Niente sarà come prima. Ma dipende da noi
Bisogna tornare alla vita ma in forme del tutto nuove rispetto a quelle che conoscevamo. Per rispondere con idee e lotte visionarie al grande bisogno di protezione che è scaturito da queste giornate impreviste e imprevedibili
Basterebbe la fragilità mostrata nel gestire la crisi da Covid-19 per dimostrare decenni di teorie sull’anticapitalismo. E per motivare una critica ancora più serrata ai meccanismi di funzionamento delle società occidentali alle prese con l’inaspettato, l’imponderabile, talmente imprevisto da mettere in discussione certezze consolidate.
Ha ben argomentato David Harvey come la pandemia rappresenti «la fine del neoliberismo» e come il futuro sarà un campo di battaglia in cui, però, tutte le tesi e tutte le teorie riacquistano immediatamente legittimità. Di fronte al bisogno di rassicurazione e protezione che il Coronavirus ha generato su scala mondiale qualsiasi ricetta potrà ammantarsi del miracoloso e qualsiasi idea, in grado di garantire benessere e sicurezza, potrà avere un seguito. Anche le nostre.
Si tratta dell’unica vera «opportunità», se tale parola non suonasse blasfema davanti alle immagini di centinaia di bare che la crisi attuale riserva. E non avendo potuto fermare le morti o impedire l’impazzimento di una società incapace di pensare alla salute prima che ai profitti, concentrarsi su quello che sarà e soprattutto dovrà essere ci sembra una buona bussola per chi come noi si colloca a sinistra e spera, lavora sempre per una trasformazione sociale.
Il dibattito attuale, quel poco che c’è in realtà, rischia di essere sottodimensionato rispetto a questo obiettivo. Si rischia di discutere più dei diritti costituzionali violati o delle libertà minacciate dalle App, riflessioni certamente importanti, che di come organizzare la società del futuro.
La regola e l’eccezione
Un dibattito che, a sinistra, è stato provocato dalle prime considerazioni di Giorgio Agamben e dalla reiterazione dello storico concetto di «stato di eccezione» che, mai come in questa occasione, sembra essere risolutivo e finemente descrittivo di una situazione inedita, anche se poco attento alla gravità del fenomeno e alla pervasività del contagio. La tentazione è stata forte e anche legittima perché mai nella storia della Repubblica si è governato a colpi di Dpcm, decreto del presidente del Consiglio dei ministri, termine per lo più sconosciuto. Quale eccezione più ampia si poteva immaginare di una emergenza normata direttamente dal capo del governo?
Ma la forma non sempre definisce chiaramente i contorni dei problemi, soprattutto quando si è nel politico-giuridico. E la forma del Dpcm non ha potuto celare la sostanza di un governo, quello italiano, ma non solo, che si è dovuto caricare della domanda di sicurezza e di protezione che la violenza del virus ha scatenato ovunque. Una domanda che ha travalicato l’offerta e che ha trovato risposte impreparate, anche fuori dall’Italia. Basti guardare alla tragica evoluzione della situazione inglese con un premier che inneggia alla «immunità di gregge» come risoluzione del problema e poi è costretto a rivolgersi al «mitico» (prima che fosse maciullato) Nhs, il servizio sanitario pubblico, smentendo con la forza delle immagini le proprie profezie.
I governi hanno dovuto offrire soluzioni di sicurezza, garantire che la popolazione non si sarebbe ammalata ai ritmi folli del contagio della Lombardia, a sua volta frutto di una politica dissennata delle amministrazioni presenti e passate (vedere il vecchio piano sanitario dell’ex presidente Roberto Formigoni per capire). Questa è la sostanza dei provvedimenti, non il desiderio di punire e sorvegliare. Che poi, nelle pieghe di una situazione «eccezionale» si provi a strappare risultati di controllo sociale – nelle prefetture, nei corpi di polizia o della magistratura, negli interstizi governativi e in quei meandri oscuri del potere – è cosa che è avvenuta sempre e non poteva che avvenire in forma enfatizzata anche in questa occasione. Ma qui interessa cogliere soprattutto la motivazione, e quindi la tendenza, che ha orientato le politiche pubbliche in occidente con le eccezioni di Bolsonaro e, almeno nella prima fase, di Trump che, non a caso, sono stati additati come degli irresponsabili.
