L’Italia e la battaglia di Algeri
La Guerra d’Algeria fu un momento centrale del processo di decolonizzazione. Una ricerca recupera dall'oblio le lettere di solidarietà provenienti dal nostro paese che interrogano un presente in cui l'eredità coloniale è tutt'altro che superata
La Guerra d’Algeria è uno dei momenti culminanti del processo di decolonizzazione. Iniziata con l’insurrezione armata del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) la notte di ognissanti del 1954, si protrarrà per otto anni sino alla dichiarazione di indipendenza del 5 luglio 1962. Nel mezzo, un conflitto armato durissimo, due colpi di stato, il crollo della Quarta Repubblica, il riconoscimento dell’indipendenza dell’ultima colonia francese e il tramonto dell’Empire.
La sbornia imperialistica di quello che fu uno dei più estesi domini coloniali europei si infrange definitivamente contro la dura resistenza degli insorti algerini. Tuttavia, la battaglia fu sul piano politico, oltre che su quello militare. L’utilizzo sistematico della tortura da parte delle truppe coloniali rappresentò un punto di non ritorno nella dinamica del conflitto e fu all’origine di un moto di indignazione che scosse l’opinione pubblica all’interno e all’esterno dei confini dell’Hexagone.
In particolare, è a seguito della diffusione del libro La Question, di Henri Alleg, che l’internazionalizzazione della causa algerina conoscerà un’accelerazione. Il crudo racconto della tortura vissuta sulla propria pelle da Alleg e la denuncia delle brutalità commesse dall’esercito francese attraversa velocemente le Alpi e giunge in Italia grazie all’intermediazione di reti solidali in formazione. Vissuta nel solco della continuità con la recente esperienza della Resistenza al nazifascismo, la solidarietà italiana alla causa algerina assume un’intensità particolare, che denota un’attenzione inedita di ampi settori della società italiana del dopoguerra alla questione coloniale. Si incrina, così, l’immagine di un paese cristallizzato all’interno delle rigide identità tracciate dalle burocrazie di partito, che si trovano, qui, a rincorrere le proprie basi. Le lettere di solidarietà ad Alleg provenienti dall’Italia ne sono testimonianza.
I. «C’est dur, Henri»: militanti comunisti e tortura nella Battaglia di Algeri
È il pomeriggio del 12 giugno 1957 quando il tenente Charbonnier e i suoi si presentano di fronte alla porta di un appartamento di recente costruzione nel quartiere popolare di Champ de Manœuvres, nella prima periferia di Algeri. Al suo interno, un ispettore di polizia ha appena arrestato un uomo, che verrà preso in custodia dal personale militare della 10° DP, i famigerati «paras», in quel momento impegnati nella Battaglia di Algeri agli ordini del generale Jacques Massu e del suo efferato colonnello, Marcel Bigeard. Il mondo imparerà a conoscerli solo qualche tempo dopo, impersonificati dalla figura del glaciale colonnello Mathieu, protagonista dell’omonimo film di Gillo Pontecorvo, che porterà nelle sale di tutto il mondo la questione dell’uso della tortura durante la Guerra d’Algeria. Nell’estate del 1957, però, il conflitto che infiamma uno degli ultimi territori dell’Empire non è ancora cosa nota ai più. E ancor meno note sono le modalità con cui l’esercito francese porta avanti quelle che allora vengono definite «operazioni di mantenimento dell’ordine e pacificazione in Africa del Nord». Almeno fino al giugno del 1957, quando il tenente Charbonnier procede all’arresto, a Champ des manœuvres, di un giornalista: Henri Alleg.
Alleg non è un fellagha (dispregiativo con cui venivano generalmente indicati gli algerini da parte dei francesi d’Algeria), né è membro del Fln. Alleg fa parte di quella galassia di francesi d’Algeria che hanno deciso di schierarsi dall’altra parte e di abbracciare attivamente la causa anticoloniale. Direttore del giornale Alger Républicain, vicino alle posizioni del piccolo ma combattivo Partito Comunista Algerino (Pca), è costretto a entrare in clandestinità nel 1955, quando sia il giornale che il partito vengono sciolti e dichiarati illegali dalle autorità francesi. Clandestinità che avrà fine in quel pomeriggio di inizio estate 1957, a causa di una trappola orchestrata dalla polizia. In piena Battaglia di Algeri, è proprio sui comunisti che, infatti, si concentra in quel periodo l’attenzione dei servizi di sicurezza coloniali e dell’esercito di stanza nella capitale: sono loro a essere sospettati della bomba che l’11 giugno esplode nel Casinò de la Corniche, nei pressi di Algeri, e che fa sette morti e un’ottantina di feriti.
