La notte di Rampini
Ignorare il razzismo, rimuovere la questione coloniale, prendere spunto dai pensatori di destra, rivalutare il concetto di patria. Il guru liberal Federico Rampini ha deciso che la sinistra deve ripartire da qui
Federico Rampini, editorialista e corrispondente da New York di Repubblica, imperversa su tutti i media italiani. Qualche settimana fa, ad esempio, ha spiegato la «lezione della Danimarca», paese in cui a suo dire la coalizione di centrosinistra ha vinto le elezioni grazie a una campagna elettorale dura sull’immigrazione. «Se i progressisti non fanno rispettare le frontiere – ha scritto su Repubblica – ci penseranno i fascisti». A guardar bene i consensi dei socialdemocratici danesi sono leggermente calati rispetto alle ultime elezioni politiche. Hanno vinto le elezioni solo grazie a una coalizione, sommando i propri voti a quelli di forze esplicitamente «no border». Solo che, come vedremo, per Rampini i dati di fatto contano poco. L’urgenza è spiegarci come uscire da La notte della sinistra, titolo del suo recente libro uscito per Mondadori. Nell’occhiello in copertina c’è scritto: «Da dove ripartire», e leggendo con attenzione abbiamo colto cinque punti di ripartenza. Il problema è verso dove.
1. La sinistra riparta dalla lotta di classe… tra bianchi e neri
Dal 1991 al 1995 Rampini è stato vicedirettore del quotidiano di Confindustria. A sorpresa però inizia la sua invettiva contro la sinistra rimproveradola di aver pensato che «la classe operaia non esiste più». Nel paragrafo successivo chiarisce meglio il suo obiettivo polemico, e soprattutto il suo concetto di classe operaia (rigorosamente bianca e occidentale). La sinistra – scrive in modo sarcastico – ha abbandonato gli interessi di classe perché «i poveri troppo simili a noi, non sono una causa abbastanza nobile».
La sua tesi è che tutto nasce nell’anno 1986. Poi però leggendo bene si capisce che non si tratta nient’altro che dell’anno in cui viene assunto da Il Sole 24 ore dopo aver lavorato in precedenza per una stampa schierata a sinistra (Città futura, Rinascita, L’Espresso), trasferendosi come corrispondente in Francia nel pieno dell’era del presidente socialista François Mitterand.
«La sinistra mitterandiana non poteva capire, perché era ben insediata nei quartieri chic della capitale (come la Rive Gauche), dove gli immigrati, ancora oggi, svolgono lavori utili: guidano gli autobus, raccolgono la spazzatura, servono nei ristoranti, vengono a fare le pulizie di casa. In periferia, invece, per gli operai metalmeccanici di Renault, algerini, marocchini e tunisini erano vicini di casa, i dirimpettai. I loro figli erano gli adolescenti che trattavano le ragazze bianche come prede sessuali. Erano talvolta gli spacciatori di quartiere. Ogni tanto quei ragazzi beur (seconda generazione di origine araba) incendiavano delle auto; ma non le Bmw e le Mercedes nei quartieri ricchi. Dilagava già allora una legittimazione ‘di sinistra’ dell’aggressività, in nome dei torti del colonialismo da riparare; anche se gli operai francesi da quel colonialismo non avevano ricavato vantaggi, erano loro i destinatari della rabbia e dovevano subirla tacendo, in nome delle ‘colpe dei bianchi’».
Da allora le cose per Rampini peggiorano. Non per la progressiva adesione al liberismo della gran parte dei partiti socialisti e comunisti europei (la terza via blairiana e i governi di Centrosinistra degli anni Novanta vengono citati solo en passant). Il problema è la presunta adesione della sinistra a un’ideologia che riconosce i diritti dei deboli solo se stranieri e chiede per questo un’immigrazione incontrollata.
Si potrebbe facilmente obiettare che è un po’ strano parlare di immigrazione senza controllo in un paese che ha leggi sull’immigrazione durissime, legate a rigide quote e al contratto di lavoro, dove i migranti sono costretti a morire sui barconi perché a causa delle restrizioni non potrebbero mai venire in aereo nel nostro paese, dove esistono dei Centri (prima Cpt, ora Cpr) dove i migranti vengono reclusi in condizioni disumane senza aver commesso alcun reato, dove c’è un ministro dell’interno che chiude i porti lasciando uomini, donne e bambini per giorni in mezzo al mare. Ma la realtà non conta. Rampini è sinceramente convinto che nel nostro paese non vi sia nessun controllo dell’immigrazione e che questa situazione sia stata voluta dalla sinistra. Si potrebbe ancora far notare che a inaugurare le leggi restrittive sull’immigrazione sono stati due ex comunisti: Livia Turco e Giorgio Napolitano. Che questa impostazione politica in tema di immigrazione è andata avanti senza soluzione di continuità in tutti i governi di Centrosinistra successivi fino all’ultimo ex comunista al Ministero dell’Interno, quel Marco Minniti autore degli accordi con la Libia e precursore di ogni politica del suo successore Matteo Salvini. Sarebbe inutile. Rampini lo ripete a sfinimento: la sinistra perde perché ha voluto un’immigrazione senza limiti, abdicando così alla propria funzione sociale. Perché «l’immigrazione da sempre è stata utilizzata dai capitalisti per indebolire il potere contrattuale dei dipendenti».