Il giudizio su quanto accaduto e, come diremo più avanti, su quello che dovrà accadere, va commisurato a questo. I vari governi del pianeta hanno protetto davvero le popolazioni, i loro cittadini? Le vite sono valse più dei profitti? E se non lo hanno fatto, perché non sono stati in grado di farlo o perché non lo hanno voluto fare? Questo è l’angolo di visuale più aderente a quanto sta avvenendo e più produttivo di frutti per il domani.
La risposta alla prima domanda non può essere positiva anche quando si volesse concedere il beneficio del dubbio a certe misure e a certe modalità di azione. La crisi è stata gestita con evidente approssimazione, mancanza di strumenti e con una gestione delle emergenze figlia della mancanza di un’organizzazione basata su priorità sociali.
Governare senza visione
A cominciare dalla Cina, tanto amata da una porzione di sinistra. Pechino ha ammesso con estremo ritardo quanto stava avvenendo e come ricorda il professor Andrea Crisanti (una delle autorità scientifiche più riconosciute) «non è mai stata trasparente», non ha informato per tempo e correttamente il resto del mondo e, come risulta dalla più recente contabilità dei morti, sembra anche che non abbia fatto chiarezza sul numero dei decessi e quindi sull’esatta proporzione del contagio e della letalità (il rapporto tra i decessi e i contagiati).
La gestione del focolaio di Wuhan è stata portata avanti con una rigida applicazione di misure restrittive al cui confronto quelle italiane impallidiscono. «Nascondere, nascondere, nascondere» è il titolo del saggio letterario della scrittrice cinese Yan Geling, di cui ha scritto il manifesto, per descrivere l’atteggiamento delle autorità cinesi a cominciare da quanto accaduto al dottor Li Wenliang, denunciato per aver lanciato l’allarme sul virus e poi morto di Covid-19 a 34 anni. Il saggio è stato ampiamente censurato ma poi è circolato «su alcuni media della diaspora cinese» (il manifesto, 22 aprile).
Sarebbe ipocrita però concentrare le accuse alla sola Cina, come se l’occidente non avesse colpa. Il conteggio dei morti, in fondo, è poco chiaro ovunque e in Italia il governo ha dovuto ammettere di aver preparato un piano di reazione alla pandemia tenuto segreto per non allarmare la popolazione (e poi, fortunatamente, non necessario). Assieme alla Cina il dito va puntato sicuramente contro l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, che ha aspettato l’11 marzo per dichiarare la pandemia globale, sbagliando previsioni sui tamponi non cogliendo il dato degli asintomatici, ragione per cui chi ha trascurato le sue direttive (Corea del Sud, Germania, in parte anche il Veneto) ha gestito molto più efficacemente la situazione. «Penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi» dice ancora Crisanti: «E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli ai contatti e a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione. Se non si capisce l’importanza di questa strategia di fatto rimarremo sempre con queste polemiche…».
L’Oms ha creato confusione sull’uso delle mascherine – ancora oggi non è chiaro se siano veramente utili (dai vari esperti del Comitato scientifico italiano si ascoltano versioni diverse) – inoltre ha prima definito i test diagnostici come raccomandabili solo ai casi chiaramente sintomatici per poi invitare tutti a fare «test, test, test!». E poi, a cascata, gli errori, le inadempienze, le impreparazioni che riguardano tutti i paesi, a cominciare dall’Italia. Nonostante la possibilità di un virus distruttivo fosse evidente già con la Sars o la Mers e comunque tenesse occupata la comunità scientifica da almeno vent’anni, come ha ricordato Ernesto Burgio, solo ora ci siamo accorti che in occidente non esistevano piani pandemici. L’Italia, come ha documentato il Fatto quotidiano , aveva dei piani dopo il 2003 ma nel vivo della crisi non li ha utilizzati, lasciando sguarnite le Regioni e soprattutto gli ospedali. Il caos di Codogno e soprattutto dell’ospedale di Alzano lombardo lo dimostrano ampiamente.
Invece, quello che è stato fatto con molta energia, è stato chiudere il traffico aereo con la Cina in ossequio a una fobia anti-cinese che è montata per tutto il mese di gennaio (si ricorderanno le foto dei ristoranti vuoti). Niente piani pandemici attivi, nessuna avvertenza al personale medico e sanitario, nessuna idea di cosa sarebbe accaduto nei luoghi di lavoro. Ognun per sé, almeno fino agli inizi di marzo, fino a quando i buoi sono stati liberi di scappare dalle stalle. Poi è stato tutto un rincorrere. Con misure, lo ripetiamo, che sono state dettate dalla preoccupazione e paura di essere travolti dalla rabbia sociale e quindi con l’obiettivo di offrire sicurezza e rafforzare in questo modo anche la tenuta del governo, ma improvvisate e tarate solo sull’emergenza.
