Per il «bene del paese»?
Questa retorica ha messo d'accordo praticamente tutto l'arco parlamentare sul nuovo governo. Ma occorre disfarsi di questa idea unitaria di «paese», utile alle élite dominanti non alle soggettività oppresse per classe, genere e razza
Sostenere Draghi per il bene del paese. È questa la retorica che ha messo tutti d’accordo, da destra a sinistra passando per il M5S, tanto che il nuovo Presidente del Consiglio si troverà a governare con una delle più ampie maggioranze parlamentari da decenni a questa parte. Una retorica interiorizzata anche da una grande fetta della società. Eppure parlare di «bene del paese» pone due interrogativi centrali. Il primo riguarda chi è il paese, il secondo qual è questo «bene». Questioni intrinsecamente legate tra loro.
Chi è il paese a cui le élite politiche si riferiscono? È la comunità di coloro che hanno la cittadinanza italiana? O vi rientrano anche le persone senza documenti e diritti che vivono sul suolo italiano? Sono solo i nuclei familiari o vi sono anche le tantissime persone che vivono da sole e magari in modo precario? Sono coloro che producono ricchezza o anche quei soggetti poco redditizi per l’economia del paese, come non ha mancato di ricordarci Giovanni Toti in una sua infelice quando sincera affermazione? Il paese di Renzi, Draghi, Salvini, Di Maio, Meloni, Berlusconi e tanti altri come loro, comprende gli eserciti di braccianti che a basso prezzo, se non praticamente gratis, raccolgono frutta e verdura per le nostre tavole? E le milioni di donne che svolgono lavoro di cura nelle proprie case o in quelle altrui sono considerate nel paese di cui questi leader parlano?
Il concetto di paese è – come tutti gli altri concetti – una costruzione culturale, non è neutro e varia in base a chi lo pronuncia. Nella bocca delle élite politiche questo concetto è spesso sovrapposto a quello di nazione bianca, ricca, produttiva e sana. Il paese è una rete di nuclei produttivi, basati sulla famiglia tradizionale, come ci ha ricordato Confcommercio con quella grafica che – sebbene definita da molte e molti come medievale – purtroppo non ha niente di arcaico essendo l’immaginario di cui è intrisa la nostra cultura. Il paese, manco a dirlo, è un concetto incentrato su una visione antropocentrica, se non androcentrica. Non esistono forme di vita altre rispetto a quella umana, aspetto che consideriamo come ovvio e «naturale», ma che sconta ovviamente una visione culturale del rapporto uomo-natura tutta occidentale.
Chiarito il fatto che il paese è, per coloro che di questo vocabolo abusano, uno schema molto semplice fatto di imprese, consumatori e istituzioni politiche – il cui ruolo si limita a quello di prestatore di ultima istanza a sostegno del mercato – possiamo approfondire la questione successiva: cos’è il bene del paese? Probabilmente per gli Agnelli è un regime fiscale più agevolato per le grandi imprese mentre, per tante altre e altri che faticano per arrivare alla fine del mese col proprio stipendio e lottano quotidianamente per un tetto sulla testa, per la possibilità di pagare un mezzo pubblico o curarsi, una tassa patrimoniale potrebbe essere, almeno come primo passo, il bene. Il taglio di 18 miliardi di sussidi alle fonti fossili rappresenterebbe per la stragrande maggioranza del pianeta il bene, ma per i pochi oligarchi del fossile sarebbe il male assoluto. Dignitose politiche di sostegno al reddito sarebbero – per una larga fascia di precari – un bene, ma per chi lucra sulla possibilità di comprare il nostro lavoro e il nostro tempo a pochi spiccioli sono il male.
Mario Draghi di per sé non è né il bene né il male: dipende dalla classe sociale a cui si appartiene e dalla posizione che si ricopre in una scala gerarchica basata non solo sulla classe ma anche sulle linee dell’età, del genere, della razza e dell’accesso alla natura. Draghi è il bene di quella parte di paese che sguazza nella nostra precarietà e povertà ed è il male della parte di paese che in quella precarietà e povertà è immersa sino al collo.
Il «bene del paese» non esiste in quanto tale. Ragionare in termini di «paese» è fuorviante e rischia di invisibilizzare le profonde divisioni interne che in realtà lo attraversano. La retorica del «siamo tutti sulla stessa barca» a cui spesso le élite economiche e politiche ricorrono dinanzi a delle crisi – che sono cicliche e strutturali ma continuano a essere chiamate emergenze, come se giungessero all’improvviso e in modo imprevedibile – è in fondo quella usata anche per far fronte alla sfida del cambiamento climatico. Questa narrazione del problema è utile solo a chi ci governa e ci sfrutta. Nella crisi ecologica, nella pandemia così come nella crisi di governo non siamo tutte e tutti sulla stessa barca.
Parlare di bene del paese, inoltre, richiede di interrogarsi su come questo presunto bene si misuri. Siamo abituati a misurarlo sulla crescita del Pil e degli investimenti, mantra che viene ripetuto da decenni in ogni salotto televisivo. Addirittura, di recente, l’assessora alla sanità della Lombardia Letizia Moratti ha chiesto che nelle vaccinazioni sia data priorità alle regioni che contribuiscono di più al Pil italiano, come se appunto il diritto a vivere dovesse dipendere dalla produttività e dalla ricchezza generata. La produzione di armi destinate alla guerra così come l’ampliamento della produzione di fonti fossili sono attività che fanno crescere il Pil. Ma questo significa davvero ricchezza e benessere? E se sì, per chi? Il Pil ci può dire come questa ricchezza viene distribuita?