Il giovane e brillante matematico comunista Maurice Audin sarà il primo a farne le spese. Arrestato nelle ore immediatamente successive all’attentato, verrà trasferito nel campo di prigionia di El-Biar, a una decina di chilometri a sud ovest di Algeri, e torturato a morte dai paracadutisti. Dichiarato evaso di prigione, il suo corpo non verrà mai ritrovato e solo nel 2018, 61 anni dopo, la Francia ha ammesso le proprie responsabilità per bocca del Presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. È proprio in casa di Audin che Alleg viene arrestato: dopo il fermo del matematico, i militari occupano l’abitazione in cui viveva con la moglie Josette e i tre figli. Quando Alleg vi si reca per assicurarsi delle loro condizioni trova gli agenti ad attenderlo. Anche lui verrà trasferito a El-Biar, dove sarà detenuto illegalmente dai paras per circa un mese, subendo violenze e torture di cui più tardi racconterà nel libro La Question, pubblicato nel 1958 dalle Editions de minuit, dell’editore solidale Jerome Lindon, e censurato dalle autorità di polizia. Troppo tardi: il libro ebbe enorme diffusione in Francia e non solo, anche grazie all’attività della casa editrice clandestina La Cité Editeur di Losanna, creata dal giovane militante terzomondista Nils Andersson, che per questa ragione verrà espulso sia dalla Francia che dalla Svizzera. In ogni caso, La Question conoscerà un successo impressionante, con circa 150.000 copie vendute in breve tempo. Pratiche come il waterboarding, le iniezioni di pentothal, il cosiddetto siero della verità, e la gégène, l’uso di scosse elettriche per indurre i detenuti a parlare, entrano nel linguaggio comune. Durante la prigionia di Alleg si forma un «Comitato Maurice Audin», composto da un pugno di intellettuali fra cui Jean-Paul Sartre e lo storico Pierre-Vidal Naquet, e inizia una battaglia serrata per la verità. Allo stesso tempo, la moglie di Henri, Gilberte Alleg, solleva pubblicamente il caso assieme a un gruppo di familiari di altri membri della resistenza rinchiusi nelle carceri algerine. L’internazionalizzazione della questione della tortura in Algeria si rivelerà presto una potente arma a disposizione delle vittime degli abusi e delle brutalità della Francia coloniale.
A colpire è, inoltre, l’immobilismo della sinistra francese. Subalterni all’ideologia residuale dei Fronts Populaires, anche i deputati del Partito Comunista votano i poteri speciali al socialista Guy Mollet. Sulla falsariga delle coalizioni antifasciste degli anni Trenta, i comunisti decidono di privilegiare la permanenza negli scranni di governo rispetto all’ascolto delle crescenti istanze anticoloniali. Valutazione che non tiene conto del contesto profondamente mutato rispetto a quello dell’anteguerra. La retorica della pace in Algeria si confonde con quella della pacificazione, che nel gergo militare dello stato maggiore, reduce dall’umiliazione della Guerra d’Indocina, ha un solo significato: stroncare la guerra rivoluzionaria dei militanti nazionalisti con ogni mezzo necessario. I poteri speciali accordati con il voto del 16 marzo 1956 al governo Mollet si trasformano presto in poteri speciali accordati ai paracadutisti dei generali Massu, Salan e Zeller. Ferventi repubblicani, solo pochi anni prima eroi della Résistance alla testa dell’Esercito Libero di De Gaulle, questi ufficiali non esitano a ricorrere alle pratiche utilizzate da coloro che avevano contribuito a combattere. Se nel contesto francese lo spazio della critica rispetto alla questione algerina sembra ridursi al minimo, allargare lo sguardo al piano della solidarietà internazionale di classe permette di cogliere linee di rottura ulteriori, in grado di incrinare il monologo dell’Algérie française. Al di là degli immobilismi e dei tentennamenti delle burocrazie di partito, sono le reti militanti e le circolazioni di solidali a permettere alla causa algerina di valicare le frontiere e di diffondersi oltre confine.
