo senza blocchi era diventato improvvisamente un distopico playground postmoderno, eternamente «consumabile», in cui la storia era «finita» e gli unici conflitti possibili si sarebbero prodotti su linee «culturali» o «di civiltà». Bisognava stare a casa e scegliere da che parte stare nella «guerra al terrore» (e furono in molti ad accomodarsi sul divano, pronti al televoto, non importa se schierati di qua o di là). Con il 17 dicembre 2010 la storia invece riparte ed è evidente, è chiaro a tutti – anche se in pochi lo ammettono e in tantissimi provano a nasconderlo – che il conflitto è sociale, non culturale, che esistono ancora le masse, le rivendicazioni, i movimenti, gli scioperi, le generazioni e che stavolta, per la prima volta, la dimensione è transnazionale perché il problema è globale.
* Lorenzo Declich è un esperto di mondo islamico contemporaneo. Traduttore dall’Arabo di saggi e romanzi, è autore tra l’altro di Islam in 20 parole (Laterza, 2016), Giulio Regeni, le verità ignorate (Alegre, 2016) e Siria, la rivoluzione rimossa (Alegre, 2017). La prima parte di questo articolo, la cronaca stringata della rivoluzione tunisina, riprende – con una revisione – un suo lavoro per Loop (aprile 2011), rivista mensile cartacea ora spenta.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.