Ridurre il contagio a qualsiasi costo (ma non fino al punto di scontrarsi apertamente con Confindustria), senza una visione complessiva. E non solo o non tanto per insipienza e incapacità, ma perché quella visione complessiva non ha cittadinanza nel mondo capitalistico, non esiste una ambizione che abbia come cardini principi fondamentali come la pianificazione e il coordinamento, un forte e diffuso intervento pubblico, una preminenza dei servizi sociali essenziali come la sanità e gli ammortizzatori sociali e la capacità di strutture capillari nella e della società per non concentrare le decisioni e la gestione dell’emergenza solo in istituzioni spesso autoritarie. La pandemia mette in crisi i principi del liberismo e affossa consolidate convinzioni, ma la scomparsa della sinistra, soprattutto dentro quel partito che la sinistra presume di rappresentare, ha prodotto un vuoto di memoria e coscienza, un oblio culturale che fa sembrare lunare quello che a molti sembrerebbe ovvio.
L’assenza in Lombardia della medicina del territorio, allegramente smantellata dall’ex presidente Roberto Formigoni e dai suoi eredi quando tutto in quella regione sembrava impunito, fa parte del pacchetto. Su 1,441 milioni di ricoveri, ricordava Gianni Barbacetto sul Fatto quotidiano, 947 mila (il 65%) sono negli ospedali pubblici, 495 (il 35%) nelle strutture private. Ma il privato incassa 2,153 miliardi di euro sui 5,4 totali (il 40%), contro i 3,271 del pubblico. E in vent’anni i posti letto si sono dimezzati.
Questo è il contesto in cui si è agito e che ha rallentato i movimenti come ha dimostrato il ministero della sanità che si è mosso sull’acquisto dei ventilatori un mese dopo lo scoppio dell’emergenza.
Il mito dell’impresa
E quando ci si è mossi si è scoperto che viviamo in una società basata solo sull’azienda e sul mito della sua infallibilità in cui il pubblico è stato confinato nei bassifondi della scala sociale. Salvo poi scoprire che nessuno fabbricava mascherine e ci è voluto l’intervento pubblico per muovere qualche azienda. Ma non è bastato a scalfire il primato dell’impresa. Il 29 febbraio, mentre ad Alzano lombardo si consumava già la tragedia, la Confindustria bergamasca suonava la grancassa con il video «Bergamo is running» per cantare le lodi al proprio tessuto produttivo e rassicurare i partner internazionali. E nemmeno nei giorni successivi le industrie hanno davvero chiuso. Solo grazie ai primi scioperi si è imposto il nodo della protezione nelle fabbriche che con il decreto del 23 marzo 2020 ha prodotto una prima chiusura, poi lievemente più ristretta. Ma mai totale (al netto dei settori davvero fondamentali cioè quello alimentare e sanitario). L’Istat ha stimato in 9,5 milioni i lavoratori che hanno continuato a recarsi al lavoro senza contare le centinaia di migliaia di deroghe (110 mila) richieste dalle imprese alle Prefetture provincia per provincia in un «liberi tutti» che nessuno ha saputo e voluto controllare. Con un atteggiamento dimesso dei sindacati confederali che al di là di qualche dichiarazione di facciata non sono riusciti a marcare da vicino gli abusi e le inadempienze. Eppure, uno studio dell’Inps, pubblicato il 24 aprile, dice chiaramente che «il numero dei contagiati da virus Covid-19 è cresciuto più velocemente nelle province in cui è più elevato il numero di rapporti di lavoro nelle attività essenziali, cioè quelle attività che non sono state bloccate e hanno continuato a essere svolte anche dopo le misure di lockdown introdotte dal governo. Tale evidenza suggerisce inoltre, in modo indiretto, che le misure di lockdown hanno limitato la diffusione del contagio, e questo effetto di contenimento è minore nelle province dove le limitazioni erano meno stringenti a causa della maggiore quota di rapporti di lavoro essenziali». Essersi dovuti recare al lavoro ha aumentato il contagio.