Il gioco, come mostra Mauro Vanetti nel suo La sinistra di destra, è lo stesso usato da una schiera di opinionisti e politici, dal sedicente filosofo marxista Diego Fusaro allo stesso Matteo Salvini, tutti con l’esplicito intento di sfidare il «politically correct». Ma proprio che un liberal come Federico Rampini dica le stesse cose suggerisce il fatto che siamo solo di fronte a un nuovo discorso conformista: citare la teoria dell’esercito industriale di riserva di Karl Marx per giustificare proposte politiche altrimenti definibili semplicemente xenofobe. Gli sfugge che Marx ne Il Capitale parla di «sovrappopolazione relativa di salariati proporzionata all’accumulazione del capitale», ossia unicamente legata alle esigenze dei capitalisti che, qualsiasi sia il livello demografico, hanno convenienza a mantenere una parte dei lavoratori disoccupati per creare una concorrenza al ribasso tra lavoratori. I disoccupati possono essere nativi o immigrati, esistevano prima delle ondate migratorie e non sono aumentati in percentuale dopo tali ondate. Si potrebbero anche segnalare i dati che mostrano come nel nostro paese il maggior tasso di migranti sia al nord dove pure c’è il minor tasso di disoccupazione del paese. Ma come detto i dati, che siano numeri, fatti o riferimenti letterari, non contano. Il che in fondo non stupisce, se si considera che stiamo parlando di una persona che è stata al centro di polemiche abbastanza dure sul fatto che i suoi articoli spesso sarebbero, diciamo così, molto simili a quelli usciti su testate internazionali, raramente citate come fonti. Nel libro, del resto, chi cita le statistiche viene addirittura deriso. Roba da vecchia sinistra.
2. La sinistra riparta dalla rimozione del colonialismo
Non solo la statistica è materia invisa a Rampini: lo è anche la storia. Il presunto buonismo di sinistra per lui deriva infatti da un senso di colpa storico introiettato nelle nostre società, frutto in realtà di «ignoranza». Per ripartire la sinistra deve uscire dal «dogma per cui ogni sofferenza dell’umanità contemporanea si deve ricondurre alle colpe dell’Occidente, dell’Uomo Bianco».
Il primo senso di colpa da rimuovere è il passato colonialista italiano, e lo scrive in virtù del fatto di esser stato per un brevissimo periodo corrispondente dall’Etiopia per Repubblica. Sì certo – ammette – «gli italiani si macchiarono di alcune atrocità, di qualche massacro orribile, come la strage ordinata dal maresciallo Graziani, ma – minimizza subito – nulla di troppo diverso da quello che i clan dominanti locali avevano inflitto alle etnie soggette, alle minoranze sconfitte e sottomesse nel corso dei secoli». E in fondo l’occupazione dell’Etiopia durò solo cinque anni quindi la possiamo considerare sostanzialmente irrilevante nella storia di quel paese. Anzi Rampini ci spiega che dobbiamo essere orgogliosi del ruolo benefico di alcuni italiani in quel paese, stavolta però non esattamente appartenenti alla classe operaia decantata in precedenza: si riferisce a Illy Caffè per il ruolo che ha nell’industria agroalimentare locale e a Salini Impregilo per la costruzione della quarta diga del paese. Dei benefattori.
Ma Rampini va oltre i presunti sensi di colpa italiani e si rivolge anche alla sinistra del paese di cui ha da qualche anno ottenuto la cittadinanza: gli Stati uniti. Va superato un altro assurdo senso di colpa: non c’è mai stato – ci spiega con vigore – nessuno sterminio dei nativi americani, i cosiddetti indiani d’America. Certo il genocidio c’è stato, ma fu «batteriologico e involontario. Li contaminammo con malattie di cui eravamo portatori sani e di cui non avevano difese immunitarie». Amen.
3. La sinistra riparta dagli intellettuali… di destra
Altro cruccio di Rampini sono i punti di riferimento culturali della sinistra, tema che attraversa soprattutto un capitolo dal titolo sarcastico quanto eloquente: «C’erano una volta Gramsci e Pasolini. Ora Asia e Pamela».
