Non si deroga al no alla guerra
La giusta avversione all'invasione russa e l’opposizione a un regime nazionalista, autoritario e corrotto come quello di Putin devono accompagnarsi alla lotta per la pace
La guerra russa scatenata contro l’Ucraina è una guerra inaccettabile, come tutte le guerre, e ingiustificabile. La sua natura imperiale, di supporto a una strategia nazionalista che allarghi la sfera di influenza russa e, anche per questa via, operi in chiave di compattamento e blocco della vita politica interna era stata già chiara nel lungo discorso con cui Vladimir Putin aveva giustificato il riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donetsk e della Lugansk.
Quel discorso ha inteso ricollegare il futuro della Russia al suo passato zarista, a quando l’Ucraina era universalmente riconosciuta come la «culla» della cultura russa moderna, nucleo della «Rus» di Kiev che si estendeva tra la Bielorussia e la Russia attuali. La colpa della sua indipendenza e, in sostanza, del suo rampante nazionalismo, spiega Putin, è addirittura di Lenin che si sarebbe macchiato, secondo l’autocrate del Cremlino, di una colpa grave, quella dell’autodeterminazione. Putin che accusa Lenin di fomentare il nazionalismo. L’accusa farebbe sorridere ma, nel ricordare il ruolo del leader bolscevico nel processo di autonomia delle varie repubbliche, è vera nella sostanza e aiuta a comprendere lo spirito del discorso putiniano, l’accelerazione nazionalista che ha inteso dare a questa fase del suo potere.
Lenin del resto, quando nel 1919 si rivolgeva «agli operai e ai contadini dell’Ucraina» ricordava che l’indipendenza di quel paese «è stata riconosciuta dal Comitato esecutivo centrale dei soviet di tutta la Rsfsr — Repubblica socialista federativa sovietica della Russia — e dal Partito comunista bolscevico russo. Perciò è cosa ovvia e universalmente riconosciuta che soltanto gli operai e i contadini dell’Ucraina possono decidere e decideranno nel loro congresso nazionale dei soviet se l’Ucraina deve fondersi con la Russia o deve costituire una repubblica autonoma e indipendente e, in quest’ultimo caso, quale legame federativo deve essere stabilito tra questa repubblica e la Russia».
L’esito della rivoluzione russa nella gestione iniziale garantita da Lenin stesso e da Trotzky prevedeva l’applicazione del principio di autodeterminazione, principio che alla luce della storia resta valido per quanto possa dare vita a processi incontrollabili (resta valido, ad esempio, anche per le repubbliche del Donbass per quanto questa eventualità venga rimossa da chi plaude all’indipendenza dei popoli).
Lo scontro postumo con Lenin oltre a rinverdire la natura profondamente anticomunista di Putin, rilancia la visione di una «grande Russia» già apparsa in passato come faro delle guerre imperiali contro la Cecenia o la Georgia e costituisce un primo elemento per cogliere la natura del regime putiniano e il giudizio da esprimere nei suoi confronti.
Più complesso cogliere le dinamiche interne al regime e alla società russe che portano Mosca a un passo così grave e di cui, al momento, non si riesce a prevedere l’esito. Sul piano finanziario Putin si è certamente preparato. La Russia è creditrice sui mercati internazionali, ha un debito minimo con una percentuale sul Pil, nel 2021, del 16,5%, un saldo positivo della bilancia commerciale di 161 miliardi di euro, un Prodotto interno lordo che dopo la stagnazione tra il 2016 e il 2020 è cresciuto del 4,4% nel 2021 e si avvia a crescere nel 2022, guerra permettendo. Ha grandi riserve monetarie. Può reggere la crisi per diversi mesi e il vantaggio di produttrice di gas da cui dipende il resto dell’Europa accentua ancora il suo primato.
Allo stesso tempo il Fondo monetario internazionale non prevede un futuro roseo. La quota che la Russia occupa nell’economia mondiale è scesa infatti ai livelli più bassi dal 2000. La buona crescita del 2021 porta il paese a rappresentare solo il 3,075% dell’economia globale, il valore più basso degli ultimi vent’anni. Nei prossimi cinque anni, tale quota continuerà a diminuire: nel 2022, al 3,02%; e nel 2026, al 2,83%. La stessa crescita registrata e prevista è molto più bassa della media mondiale. L’ipotesi che dietro la guerra si celi il progetto del cerchio ristretto putiniano e dei suoi oligarchi per restare al potere nei prossimi dieci o vent’anni è del tutto lecito e abbondantemente veicolato dalle principali analisi internazionali, ma andrebbe radicata in analisi più dettagliate e più aggiornate. Cosa meglio di una guerra per tacitare ancora di più qualsiasi forma di dissenso interno e offrire un diversivo, tragico, a una popolazione che comunque sembra piuttosto spaesata e demoralizzata da decenni?