Tenere tutti a casa, come ha ricordato Alessandro dal Lago rispondendo proprio ad Agamben, ha comportato una limitazione di «qualche libertà» non «delle libertà» tout court. Ma è stato anche un modo «grossolano», come lo ha definito il professor Massimo Galli (Piazzapulita del 24 aprile) di gestire l’emergenza e ovviare alla difficoltà di concepire un disegno complessivo. Non sappiamo bene che fare, nel dubbio state a casa. E stare a casa, in effetti, è sembrato comunque un bene rispetto a improvvisati appelli su «Milano che non si ferma» o alla richiesta di Confindustria di non fermare le attività o, ancora, alle trovate di Matteo Renzi che per non scomparire dalla scena ha impugnato per primo la bandiera del tornare al lavoro. Tornare senza un progetto, senza un piano, senza garanzie.
Questa è la partita che si sta giocando su cui non ha senso dividersi. La salute si garantisce in quarantena, ma non si può restare a casa per sempre. Allo stesso tempo è giusto rifiutarsi di non andare al lavoro, di non tornare a scuola se non viene garantita la sicurezza. Ma chi la garantirà, come lo si farà non è chiaro. Qui si apre una battaglia politica che diventa la battaglia vera, lo scontro tra idee diverse di società e diverse priorità di allocazione delle risorse pubbliche.
Su Le Monde il filosofo Edgar Morin non si fa problemi ad affermare che «questa crisi ci spinge a interrogarci sul nostro modo di vita, sui nostri veri bisogni mascherati nelle alienazioni quotidiane» e ha gioco facile a puntare il dito contro la «corsa al profitto» e le «carenze del nostro modo di pensare» come causa ultima degli innumerevoli disastri causati dalla pandemia da Covid-19.
La quarantena ha evidenziato un superfluo quotidiano che stride con i bisogni naturali. Un pensatore sempre stimolante come Romano Madera richiama «la teoria dei bisogni di Epicuro: mettere al primo posto e perseguire la soddisfazione dei ‘beni naturali e necessari’». E ancora una volta questi sono «la salute, il riparo, il cibo, l’istruzione». Guarda caso i punti programmatici basilari dei programmi della «vecchia sinistra». E quei carrelli lasciati davanti ai supermercati che, in forme istintive e spontanee di solidarietà e mutuo soccorso dicono «chi può lasci, chi ha bisogno prenda» sono la riedizione involontaria ma efficace del motto marxiano «da ciascuno secondo le proprie possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Occorre affrontare il futuro prossimo avendo negli occhi tutta l’inadeguatezza che ci ha circondato e mettendosi in moto, con le idee e le azioni, anche minute, anche esemplari, per costruire il nuovo.
I bisogni e il mutualismo
In parte è stato già fatto. Nel silenzio di comunicazioni rarefatte, di scambi umani impossibili, di relazioni monche, si è messa in moto una solidarietà diffusa e pervasiva che si ritrova a ogni angolo, in particolare con gruppi spontanei nati fuori dalle reti sociali e politiche che conosciamo. I gruppi di spesa solidale nascono ovunque sui social network e le varie reti hanno adottato tutte qualche forma di mutuo soccorso. E questa idea, che sembrava un ripiego illusorio verso forme ancestrali dell’attività politica, sprigiona la sua forza di tessitura e di tenuta di un fronte di classe che già percepisce l’abisso in cui potrebbe essere sprofondato.
C’è il serio rischio, infatti, che la crisi non faccia prigionieri e che, nonostante i movimenti di adeguamento che si registrano nell’Unione europea, in cui si sono un po’ alla volta allentati dogmi che sembravano immutabili e si ragiona di patti più flessibili e di «bond» dal volto più umano, alla fine il conto sarà comunque presentato ai subalterni. Che, a loro volta, non hanno strutture consolidate di cooperazione solidale, nazionale e tantomeno internazionale, che servirebbero come il pane.
In ogni caso occorre lanciarsi verso proposte visionarie, ma che mai come oggi iniziano a sembrare scontate. Ripartire dai bisogni. La crisi ha dimostrato che il lavoro necessario è soprattutto quello di protezione sociale, di cura, di sicurezza e il lavoro che fornisce beni essenziali, a partire da quello agricolo. Quest’ultimo, guarda caso, quello in cui è più intenso lo sfruttamento di lavoro migrante e in cui il caporalato la fa da padrone. Ce n’è abbastanza per proporsi un cambiamento radicale.