Stranamente Gramsci compare nel titolo del capitolo ma poi viene nominato solo per accennare vagamente al concetto di egemonia culturale. Pasolini invece è definito vero «intellettuale scomodo». Ma l’unica cosa a cui si riferisce è la famosa poesia Il Pci ai giovani scritta nel ‘68 dopo gli scontri a Valle Giulia tra polizia e studenti – nessun altro articolo, libro, poesia, film o discorso di Pasolini fu evidentemente davvero «scomodo». Guarda caso insomma ci ripropone proprio ciò che Wu Ming 1 definisce «l’infame mantra» su Pasolini dalla parte della polizia, mentre in realtà fino e oltre il giorno della suo tragico assassinio «Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini».
Oggi – si dispera Rampini – tutto è scivolato verso il pop e i riferimenti culturali della sinistra sono «le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico, sugli immigrati o sulle molestie sessuali». Pronunciare queste parole, ne è convinto, è solo un atto di conformismo: «Oggi a Hollywood ci vorrebbe più coraggio a schierarsi a destra». Sembra quasi un appello.
Tutta la sua argomentazione ruota attorno al concetto di «ipocrisia». Non si dedica troppo a smontare alcune posizioni per il loro contenuto, ma ricerca qualcuno con qualche contraddizione personale che le abbia pronunciate. Dalle pagine traspira particolare fastidio per il fenomeno del «me too». Un po’ perché è convinto che alcune donne che denunciano molestie sessuali in passato abbiano fatto carriera senza merito – come se questo avesse a che fare con l’aver subito una molestia o uno stupro. Un po’ perché anche in questo caso ritiene sia data eccessiva colpa all’Uomo Bianco. Le donne nere infatti – ci spiega dimenticando quanto la storia sia infarcita del «mito dello stupratore nero» – evitano di denunciare i loro stupratori dello stesso colore solo perché hanno già abbastanza problemi con la polizia.
A infastidirlo ancora di più è proprio la definizione «femminista». In conclusione del libro cita come suo riferimento la scrittrice afroamericana Toni Morrison. Tra i motivi della sua ammirazione segnala proprio il fatto che Morrison abbia «rifiutato di farsi definire femminista […] per essere più libera possibile», oltre al fatto che «non si lascia usare»: non firma appelli, non appoggia manifestazioni o movimenti. Insomma, per Rampini l’intellettuale «scomodo» è quello che non partecipa mai a un conflitto collettivo. Al massimo dice la sua opinione, che è valida solo se non viene fatta propria da nessuna manifestazione o movimento che possa, quello sì, scomodare davvero qualcuno. Morrison viene evocata suo malgrado, visto che i suoi romanzi non hanno mai nascosto il suo essere di parte, afroamericana e donna in opposizione alla cultura dominante bianca e al potere maschile.
Rampini si scaglia in modo condivisibile con quella sinistra – tra cui cita per nome solo Matteo Renzi, ma l’elenco poteva essere molto più lungo – affascinata da Marchionne, dagli chief executive delle grandi aziende e dai miliardari del web. Insomma la sua sembra a tratti una vera e propria invettiva contro la deriva liberal della sinistra, ma si tratta dello stesso Rampini che proprio in questi giorni su Repubblica, a proposito del dibattito tra i venti candidati alle primarie del partito democratico Usa, scrive che «Trump gongola non solo per la prestazione sbiadita di Biden ma anche per la sterzata a sinistra del partito democratico» dove in troppi stanno sostenendo che bisogna tassare i ricchi, passare a un sistema sanitario pubblico sul modello europeo, cancellare i debiti studenteschi e varare una sanatoria per gli immigrati clandestini. Insomma la sinistra liberal può essere attaccata, ma solo ed esclusivamente da destra.
Il vero punto di riferimento intellettuale di Rampini, messo in appendice del libro con una brevissima intervista, è del resto il «compagno» (sic) Francis Fukuyama, il politologo statunitense noto per aver scritto nei primi anni Novanta La fine della storia, il libro che annunciava la profezia mai realizzatasi della vittoria eterna del capitalismo contro qualsiasi idea di suo superamento. L’intervista verte sul suo ultimo libro, Identità, e alcune parole di Fukuyama Rampini non può non sentirle sue:
«Voi italiani avete da un lato Salvini, dall’altro una sinistra che si radicalizza e sembra contraria a ogni limite. Ma non c’è democrazia possibile se non sappiamo chi è, come si definisce, il ‘popolo’ su cui si fonda questa democrazia. […] La democrazia liberale non esiste senza una coscienza nazionale, che definisca ciò che i cittadini hanno in comune».