II. La pubblicazione de La Tortura e l’irruzione della questione algerina nel contesto italiano
In particolar modo, è in Italia che la ricezione della questione algerina assume caratteri inediti. La Question di Alleg viene immediatamente tradotto e pubblicato da Einaudi Editore con il titolo La Tortura. Non è un caso che sia proprio l’editore torinese a occuparsene. Risale a pochi anni prima l’inizio della collaborazione fra Giulio Einaudi e Giovanni Pirelli, il primogenito del colosso dei pneumatici lombardo, che cede il suo posto alla testa dell’azienda di famiglia per perseguire la sua attività editoriale, avvicinandosi nel corso degli anni alla questione algerina e terzomondista. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Pirelli combatte nella 90ª Brigata Garibaldi in Val Chiavenna, restando profondamente segnato dall’esperienza resistenziale. La Resistenza è per lui un fenomeno di popolo, da indagare a partire dalle soggettività dei suoi protagonisti, e non vi è alcuna soluzione di continuità fra la questione terzomondista che emerge nel dopoguerra e l’attività partigiana. Socialista eretico, sarà proprio Pirelli a integrare uno dei padri dell’operaismo italiano, Raniero Panzieri, in Einaudi e a finanziare la creazione della rivista Quaderni Rossi, a partire dal 1961.
In mezzo, è la Guerra d’Algeria a guidare la sua transizione verso forme di marxismo eterodosso e attento alla questione dell’autodeterminazione dei popoli colonizzati. Affascinato dalle idee di Frantz Fanon, filosofo, psichiatra e militante del Fln antillese naturalizzato algerino, è Pirelli a curare la traduzione italiana dei suoi potenti scritti, come emerge dal prezioso lavoro di recupero della corrispondenza quadripartita fra gli stessi Fanon, Pirelli, Panzieri e Maspéro, l’editore francese di Fanon, compiuto dalla studiosa Neelam Srivastava. Pirelli vuole fare di Einaudi «l’editore di Fanon in Italia», impresa in cui riuscirà con successo. Come da lui stesso spiegato, è l’interesse per la questione algerina a partire dalle voci e dalle prospettive dei suoi protagonisti a guidare la sua linea editoriale dalla pubblicazione de La Tortura in poi e che ne fa il vero importatore della questione algerina in Italia, arrivando a collaborare attivamente con la rete clandestina di supporto al Fln, il Réseau Jeanson, attiva in tutta Europa tramite i cosiddetti «portatori di valige». Europei solidali con la causa del Fln che attraversano frontiere con valigie cariche di denaro, documenti falsi e tutto ciò che è ritenuto utile ai fini della logistica rivoluzionaria per conto dei nazionalisti algerini.
La vicenda di Alleg e l’impegno internazionalista di Pirelli sono oggi storie note, ma resta tuttora difficile immaginare quale ricezione di massa abbiano potuto avere gli eventi d’Algeria nel nostro paese, generalmente considerato come esonerato dai fastidiosi affari coloniali e postcoloniali degli ex imperi europei. Al contrario, ciò che non ci si aspetterebbe di trovare, e che risponde parzialmente a questo interrogativo, è una quantità impressionante di lettere di solidarietà provenienti dall’Italia, scritte in lingua italiana o in un francese improvvisato presenti nel fondo Henri Alleg, oggi conservato agli Archives Départementales Seine-Saint Denis di Bobigny, nella periferia parigina, e che occupano circa tre quarti dell’intero faldone dedicato alla solidarietà internazionale al giornalista. Si tratta di 240 lettere spedite da privati, 14 poesie e poemi in onore di Alleg e una quarantina di lettere provenienti da organismi collettivi o membri delle istituzioni raccolte dalla moglie, Gilberte, mentre il marito era ancora in detenzione e inviate a partire da una campagna di solidarietà lanciata dalle colonne de l’Unità.