Il sistema sanitario non può non essere il centro della ricostruzione a venire, con strutture pubbliche, personale adeguato, gratuità diffuse, medicina di prossimità, prevenzione, strutture adeguate, lotta spietata a corruzioni e malaffare. Quello che il Covid-19 ha dimostrato non può diventare un ricordo e su questo non si può tornare indietro.
Si deve tornare a scuola, ma la scuola non potrà essere quelle delle «classi-pollaio», bisogna rivedere il rapporto insegnanti-studenti, investire sulle strutture, evitare che un quarto, se non di più, degli studenti rimanga tagliato fuori dai collegamenti digitali. Serve un’altra scuola, anche questo ci è stato mostrato nel corso della quarantena.
Così come la pandemia ha dimostrato che lavoriamo troppo e che il telelavoro è possibile, sempre che non diventi un pretesto per intensificare la produttività scaricandola tutta sui lavoratori. Ridurre l’orario di lavoro non solo è possibile, ma è necessario e gli orari di lavoro, in una logica dei trasporti sostenibile, rappresentano un tassello decisivo di cui chi lavora deve essere il regolatore ultimo.
E poi si è scoperto, davvero, che un reddito universale, un reddito di «ultima istanza» che scatti automaticamente quando ogni altro sostegno viene meno, è decisivo. Che non ci sono alternative a queste misure, salvo barcamenarsi in formule astruse e in burocrazie insostenibili, tali da mandare in tilt anche sistemi complessi come quello dell’Istituto di previdenza. Un reddito esigibile, adeguato, fruibile senza complicazioni e senza condizionalità, anche questo abbiamo imparato in questa lunga quarantena. Da offrire innanzitutto alla moltitudine precaria che chiede giustamente risposte al bisogno di reddito e sopravvivenza e che altrimenti non avrebbe altra strada se non quella di esporsi al rischio di cercare qualsiasi lavoro a scapito delle necessarie protezioni.
Ancora, è chiaro ormai a tutti che la salute non è barattabile, tantomeno con il salario, che lavorare in sicurezza è un bene primario e che il lavoro operaio è ancora necessario a questo paese e a questo sistema internazionale. Gli operai si sono dovuti difendere da soli, scioperando quando sembrava che stessero per essere mandati al macello. Non andrebbe dimenticato, nell’organizzare la difesa dei propri diritti, direttamente sulle proprie gambe e sulle proprie competenze.
Si potrebbero stilare ancora altri punti, non è compito di questo articolo redigere un programma politico. Si dovrebbe ragionare su cosa è davvero la cura e la riproduzione sociale, di cui tutti hanno potuto rendersi conto nel chiuso delle pareti domestiche e di come gli allarmi sul clima fossero fondamentali. Niente dovrebbe essere come prima.
Ma ci saranno forze enormi che tenteranno di far finta che non sia accaduto nulla, «le fabbriche riapriranno e arresteranno qualche studente». Come se fosse stato un gioco.
Già le si vedono all’opera le linee guida della ripartenza, attente solo al fatturato e non a preservare la società nelle sue vene più profonde, nelle sue fragilità e nei suoi bisogni più evidenti. Già si vedono all’opera i sacerdoti delle austerità che, dopo aver lasciato un po’ liberi i cordoni della borsa perché «la crisi può far sprofondare il Pil europeo a meno 15%» come avverte la presidente della Bce, Christine Lagarde, in un sussulto di umanità, chiederanno di rientrare dal debito. Mentre invece, citiamo ancora Madera, si dovrebbe ripartire proprio dalla preghiera cristiana e chiedere di «rimettere i nostri debiti» in una sanatoria generale che colpisca nel vivo la classe dei rentiers (e come ricorda il Cadtm – il Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi – gli strumenti per un annullamento selettivo e mirato dei debiti pubblici esistono).
Abbiamo bisogno di tornare a vivere, ma non nella paura e non come vivevamo prima. Il punto è tornare alla vita in forme sicure, accettabili, del tutto nuove rispetto a quelle che conoscevamo. In grado di parlare al grande bisogno di protezione che è scaturito da queste giornate impreviste e imprevedibili. Se le scuole non sono sicure hanno diritto gli insegnanti a non rientrare e se le fabbriche non garantiscono la salute hanno diritto gli operai a scioperare.
In una quarantena strisciante e subdola che potrebbe non finire per chissà quanto tempo, il diritto di tornare a vivere per non morire, ma di tornare a vivere senza morire, come sempre dovremo sudarcelo.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
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