Lo strano socialismo di Beppe Sala
Dall'adesione agli Stati popolari di Aboubakar Soumahoro alla proposta delle gabbie salariali: la via liberista al socialismo del sindaco di Milano
«Fa minga teàter» – non fare teatro – gli diceva il padre fin da ragazzo. Lo racconta lui stesso nel suo libro uscito per Einaudi, Società: per azioni, che nello «strillo» in copertina viene presentato come un concentrato di «idee per il nuovo socialismo dell’epoca planetaria». Lui è il sindaco di Milano Beppe Sala e in effetti, visto il numero di parti in commedia che è in grado di interpretare, la preoccupazione di suo padre – proprietario di una media azienda brianzola produttrice di divani letto – non era forse così peregrina.
Durante la pandemia è rimasto nella memoria per aver interpretato da protagonista prima la parte più «aperturista», con la famigerata campagna #MilanoNonSiFerma, poi quella da «sceriffo dei Navigli», lanciando un vero e proprio ultimatum ai milanesi contro gli aperitivi. A guardar bene però l’elasticità con cui riesce a occupare diversi ruoli era già emersa.
Un fiero portatore della «cultura d’azienda» è divenuto la speranza di chi – come l’Espresso di Marco Damilano che un anno fa gli ha dedicato una copertina – cerca qualcuno che possa rigenerare il campo progressista andando oltre il Partito democratico, spostandolo a sinistra e rendendolo vincente. Il Commissario unico di Expo 2015 (con una condanna sulle spalle in primo grado a 6 mesi di reclusione per falso amministrativo nel mega appalto de La Piastra) è stato il precursore del dialogo tra il Pd e il fiero nemico di Expo Beppe Grillo, con cui rivendica non solo «una relazione amicale» ma anche una «comunanza di visione su tanti temi». Colui che si è posto a fianco del sindacalista Aboubakar Soumahoro per dare visibilità agli invisibili che subiscono gli effetti della crisi, si scaglia contro chi pensa di affrontare il problema con una tassa patrimoniale a danno dei ricchi – perché «questo non è il momento di creare differenze, bisogna essere uniti».
Dagli Stati popolari alle gabbie salariali
L’elasticità con cui assume ruoli apparentemente opposti è venuta a galla in modo sorprendente proprio in queste ultime calde settimane di luglio.
Sala è infatti prima salito agli onori delle cronache per aver aderito e sostenuto economicamente gli Stati popolari lanciati da Aboubakar Soumahoro, un evento contrapposto agli Stati generali del governo Conte con l’obiettivo di far parlare in prima persona i lavoratori e le lavoratrici precarie, partecipato innanzitutto da braccianti agricoli migranti delle campagne del sud Italia. Poi, qualche giorno dopo, ha proposto di affrontare l’attuale crisi tornando all’antica ricetta padronale delle «gabbie salariali» tra nord e sud del paese: «È sbagliato – ha dichiarato – che il dipendente pubblico guadagni gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria. È sbagliato perché il costo della vita è diverso».
È appena il caso di ricordare che le «gabbie salariali» sono state in vigore nel nostro paese dal 1954 al 1969, spazzate via poi dalle grandi rivolte operaie di mezzo secolo fa, e sono da allora sinonimo di diseguaglianza, perché hanno alimentato il divario tra nord e sud favorendo le imprese attraverso un maggior sfruttamento delle fasce più deboli del mercato del lavoro. Non a caso anche la Cgil ha reagito alla proposta di Sala definendola «anacronistica e sbagliata».
Chi si attarda nell’«analisi politica tradizionale» poteva aspettarsi viceversa, da chi scrive le idee per il «nuovo socialismo», una proposta per affrontare il problema dei salari del Mezzogiorno in media decisamente inferiori a quelli del nord, o un’idea per combattere l’enorme ingiustizia venuta fuori durante la pandemia, ossia che proprio chi svolge i «lavori essenziali» – come i e le braccianti e precari che manifestavano agli Stati popolari – riceve salari da fame. Ma il «nuovo socialismo» di Sala non è quello di Bernie Sanders o Jeremy Corbyn che propongono un salario minimo orario intercategoriale – è quello capace di far sua la proposta storica sui salari della Lega di Umberto Bossi.
Il «moderato radicale»
Del resto, come detto, per lungo tempo Beppe Sala è stato un uomo d’impresa: laureato in Economia alla Bocconi, ha lavorato per quasi vent’anni al gruppo Pirelli fino a diventarne amministratore delegato, per poi passare a Telecom Italia dove ha ricoperto il ruolo di direttore generale. A cavallo tra gli anni Zero e gli anni Dieci passa poi alle imprese pubbliche: nominato dalla sindaca di centrodestra Letizia Moratti direttore generale del Comune di Milano, diventa successivamente Presidente di A2A – l’azienda lombarda di Energia e servizi – e poi amministratore delegato di Expo 2015 spa, la società incaricata di organizzare l’esposizione universale milanese di cui qualche tempo dopo diviene Commissario unico del governo. Un curriculum apparentemente più adatto a un incarico politico di Centrodestra ma, leggendo il suo libro, si intuisce che la genealogia del suo percorso politico verso il «nuovo socialismo» è del tutto originale.