Sono profili e storie del Novecento che tramite l’espressione di solidarietà a una delle vittime della barbarie coloniale raccontano sé stesse: ci sono ex partigiani, familiari di deportati solo pochi anni prima nei campi di sterminio nazisti, contadini, operai, insegnanti di scuola, medici, militanti di base del Pci o di organizzazioni cattoliche, lettere di bambini o adolescenti. È un modo di raccontare la propria solidarietà a un popolo in lotta in cui ci si riconosce a partire dall’analogia con la recente storia di oppressione nazifascista. E di raccontarsi in quanto protagonisti della propria epoca. Il recupero della memoria perduta di questa esplosione di solidarietà permette di riscrivere la narrazione di un’Italia in cui le passioni politiche sono sussunte dallo spettro dei grandi partiti di massa che si contendono l’amministrazione del potere, per lasciare spazio a forme di espressione di soggettività che sfuggono a categorizzazioni sterili e posticce.
III. Il premio «Della Resistenza» della città di Omegna: dalla lotta di Liberazione alla Decolonizzazione
Sono orgoglioso e lieto, Signora, che la nostra iniziativa abbia ridestato commossa attenzione, di pubblico e di stampa, intorno ad Henri Alleg e ci abbia rimesso fra le mani quel libro le cui pagine non si possono scorrere né senza pianto né senza che ne ricevano nuovo calore il nostro affetto e la nostra devozione per la libertà […]. A nome dei cittadini di una piccola città che la crudeltà di fascisti e di nazisti ha purtroppo conosciuto e per la libertà che ha combattuto duramente e che la libertà ama, mi auguro che Henri Alleg sia presto restituito come giustizia vuole alla libertà […].
È con queste parole che Pasquale Maulini, sindaco di Omegna, piccolo comune che si affaccia sul Lago d’Orta e roccaforte partigiana dell’Ossola durante il conflitto mondiale, si rivolge a Gilberte Alleg. È l’ottobre del 1959, Henri Alleg è ancora detenuto in attesa di giudizio con la pesante accusa di attentato alla sicurezza esteriore dello Stato, e in seguito alla lettura de La Tortura, la giuria della prima edizione del concorso letterario «Della Resistenza» della città di Omegna decide di attribuire il premio allo scrittore algerino. Nella giuria presieduta da Guido Piovene sono presenti, fra gli altri, Rossana Rossanda, Mario Soldati, l’ex gappista e scrittore Carlo Salinari, l’artista partigiano Mario Bonfantini. La decisione di assegnare la prima edizione del premio proprio a Alleg muove dalla campagna internazionale sollevata dalla moglie Gilberte nel corso dei mesi precedenti e amplificata da l’Unità in Italia. La Prefettura di Novara interverrà per impedire il versamento del contributo in denaro assegnato dalla giuria, inutilmente. La mobilitazione spontanea di solidali e di membri del mondo intellettuale porterà a raccogliere la cifra di un milione di lire, che verrà consegnata a Gilberte Alleg direttamente dalle mani di Piovene, a sua volta da lei devoluta al collegio di difesa dei detenuti algerini. Le successive edizioni del premio andranno a Sartre e Fanon: scelta che denota una presenza non estemporanea della questione algerina nel dibattito intellettuale di pezzi della sinistra italiana dell’epoca. «Una solidarietà inestimabile [che] rende omaggio a tutti i detenuti algerini», come verrà definita da Gilberte Alleg.
Contemporaneamente, è la solidarietà popolare a impressionare. I lavoratori delle Officine Ansaldo di Genova si rivolgono direttamente al Presidente della Repubblica De Gaulle chiedendo la liberazione di Alleg, così come il comitato comunista del reparto fonderie della Fiat Mirafiori, gli operai del reparto Gabbie Acciaio della Riv di Villar Perosa, in Valsusa, un folto gruppo di operai di Porto Marghera e di Genova Sestri. Quarantatre lavoratori della Fincosit del cantiere Ponte Canepa, nel Porto di Genova, firmano una lettera collettiva e raccolgono una piccola sottoscrizione da inviare agli organizzatori del premio Omegna per sopperire al premio in denaro sequestrato dalla Prefettura di Novara, così come un piccolo gruppo di emigrati italiani in Svizzera che scrive da Solothurn e afferma di aver raccolto e inviato una quota. Il comitato di emigrati italiani ad Aarau, invece, approfitta della lettera di solidarietà ad Alleg per manifestare la propria opposizione alle sperimentazioni nucleari che De Gaulle sta mettendo in pratica nel deserto del Sahara:
Al fine di risparmiare dolorose conseguenze alla nostra penisola, fermiamo la mano degli ossessi!». Anche dalle tipografie Steb di Bologna, quelle che stampano il popolare quotidiano Il Resto del Carlino, arriva un appello firmato da 136 dipendenti, così come da un foltissimo gruppo di lavoratori dell’azienda del gas del capoluogo felsineo e dagli edili del cantiere Inps di Imola, che «si inchinano davanti al coraggio mostrato dal compagno Alleg.