Rampini in effetti non si sogna mai di mettere in dubbio che la sinistra debba avere come unico supremo orizzonte la democrazia liberale in un sistema capitalista, che però per mantenere il consenso deve rimuovere proprio le differenze di classe che Rampini diceva di non voler dimenticare, e per unire e dividere le persone tende a inventarsi qualcos’altro.
4. La sinistra riparta dal concetto di Patria
Rampini è cresciuto nel milieu cosmopolita che oggi disprezza. È figlio di uno tra i primi funzionari della Comunità europea, tanto che Federico passa la sua infanzia e adolescenza a Bruxelles. Non tra i muratori, ciabattini e minatori migranti italiani di cui era piena la città all’epoca, ma all’interno di una scuola di eccellenza, la «Scuola europea», che lo aiuterà nelle lingue e nel suo successivo girovagare per il mondo. Ma a dispetto della propria biografia, Rampini professa una vera e propria fascinazione per i concetti di Patria e Stato-nazione: «Sì, dobbiamo smetterla di regalare il valore dello Stato-nazione ai sovranisti». Per quale motivo? Tutto si spiega con questo assioma:
«Puoi costruire una società molto egualitaria e molto solidale finché esiste una certa omogeneità; quando la diversità etnica aumenta a dismisura la coesione sociale si sfalda».
Sempre rigorosamente fedele al metodo di non citare alcun dato, fa l’esempio della Svezia dove – sostiene – dando i diritti ai migranti si è mandato il welfare al collasso e allo stesso tempo non si sono imposti sufficienti doveri ai migranti che in alcuni casi sono stati reclutati dal jihadismo.
La sinistra ha bisogno invece di uno «stato forte», e lo stato va difeso. Ma da chi? Di seguito lo spiega meglio: «da un’antica e diffusa tolleranza verso il ‘ribellismo dei poveri’, il vittimismo che giustifica il piccolo furto quotidiano: il biglietto non pagato sul mezzo di trasporto pubblico […] la mungitura di tutte le elemosine possibili», tutti atti paragonati all’evasione fiscale e all’abusivismo di stampo mafioso. È questo il modo che indica per liberarci dalla «cultura del piagnisteo» sulle diseguaglianze che «rende impreparati ad affrontare un mondo meritocratico e competitivo a livello globale». Insomma le differenze di classe esistono ancora, ma se le nomini sei un frignone.
5. La sinistra riparta… da Trump
C’è infine un’ultima cosa che Rampini non perdona alla sinistra: l’eccessivo odio verso Donald Trump. E di nuovo il faro della sua analisi è il concetto di ipocrisia.
Certo, anche a lui alcune cose di Trump non vanno giù, per quanto l’unica cosa a emergere in modo chiaro è lo scarso gradimento per il suo look: «Trump è la riscossa degli anni Ottanta. Fin nei minimi dettagli, i più kitsch, insopportabilmente volgari». Ma – sottolinea giustamente – sembrano colpiti da amnesia tutti coloro che associano il Muro tra Messico e Stati uniti esclusivamente a Trump: a iniziarlo fu Bill Clinton. Su questo ha ragione, e una tale ipocrisia lo indigna moltissimo: perché la sinistra non riconosce le continuità politiche con Trump? Nessuna traccia di indignazione invece per gli effetti di quelle stesse politiche, come coloro che muoiono tragicamente cercando di oltrepassare quel confine.
Trump non è peggio della sinistra insomma, anzi ha il merito di piacere alla classe operaia bianca, quella che in Tv guarda il wrestling. Non è peggiore perché è meno ipocrita e più coerente: «Trump fa quello che aveva promesso. La linea isolazionista è coerente, lo si potrebbe perfino scambiare per un pacifista: non fosse per il vigoroso aumento della spesa in armamenti». Se Obama avesse annunciato il ritiro dalla Siria – ci fa notare ancora – gli avrebbero dato un altro premio Nobel per la pace, invece è stato attaccato dalla sinistra perché abbandona i curdi. E a Trump non riconosce solo la coerenza ma anche una certa efficacia nella sfida tra capitali internazionali: «L’avvento di Trump ha costretto la Cina a fare i conti con una controreazione».
In Italia c’è un altro intellettuale di sinistra, meno famoso ma che ugualmente per anni ha scritto libri e articoli per segnalarci che la sinistra non era così meglio di Salvini, anzi. Si chiama Alberto Bagnai e adesso è senatore della Lega, candidato a ricoprire nel prossimo futuro il ruolo di Commissario europeo per l’Italia, il quale si trova ora a dire, come prima, cose di destra militando coerentemente in un partito di destra. Se Rampini odia tanto l’ipocrisia, gli suggeriamo di seguire l’esempio. Smetta di definirsi di sinistra e riparta da dove si trova: da destra.
*Giulio Calella è cofondatore e direttore generale di Edizioni Alegre.
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