Infine, l’attuale crisi di governo va necessariamente letta tenendo conto della portata epocale rappresentata dai soldi europei del Recovery Fund, rilanciato da partiti e media come la grande opportunità di ripresa per il paese. Ma parliamo nuovamente del loro paese: grandi capitali andranno a rifocillare le tasche già piene delle imprese energetiche che si ripresenteranno in veste green e con progetti che – seppur apparentemente improntati alla conversione ecologica – sono climalternanti; una nuova tranche di finanziamenti sarà destinata all’alta velocità per collegare in poco tempo mete molto distanti tra loro in un paese che ha una carenza strutturale di collegamenti ferroviari per i pendolari; vi sarà un ecobonus del 110% per l’efficientamento energetico degli edifici che sarà però accessibile solo a chi dispone di sufficienti soldi per l’investimento iniziale e indipendentemente dalla sua ricchezza, come se lo stato dovesse parimenti sostenere le spese di un piccolo proprietario e quelle di un multiproprietario che con fondi pubblici vuole ristrutturare la sua villa con piscina sul mare. Per gli altri c’è la possibilità di ricorrere a prestiti bancari (con la possibilità per la banca di guadagnare una percentuale dal bonus statale) o, semplicemente, quella di continuare a vivere in luoghi energeticamente obsoleti pagando per questo bollette più care. D’altra parte ai grandi capitali che gireranno nei prossimi anni farà da contraltare il ricatto del debito che graverà sulle prossime generazioni e, probabilmente, si tramuterà in politiche di austerità.
Il Next Generation Ue si prospetta allora come un centrale campo di battaglia tra le spinte che vengono dai movimenti sociali e le classi economiche e politiche dominanti. Se leggiamo l’attuale crisi di governo con questa prospettiva di analisi e dentro questa fase storica – contrassegnata da un’epocale elargizione di grandi somme di denaro – la retorica di «Draghi persona credibile da sostenere per il bene del paese» assume tutto un altro significato e si rivela per ciò che è: l’organizzazione e la coalizione delle classi dominanti contro la pluralità di soggetti subalterni che da questo ordine economico, politico e culturale sono sistematicamente oppressi. Le classi dominanti si stanno preparando per giocare una partita il cui esito non è ancora stato scritto. Se però il Recovery Fund ha rappresentato un’opportunità di alleanza per le componenti progressiste e conservatrici del capitalismo, non di meno questa opportunità deve essere colta da noi.
Per farlo, abbiamo bisogno in primo luogo di porre le condizioni culturali necessarie a questo scopo e ridefinire i codici di valori dominanti, a partire dalla decostruzione delle narrazioni tossiche che si propongono di rappresentare in modo unitario un paese in cui le diseguaglianze sono stratificate e cristallizzate. Judith Butler ci ha insegnato a disfarci delle categorie socialmente costruite al fine di definire e legittimare gerarchie di potere. il «paese» è una di queste categorie che necessitano, quantomeno, di essere problematizzate. Decostruire l’idea del paese può aiutarci a riappropriarci della coscienza di essere soggettività oppresse per classe, genere, età, razza e provenienza, e di essere quella pluralità di soggetti che nell’idea dominante di «paese» non trovano posto, se non come corpi da cui estrarre valore (la loro ricchezza, il loro Pil) e – all’evenienza – come «altro», posto fuori o al margine del confine che il concetto di paese ha fisicamente e simbolicamente creato. Più che essere integrate e integrati nel loro concetto di paese è importante provare a decostruirlo ripensando il nostro modo di definirci comunità.
In secondo luogo, è necessario che la riflessione che da decenni i movimenti sociali cercano di porre rispetto al concetto di bene/benessere esca dai confini dei nostri spazi reali e virtuali per diventare un terreno comune e ampio di discussione. La validità e legittimità di indicatori come il Pil per misurare il benessere di un paese è sempre più frequentemente criticato sia da studiose e studiosi che da attiviste e attivisti. La politica dal basso, dai movimenti per il diritto alla casa a quelli femministi, passando per i movimenti antipsichiatrici, ha infatti contribuito a ripensare radicalmente il concetto di benessere e a renderlo un terreno di lotta, di alleanze e di riappropriazione. Dentro la pandemia, con migliaia di persone a rischio sfratto, con migliaia di donne costrette a restare in casa in situazioni di violenza domestica e altre migliaia che rischiano il licenziamento o hanno già perso il lavoro – con l’esasperarsi di situazioni di sofferenza psicologica per via delle condizioni poste dalla pandemia – le strutturali condizioni di disagio e precarietà già esistenti si sono intensificate. Il concetto di benessere che – nei termini gramsciani – dobbiamo far divenire egemone, deve avere le proprie radici nel soddisfacimento delle esigenze materiali e non, sia individuali che collettive. Al centro di questa riflessione vi è il riconoscimento del fatto che il raggiungimento di una condizione di benessere non può esser sottoposto alla logica della competizione tipica del mercato – per cui solo chi è «meritevole» (secondo criteri tutt’altro che neutri) può ambire a una vita dignitosa – ma, al contrario, può essere tale solo se collettivo.
Infine, come suggerisce Silvia Federici in Calibano e la Strega, abbiamo bisogno di costruire nuove alleanze e ampliare quelle esistenti. «Siamo il 99%», risuonava negli slogan del movimento Occupy Wall Street. Non resta che organizzarci e metterci in cammino.
*Paola Imperatore è dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, membro dell’Opi (Osservatorio su Politica e Istituzioni) e del PoliCom. Attivista di Non una di meno Pisa, ha scritto per Gaia, Commonware, Il Ponte e altre riviste.
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