Dalle sezioni Anpi sono svariate le manifestazioni di solidarietà. Primo de Lazzari, segretario della sezione provinciale di Venezia, ricorda come siano stati «proprio gli scritti dei migliori francesi: Voltaire, Montesquieu, Saint-Juste, Zola, ecc, a dare maggior contenuto al mio larvato e adolescente antifascismo», sottolineando l’analogia fra «l’eroico Gabriel Péri», fucilato dai tedeschi nel 1941, e «Alleg e Audin e tanti altri sconosciuti, ma tutti rappresentati da questi due eroi». Lettere di solidarietà giungono anche dalle sezioni Anpi della Valsesia, di Torino-Sezione Ilio Baroni, Ferrara, Castelfranco Emilia, che allega una ricevuta di un bonifico da 5.000 lire, Genova-Pegli, Reggio Emilia, Marnate, Sezioni Anpi Milano riunite, Calvairate, Varese e Chivasso. Da una decina di cellule del Partito comunista italiano giungono messaggi di solidarietà. Fra le altre la lettera firmata da 29 donne delle cellule femminili delle sezioni «Fratelli Peruzzi» e «Stenca-Binon», di Imperia, che si impegnano a diffondere dieci copie del libro, quella del «Comitato operativo della Fiat Mirafiori», quella della «Cellula Guardasoni», di Pieve Modolena in provincia di Reggio Emilia, che convoca addirittura una riunione straordinaria per emettere il comunicato di solidarietà ad Alleg o quella dei comunisti genovesi, che redigono un messaggio di solidarietà «riuniti in pubblica assemblea alla presenza del compagno Luigi Longo». Alcuni organi istituzionali, allo stesso modo, esprimono appoggio alla causa algerina a partire dalla vicenda di Alleg. La giunta comunale di Ferrara, con una delibera firmata da sindaco e assessori, invia una lettera di protesta formale all’ambasciatore francese a Roma. Allo stesso modo, è in una lettera del Senatore comunista Maurizio Valenzi che viene annunciata la formazione a Roma di un comitato di sostegno a Henri Alleg e ai suoi compagni in lotta, al fine di dare vita a una campagna nazionale d’informazione sul tema in Italia.
IV. «Cara Unità»: la solidarietà a Henri Alleg e gli italiani
Sono i contributi privati provenienti da singoli individui, da famiglie o da gruppi informali a costituire il materiale più significativo da un punto di vista storico, politico e umano. Come per le lettere inviate da comitati di fabbrica, cellule di partito, centrali sindacali o membri del giovane mondo istituzionale sorto sulle ceneri dell’Italia fascista, è l’esperienza partigiana a costituire il collante spazio-temporale fra le due sponde del Mediterraneo e fra l’epoca della Resistenza e quella della Decolonizzazione.
