Luchadoras contro la violenza
Secondo le direttive europee in Italia dovrebbero esserci 6.000 Centri antiviolenza e invece sono 500. Malgrado i proclami istituzionali contro i femminicidi, i Centri continuano a essere defininanziati o sfrattati
Il corteo di Non una di meno del 23 novembre sarà aperto dai centri antiviolenza, dalle case rifugio e dagli spazi femministi. Come sempre, in prima linea ci saranno le donne impegnate nell’opera quotidiana e capillare di contrasto alla violenza maschile e patriarcale nelle sue molteplici forme, dalle più palesi alle più subdole. Ma quest’anno, per la prima volta, insieme a loro ci saranno delle eroine mascherate, le luchadoras, comparse nei giorni scorsi sui profili social di decine di disegnatori italiani in risposta alla campagna #DrawItInYourStyle lanciata dall’illustratrice e fumettista Rita Petruccioli. Nate e precettate per salvare dallo sgombero la Casa delle donne Lucha y Siesta (che il 13 novembre è riuscita a scongiurare, temporaneamente, il distacco delle utenze), sfileranno in testa alla marea transfemminista che promette di farsi rivolta.
Sì, perché malgrado le imponenti mobilitazioni che dal 2016 si sono susseguite su scala globale, malgrado il movimento italiano abbia scritto e diffuso un Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, e malgrado i proclami delle autorità e i tentativi di accreditarsi la causa del femminismo da parte di vari esponenti dello spettro politico, poco o niente è stato fatto dalle istituzioni per combattere nel concreto questa battaglia. Al contrario: la questione, in Italia, cammina col passo del gambero, e invece di andare avanti sembra di tornare indietro nel tempo, mentre le conquiste degli scorsi decenni vengono messe in pericolo da un ferocissimo backlash patriarcale.
A tre anni dalla sua stesura, non solo governo, comuni e regioni non hanno recepito il Piano, ma hanno fatto a gara nel varare misure spot che del progresso hanno solo la patina, senza alcuna sostanza. Soluzioni miopi, di breve respiro ed emergenziali, come il Telefono Rosso, che invece di garantire la sicurezza delle donne che denunciano rischia di peggiorare la situazione. Perché? Perché alla donna che chiama viene detto di aspettare, perché c’è bisogno di più tempo per trovarle una soluzione sicura, perché semplicemente non ci sono posti, e le si chiede di temporeggiare un altro po’, solo qualche altro giorno, in attesa che si sblocchino le cose. Ma in queste situazioni qualche giorno può essere fatale. Perché, in sintesi, due sono gli elementi fondamentali al contrasto alla violenza di genere che ancora mancano: gli spazi e i fondi per sostenerli.
I numeri in questo senso sono brutali. Le direttive europee e nazionali e la convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, prevedono una struttura ricettiva per il contrasto alla violenza di genere ogni 10 mila abitanti. Ma nella capitale, tanto per dirne una, ci sono solo sei centri anti-violenza e quattro case rifugio per un totale di 23 posti letto, che dovrebbero coprire il fabbisogno di un bacino di un milione e 600 mila donne. Cifre talmente irrisorie che non si sa nemmeno bene come commentarle.
La situazione romana non è affatto un caso isolato, ma riflette quella del paese, in cui le strutture sono poche e costantemente a rischio. In tutta Italia ci sono meno di 500 centri antiviolenza, ben al di sotto dei 6 mila necessari per ottemperare alle direttive citate sopra. Molti di loro non godono di finanziamenti pubblici e si affidano per lo più a meccanismi di autofinanziamento per garantire la propria sopravvivenza. Alcuni sono addirittura attivamente osteggiati da quelle stesse istituzioni che poi vi si affidano per coprire le proprie mancanze strutturali.
La Casa delle Donne di Viareggio, ad esempio, attiva dal 1996, che in ventitré anni ha accolto più di duemila donne, risiede in un immobile da poco messo in vendita dal comune. È l’unico centro antiviolenza di tutta la Versilia e lo stabile in via Marco Polo è un luogo ormai noto e riconosciuto da tutte le donne della zona. Nei mesi scorsi è nata una mobilitazione per scongiurare la chiusura della Casa ma, nonostante le rassicurazioni del comune sulla ricerca in in tempi rapidi di una valida alternativa, ancora non è stata proposta alcuna sede adeguata e il futuro della Casa resta incerto.
Stesso dicasi per la Casa delle Donne di Terni, che dal 2009 offre assistenza a donne che fuoriescono da percorsi di violenza e che dal 2014 ha anche una sede, in cui si pratica il mutuo aiuto fra donne in difficoltà, si svolgono corsi di formazione e attività culturali di vario genere. Il termine per la riconsegna delle chiavi è stato fissato al 31 dicembre di quest’anno, trascorso il quale il progetto si troverà nuovamente senza dimora. E l’ultima notizia in ordine di tempo arriva da Catania, dove il Centro antiviolenza Thamaia è a rischio chiusura per un credito mai saldato dal comune di 70 mila euro.