Sala si autodefinisce un «moderato radicale», etichetta vaga, che presa alla lettera significherebbe forse «moderatissimo», ma nel libro pian piano chiarisce. Il personaggio politico che attraversa tutto il testo e che, per importanza nella sua vita, viene paragonato addirittura a suo padre è un grande leader democristiano: Aldo Moro. Certo è un po’ difficile sostenere che Moro fosse socialista a sua insaputa, ma ciò che interessa Sala è la sua «lezione di geometria»: è affascinato dall’idea morotea di fare della Dc una forza di mediazione di tutta la realtà sociale e politica italiana, compresa la sinistra. «Questa mediazione – scrive Sala – è letteralmente possibile se, anziché porsi su una retta, ci si pone al centro di un cerchio». Ecco l’elasticità che la sinistra storica non ha avuto e che Sala invece persegue.
Il «nuovo socialismo»… è il liberismo
Nel libro delinea la metafora, per la verità tutta capitalista, della «Società per azioni per arrivare a una ridefinizione contemporanea del socialismo», e chiarisce il suo pensiero anche in termini teorici. Se Sala, oltre ad averli sostenuti politicamente e finanziariamente, fosse intervenuto dal palco degli Stati popolari insieme ai braccianti delle campagne del sud Italia, probabilmente avrebbe letto l’originale ricetta contro la povertà contenuta nel suo libro:
Convincere chi si sente povero che i poveri non esistono. Esiste la povertà, certo. Ma […] i poveri non esistono se la condizione di povertà la percepiscono come provvisoria. […] La condizione che condanna il povero alla povertà – e più spesso di quanto si dovrebbe alla miseria – è la condanna a pensarsi come povero. […] una condizione di minorità accettata, interiorizzata, addirittura rivendicata attraverso richieste di elemosine varie.
Se avesse tradotto questo ragionamento letterario in uno slogan da palco per chiudere il comizio, sarebbe potuto suonare più o meno così: «Datevi da fare invece di lamentarvi! Andate a lavurà!». Ma l’intervento di Sala su quel palco non era previsto. E non ha potuto leggere a quei migranti in gran parte di origine africana nemmeno il passo del libro in cui individua i colpevoli della povertà del loro continente: «L’Africa è ricca, ma è abitata da africani che pensano di essere poveri, che sopportano che un’esigua minoranza possegga ricchezze criminali formatesi lucrando sulla povertà endemica dell’Africa stessa».
Pur criticando le ingiustizie e le ricette economiche del laissez-faire, Sala non risparmia attacchi duri a qualsiasi ipotesi di redistribuzione della ricchezza – definendola una «politica senz’anima». Senz’anima perché considera «il popolo un figlio minore, a cui somministrare un premio di consolazione, con assistenzialismi che sono premessa di resa». Ma – si domanda retoricamente – «la felicità o la disperazione o l’amore o la fede sono mezzi di produzione? Sono beni?».
La tradizionale risposta di sinistra incentrata sulla redistribuzione della ricchezza la considera non solo senz’anima ma anche irrealistica, perché nell’epoca digitale il capitale non ha più necessità di produrre in un determinato territorio e di conseguenza «per gli Stati diviene difficile disporre di leve per la redistribuzione delle ricchezze, costringere in qualche modo le corporation a far partecipare degli utili la collettività». Sembra insomma che i miliardari padroni delle grandi multinazionali non abbiano più nomi e cognomi, vivano nell’iperuranio e siano inarrivabili: «Il capitale si astrae e diviene irraggiungibile, sottraendosi a qualsiasi teoria della redistribuzione».
Il suo «socialismo» però non rinuncia alle vecchie categorie marxiane: «borghesia e proletariato». Le definisce però in modo eterodosso, ossia il mondo non si divide in classi sociali che detengono o meno i mezzi di produzione ma «si divide in componenti: c’è una parte contenta, ed è stata chiamata borghesia, e c’è una parte che vive nel disagio e nella povertà, ed è il proletariato».
Qui inizia a divenire chiaro il punto di arrivo della sua proposta politica: bisogna essere contenti, fiduciosi, non arrendersi mai, e tutto verrà da sé. Del resto – ci spiega – l’economia digitale è stata la prima a prevedere «insieme alla scarsità delle risorse naturali, l’infinità delle risorse umane. È a questo snodo che si avverte il bisogno di una proposta alternativa e, se è possibile spingersi a tanto, socialista». L’emancipazione dell’uomo verrà dunque dal riconoscimento delle sue azioni produttive, e per riuscirci chiude avanzando una proposta che a lui pare sinceramente molto innovativa:
Si è pensato di introdurre un reddito universale. Una soluzione interessante, ma che può mostrare un punto debole: si rischia di non uscire dal modello della redistribuzione. È ancora un lavoro compiuto sul capitale e non sull’essere umano […] non viene valorizzato l’essere umano: viene valorizzato, una volta di più, il capitale. […] [Occorre invece] agire non sul meccanismo del reddito universale, o non solo sul reddito universale, ma ipotizzare per esempio un accesso al credito universale pone[ndo] nuovamente al centro la creazione di occupazione e, attraverso questo ampliamento, l’erosione delle diseguaglianze. La possibilità del credito differisce da quella del reddito per un elemento fondamentale: chiama la ricchezza della risorsa umana come parte attiva del processo.
Sala non nomina mai la crisi economica del 2007-2008. È come se gli fossero sfuggiti gli effetti prodotti dall’economia del debito in tutto il mondo, i famigerati mutui subprime e la crescita esponenziale delle diseguaglianze seguita alla bolla finanziaria perseguita negli ultimi trent’anni dai paesi a capitalismo avanzato. Forse però è giusto avvertirlo che questa idea del «credito universale», attraverso cui ognuno se vuole potrebbe tranquillamente diventare «imprenditore di sé stesso», contrapposta a qualsiasi idea di redistribuzione della ricchezza, nella «teoria politica tradizionale» esisteva già – solo che si chiamava liberismo, non socialismo.
*Giulio Calella, cofondatore di Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia.
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