Renica Arnaldo, nome di battaglia Timosenko, e Vercelli Margherita, nome di battaglia Sonja, si rivolgono a Alleg da Torino, assicurando che «Noi tutti partigiani d’Italia scriveremo e supplicheremo la corte francese [affinché] ti mandi libero dalla tua Gilberte», dal momento che «per noi due partigiani non sono nuovi questi sistemi che gli aguzzini nazifascisti adoperavano verso i nostri compagni». «Cara Unità, o [sic] fatto la prigionia nelle carceri della tirannide fascista», chiosa, il partigiano operaio Fruschelli Mario, da Bobbio, Piacenza, nel chiedere la liberazione di Alleg, mentre Bugani Gino, da Bologna, rievoca il ricordo della deportazione subita sulla propria pelle nel campo di concentramento di Fossoli, prima, e di Mathausen, poi, donando mille lire agli organizzatori del premio Omegna, poiché «conosco bene i nazifascisti e i loro sistemi e le SS tedesche per aver subito i loro interrogatori […] Perciò dopo avere subito un’esperienza simile non posso che essere solidale con il compagno Henri Alleg». Francesco Serafin, da Treviso, ex partigiano nel «MACQUI francese» [sic] e in seguito nel nord Italia, si rivolge direttamente a De Gaulle, annunciando che restituirà «divise e galloni» del libero esercito francese guadagnati nella resistenza all’occupazione nazifascista. Tramontin Giuseppe scrive da Venezia, allegando una cartolina che contiene i ritratti dei suoi familiari caduti nell’eccidio della notte fra il 7 e l’8 luglio 1944 e di cui egli è «unico superstite». Lino de Rosso, emigrato a Ginevra, ricorda il periodo della detenzione nel carcere di Aosta, durante il fascismo, accusando De Gaulle di averne «accettato la lugubre eredità». Bruno Laura scrive da Imperia chiedendo la liberazione di Alleg in onore alla memoria del fratello, caduto durante la Resistenza in Liguria. Elvira Pajetta da Torino chiede la liberazione dei patrioti algerini in quanto «Ho avuto un figlio a Mathausen, ho ascoltato dalla sua voce il racconto di mille torture: ci pareva che solo i tedeschi dissennati dall’odio di razza potessero giungere a tanto ed oggi è la Francia, la mia Francia, che allora era vittima, a farsi carnefice dei suoi stessi figli!».
Ci sono, poi, le lettere di chi alla Resistenza non ha direttamente partecipato, o di chi è solidale alla causa algerina al di là dei legami con la drammatica esperienza del conflitto mondiale. Ventinove malati di Tbc nel sanatorio di Arco firmano una lettera collettiva per Alleg, così come la casalinga Coscelli Piera, di Sestri Levante, che si scusa della poca dimestichezza con la penna, pur manifestando la propria solidarietà in forma scritta. C’è una lettera di un «gruppo di amiche» del circolo Udi di Bologna, c’è Loredana, di 18 anni, che si rivolge ad Alleg poiché non vuole essere una «giovane bruciata», con riferimento al film con James Dean uscito pochi anni prima, e c’è Franca Giovanati, bambina di 11 anni di Cremona, che si rivolge a De Gaulle a nome della sua famiglia. Livia Cagnani giovane donna cattolica, da Piacenza, racconta di un fermo di polizia da parte dei «flics» a Nizza, che dopo aver trovato nel suo zaino una copia «del Mondjahib» [El Moudjahid], l’organo del Fln, e di Témoignage Chrétien, periodico di area cristiana in quegli anni particolarmente attivo contro la tortura in Algeria, hanno deciso di metterla in stato di fermo, sottoponendola a un interrogatorio di cinque ore con minacce e violenze.
Ce ne sono, e sarebbe necessario citarne, tante altre. Ognuna frammento di una memoria perduta di un’Italia in cui la ferita aperta dal trauma dell’esperienza nazifascista è lontana dall’essere suturata. È una costellazione multiforme e pulsante di aspirazioni, desideri, prospettive e strategie identitarie molteplici quella che si delinea a partire dalla lettura delle lettere di solidarietà ad Alleg e ai resistenti algerini. Dal tradimento della propria classe di Giovanni Pirelli, al protrarsi dell’eredità partigiana nella giovane Repubblica postfascista, ai racconti dell’emigrazione italiana all’estero e alle biografie di nuove generazioni in cui l’elaborazione memoriale del conflitto mondiale acquisisce sostanza di fronte a una nuova guerra, altrettanto crudele, che si svolge a pochi chilometri al di là del Mar Mediterraneo. Il conato di solidarietà per Henri Alleg permette di squarciare la tela monocroma della narrazione intorno all’Italia degli anni Cinquanta cui siamo generalmente abituati, per restituire i contorni di un ritratto variopinto e multiforme. In tempi in cui nuove linee di demarcazione razziale vengono tracciate al fianco di quelle preesistenti, recuperare dall’oblio memorie di questo genere assume un valore aggiunto e contribuisce a interrogare un presente in cui l’eredità coloniale appare tutt’altro che superata.
*Nicola Lamri è studente laureando in storia contemporanea all’Università di Bologna/Université de Paris.
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