Ma l’economia potrebbe non essere la spiegazione più esaustiva. L’attacco all’Ucraina giunge dopo anni di grande attivismo politico e militare della Russia. Lo schieramento in Siria che ha contribuito non poco a spostare i rapporti di forza, la proiezione in Libia e nel mondo arabo in generale, i rapporti controversi con la Turchia, il riavvicinamento con la Cina, fanno della Russia un attore geopolitico a tutto tondo che vuole la propria collocazione stabile in un mondo sempre più instabile e in cui probabilmente c’è spazio per azioni di forza. Non è un caso se la decisione di invadere l’Ucraina sia stata presa durante l’estate scorsa mentre la scena era occupata dalla disastrosa fine delle missioni militari occidentali in Afghanistan. La Nato, gli Usa e la stessa Unione europea avevano dimostrato molto plasticamente la propria debolezza e la propria incapacità di reggere la leadership mondiale, fattore che potrebbe aver motivato le decisioni di Putin e del suo stato maggiore.
Sentendosi più forte, per le debolezze altrui e per le «vittorie» sul campo descritte sopra, Putin ha deciso che il periodo lungo dell’espansione costante della Nato verso est doveva finire, l’accerchiamento andava rotto e l’Ucraina poteva rappresentare il campo di battaglia ideale. L’Ucraina ha ricevuto dagli Stati uniti 2,7 miliardi di dollari di aiuti dal 2014 a oggi, dopo la «rivoluzione» del Maidan è diventata l’avamposto di una mira espansionistica della Nato che gli Usa hanno sempre utilizzato non solo per garantire la propria egemonia mondiale, ma anche per controllare le pretese di autonomia dell’Unione europea. E senza dubbio ci sono riusciti. Dopo il riorientamento strategico operato nel 1999, dopo le guerre jusoglave, si è passati dall’ampliamento alla Polonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e così via fino all’inclusione di Albania e Macedonia con una Nato rappresentante di ben quaranta paesi. I quali, per effetto di questa rete militare, dialogano a tu per tu con gli Usa, da questi vengono blandite e portate ad accettare insediamenti militari importanti con il necessario corollario di influenza politica e di ricadute economiche.
Questa espansione è stata costantemente indicata come fonte di minaccia e di insicurezza da parte della Russia che ha chiesto a più riprese di avere garanzie e ha anche denunciato il mancato rispetto di quanto gli Usa e la Nato stessa garantirono a seguito del crollo del muro di Berlino e cioè che non ci sarebbe stata una minaccia della Nato a est del fiume Elba, allora il confine tra Germania Ovest ed Est. Anche il possibile ingresso dell’Ucraina nella Nato è diventato a un certo punto un esito più che probabile con la prospettiva di avere missili americani a un tiro di schioppo dai confini con la Russia.
In questa contrapposizione di interessi alberga la responsabilità occidentale che ha inteso piegare alla propria strategia una Russia allora incapace di reagire senza avere la capacità di cogliere le novità sul campo e la necessità di ripristinare – anche a seguito della tragedia siriana, del disastro afghano o dell’instabilità mai risolta nel mondo arabo – un sistema multilaterale, stabile e sicuro per tutti i paesi del pianeta e non solo per l’avamposto capitalista. Volontà di potenza putiniana, necessità di compattare il gigante russo con il rilancio del nazionalismo e l’illusione atlantica di poter gestire un progetto egemonico in una fase difficile. Gli ingredienti, nella loro combinazione, hanno dato vita a una situazione esplosiva dagli esiti indefinibili.
Putin ha intenzione di occupare tutta l’Ucraina e ricondurla al controllo di Mosca? In molti ritengono questa opzione la più difficile e pericolosa per la stessa Russia che si esporrebbe a una condizione di logoramento. Probabilmente, come fa trapelare l’intelligence statunitense, vuole invece scalzare il governo Zelensky, sostituirlo con un governo amico e realizzare una situazione di guerra civile strisciante in cui il ruolo russo sarebbe esaltato. Se i carri russi arriveranno a Kiev fino a presidiare le sue strade e la sua piazza, si tratterà di una situazione largamente irreversibile.