Invece di essere sostenuti e incoraggiati, come a volte si legge nei comunicati politici, gli spazi delle donne – e i loro gli strumenti pratici, quotidiani, esistenzialmente vitali di contrasto alla violenza di genere – vengono sfrattati per fare cassa con gli immobili in cui hanno sede, spesso da decenni, e spesso in seguito a lotte durate anni: è il caso della storica Casa delle Donne di Pisa, che si è dovuta confrontare con una messa a disposizione dell’immobile in cui opera.
Come per altri settori di quel che resta del welfare, i comuni, stretti tra il pareggio di bilancio e i tagli alla spesa sociale, smantellano il terzo settore e cedono alle sirene della svendita. E i primi a cadere sono proprio i servizi delle donne, già sottofinanziati e affidati per lo più ad associazioni e realtà autogestite, femministe, alle quali ci si appoggia volentieri in caso di necessità – cioè sempre – salvo poi cacciarle alla bisogna appellandosi a esigenze di cassa o peggio di legalità. Come ha fatto negli scorsi mesi la sindaca di Roma Virginia Raggi con la Casa Internazionale delle Donne, chiedendo alle attiviste gli arretrati degli affitti non pagati, ignorando la storia politica e culturale del luogo, per tacere del buon senso. E con la scusa di voler mettere ordine ha annunciato che verrà emanato un bando finalmente trasparente. D’altra parte, la messa a bando degli immobili dove insistono realtà radicate e indipendenti è un canovaccio frequente, un’ossessione, quasi, di questi ultimi anni, che di trasparente di solito ha soltanto la manifesta inefficacia e la volontà politica di cancellare decenni di lotte e rivendicazioni.
E se gli spazi già esistenti vengono sfrattati o accompagnati nemmeno troppo gentilmente verso l’uscita, di aprire nuovi centri antiviolenza nemmeno a parlarne. Un fronte su cui nemmeno le regioni fanno una bella figura.
L’ultimo rapporto di ActionAid sui fondi destinati alle strutture di contrasto alla violenza di genere dipinge un quadro drammatico: dei 145 milioni di euro stanziati dallo stato per potenziare le case rifugio e i centri anti-violenza, 67,3 sono in mano direttamente alle regioni; ma nel biennio 2015-2016 è stato stanziato solo il 63% dei fondi disponibili, nel 2017 solo il 34%, e nel 2018 solo lo 0,4%. Per il piano anti-violenza 2017-2020 del Dipartimento delle Pari opportunità, invece, non è stata ancora liquidata alcuna risorsa. Unita alla burocrazia e alla scarsità strutturale di centri sofferta dal nostro paese, la carenza di fondi mette in serio pericolo la sostenibilità dei centri antiviolenza e delle case rifugio esistenti, anche di quelle non immediatamente a rischio sgombero.
Si dice spesso che il problema del contrasto alla violenza di genere è culturale, ed è vero. La violenza maschile prospera in un’humus di atteggiamenti e convinzioni trasversalmente diffusi in ogni strato della società, un prisma sfaccettato che va delle molestie per strada a quelle nei luoghi di lavoro, dai commenti sessisti al revenge porn, dall’ossessione per il corpo femminile fino ad atti di coercizione veri e propri, dalla violenza economica a quella fisica, lo stupro propriamente detto e il femminicidio. Gli strumenti da mettere in campo dovrebbero essere molteplici e variegati, strutturali e di lungo periodo, non spot elettorali o pezze a colori per mascherare un disinvestimento cronico e una sistematica indifferenza.
È per questo che la vicenda della Casa delle Donne Lucha y Siesta non parla solo a sé stessa, ma è emblematica a livello nazionale e con le sue luchadoras aprirà il corteo del 23 novembre. Lungi dall’essere un caso isolato, finito nella tenaglia del concordato fallimentare dell’azienda dei trasporti romana Atac, proprietaria dell’immobile, e messo a rischio dall’ignavia politica dell’amministrazione romana, la vicenda di Lucha rispecchia la norma del nostro paese. Lucha è indubbiamente un esperimento unico nel suo genere, ma è anche la punta di diamante di una serie di esperienze più piccole e sfaccettate, quelle «esperienze autogestite e autonome di welfare, come per esempio i centri antiviolenza non istituzionali e le consultorie, esperienze fondate sulle pratiche femministe delle donne e in grado di sovvertire le forme di riproduzione sociale che impongono e fissano le identità e i ruoli di genere» di cui parla il Piano femminista. Esperienze che, forti dei loro percorsi pratici e teorici, non vittimizzano le donne che fuoriescono dai percorsi di violenza, non le schiacciano in dinamiche assistenziali come spesso avviene nei processi istituzionalizzati e calati dall’alto, ma le aiutano a prendere coscienza della loro forza affrontando il problema della violenza di genere con un approccio sistemico, mutualistico, transfemminista.
Il 23 novembre le donne e le soggettività Lgbtqipa+ saranno nuovamente in piazza per contrastare la violenza maschile e di genere, per difendere Lucha y Siesta e tutti quei luoghi che la violenza la combattono giorno dopo giorno. Con le luchadoras in testa, a strappare metro dopo metro gli spazi vitali che ci permettono di resistere, ma soprattutto di esistere, in un mondo violento e patriarcale.
*Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.
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