L’impatto economico della guerra potrebbe essere di grande portata. La flessione delle borse, il panico dei mercati e il rialzo dei beni energetici ne sono una prima dimostrazione. Il 36% del gas importato dall’Unione europea viene dalla Russia nonostante negli ultimi anni l’Ue abbia cercato di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento (Norvegia, Libia, Algeria). Ma l’utilizzo di gas russo, importato attraverso gasdotti, resta ancora la soluzione più economica soprattutto in contesti come quelli del Nordafrica che hanno prodotto forti instabilità rendendo impossibile svincolarsi da questa dipendenza. L’Italia dipende dal gas russo per circa il 40% del proprio fabbisogno, molto più di Germania (26%) e Francia (17%) e questo ne determina una particolare vulnerabilità. Ma anche il commercio bilaterale tocca nodi nevralgici, come l’industria o l’agroalimentare. Non a caso il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha voluto rinunciare alla propria candidatura alla Lega calcio di serie A, che era stata avanzata nei giorni scorsi, per ribadire il proprio impegno a tempo pieno con gli industriali in tempi particolarmente difficili.
Nonostante gli allarmi lanciati a ripetizione nelle ultime settimane, gli Usa e la Nato sono rimasti spiazzati dalla guerra lanciata da Putin. A dimostrazione di un’incapacità degli attuali sistemi di governo politici del pianeta e dell’instabilità dei rapporti di forza. Nessuno al momento sta avanzando ipotesi di risposta militare, esclusa ufficialmente nella giornata di giovedì da Jen Stoltenberg segretario generale della Nato. Le spinte, militari, politiche e di vari osservatori, compresa una certa stampa, di ipotizzare una presenza militare occidentale però si palesano e provano a insistere. Quando, del resto, si descrive Putin come il «nuovo Hitler» lo si fa con la volontà di costituire un esito obbligato, quello dell’intervento e dell’innalzamento dello scontro.
In questa situazione non bisogna avere alcun dubbio. La giusta avversione alla guerra provocata dalla Russia, l’opposizione convinta a un regime nazionalista, autoritario e corrotto come quello di Putin non può far derogare dal principio del contemporaneo No alla guerra come soluzione della crisi. Come è accaduto più volte negli anni, lo scoppio di una guerra produce un generale senso di impotenza e di frustrazione perché certifica che le soluzioni politiche sono state già tutte consumate. Questo però non autorizza a perdere la lucidità e a non opporsi alla guerra di aggressione e imperialista in qualunque forma si presenti.
In queste ore si assiste nuovamente al gioco un po’ consunto del «dove sono finiti i pacifisti che manifestavano contro gli Usa?», «perché non manifestano contro la Russia?». Il lento processo di dispersione del grande movimento contro la guerra che ha animato l’Italia, e non solo, nei primi anni 2000 è stato salutato con gusto e soddisfazione dal mondo politico dominante, mentre oggi si chiede un sussulto a forze che in larga parte sono indebolite. Ma che comunque ci sono e infatti si stanno mobilitando. Anche ponendo nuovamente l’irrisolta questione del disarmo e della drastica riduzione delle spese militari che alla luce della storia rimane la via più efficace per evitare le guerre e imporre un modello di pace.
Il problema non è dove sono i pacifisti, il problema è rappresentato dallo scontro violento di interessi ferocemente contrapposti. Un tale scontro è esistito da quando il capitalismo è evoluto nell’imperialismo e ha scoperto la geopolitica, ma dopo la rivoluzione d’Ottobre ha assunto le vesti di una disputa ideologica e valoriale. Oggi che il capitalismo ricopre di sé l’intero pianeta lo scontro ritorna a essere quello tra mire imperialiste su questa o quella parte del mondo (e l’Europa rappresenta ancora, come nel corso del Novecento, un terreno formidabile di contesa egemonica). Oggi sembra difficile o impossibile sostenere che esiste un altro modello e un’altra via di soluzione delle crisi e di governo del mondo, ma questo non significa che questa via sia sbagliata.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, ha scritto tra l’altro Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Da Rousseau alla piattaforma Rousseau (PaperFirst, 2019).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.