Per non morir macronizzati
Un road movie di François Ruffin e Gilles Perret offre la parola alle motivazioni di quei francesi invisibili che dallo scorso novembre hanno cominciato a indossare i Gilets Gialli
Un road movie alla scoperta dei Gilets Gialli. J’veux du soleil, documentario girato in meno di una settimana da François Ruffin e Gilles Perret, offre la parola a quei francesi invisibili che dallo scorso novembre hanno cominciato a brillare di giallo fluorescente. Marie, Carine, Corinne, Cindy, Khaled, Rémi, Denis e tanti altri raccontano alla videocamera tutto ciò che Macron e i suoi media (nazionali e internazionali) non vogliono ascoltare.
In Italia stampa e partiti hanno fatto di tutto per occultare il vero volto dei Gilets Gialli e distorcere le ragioni della protesta. Una diffusione italiana di J’veux du soleil sarebbe un primo passo per cominciare a capire ciò che accade in Francia da ormai più di sei mesi.
Una folla composta attende in fila davanti alla biglietteria del cinema Espace Saint-Michel. Parigi, 3 aprile. È il primo giorno in sala del film J’veux du soleil (che in italiano possiamo tradurre letteralmente con “Voglio del sole”) di François Ruffin e Gilles Perret. Gli ultimi spettatori in coda si confondono nel viavai di chi sale e chi scende la rampa di scale del métro Saint-Michel. Un signore se ne sta ritto in piedi dietro a un banchetto colmo di riviste, libri e volantini. Jeans, camicia a scacchi, gilet giallo. Nell’attesa che la sala apra le sue porte, il militante fluorescente propone agli astanti di procurarsi l’ultimo numero della rivista satirica Fakir oppure il libro Ce pays que tu ne connais pas (“Questo paese che tu non conosci” ndr) in cui quel “tu” sta ad indicare Emmanuel Macron. L’autore è François Ruffin, caporedattore della rivista di cui sopra e dal 2017 deputato della République con la France Insoumise (il partito il cui segretario è Jean-Luc Mélenchon, per intenderci).
Nel 2016, il suo primo film Merci Patron! aveva tradotto nelle sale francesi quel pandemonio che nelle strade avrebbe preso il nome di Nuit Debout. Erano i tempi della legge sul lavoro di Hollande (Chi?) e dell’occupazione permanente di Place de la République. Ruffin, in quella prima prova di cinema documentario, aveva confezionato uno straordinario raggiro al padronissimo Bernard Arnault, riuscendo a far reintegrare un tapinissimo dipendente che era stato allontanato da una delle sue aziende.
451.000 biglietti venduti e un César come miglior film documentario.
Tre anni dopo, l’uscita di J’veux du soleil è attesa come un evento: 20.000 entrate solo con le anteprime, le sale (le indipendenti soprattutto) fanno a gara per assicurarselo e il pubblico, alla fine delle proiezioni, applaude, spesso in piedi.
Ruffin e Perret realizzano un documentario i cui tempi sono segnati dall’urgenza dell’attualità. Le riprese impegnano sei giorni in dicembre; montaggio e post-produzione si concludono in una manciata di settimane. Dall’atto VIII all’atto XX, o suppergiù, il film è pronto. Dodici atti, dodici sabati si succedono l’uno dopo l’altro tra le riprese del film e la sua uscita in sala. In quelle settimane, i media s’impegnano senza pace per forgiare l’immaginario corretto nelle pubbliche opinioni.
La messa la conosciamo. «Fascisti! Casseurs! Populisti! Razzisti! Black block! Violenti! Terroristi! Antisemiti!» strepitano gli strilloni dell’internazionale giornalistica monocolore.
E ancora: «È la destra estrema! Mancano d’organizzazione! Spontaneisti!» ci s’indigna compiaciuti tra i puristi del «A causa del cattivo tempo, la Rivoluzione è stata rinviata a data da destinarsi».
Come da copione, la caccia alle streghe a reti unificate non si è fatta attendere, in Francia come in Italia. BFMTV o Rep, poco importa. Una faccia, una razza, è solo questione di lingua.
Ma fuori dal breviario dell’inquisizione mediatica, chi sono i Gilet Gialli? Chi sono quei cittadini d’oltralpe, donne e uomini più o meno giovani, quei «Galli refrattari al cambiamento» (così Macron nell’agosto 2018 definiva i francesi esclusi o danneggiati dal suo progetto di startup nation) che da più di venti settimane scarabocchiano gli spartiti delle prodigiose sinfonie macroniane? È proprio a loro, a quei “Galli testardi” che J’veux du soleil vuol dare parola capovolgendo il canovaccio di stereotipi tanto cari ai media da quando la Francia ha cominciato a tingersi di giallo. Questa parola, ignorata, occultata, disprezzata, è la parola dei gueux, dei miserabili. Ruffin e Perret se la vanno a cercare col lanternino, negli angoli più sperduti di Francia: Renault Berlingo e camera in spalla, dalla Picardia alla Costa Azzurra. Carine, Marie, Cindy, Corinne, Khaled, Rémi, Denis: precari o disoccupati, vite vissute in quei borghi lontani dalle barricate di Parigi o dalla repressione in salsa western le cui immagini accompagnano perfettamente i titoloni da ultim’ora che fanno il pieno di click: «Nuovi scontri a Parigi», «La rete dei Gilet Gialli, tra social, estrema destra e manipolazione» e via propagandando.
Quelle parole, quelle motivazioni, sempre assenti dai tg delle 20 e dalle gazzette del giorno dopo, trovano posto davanti alla videocamera, in un road movie che attraversa pedaggi, rotonde e agglomerati urbani fuori dalle carte geografiche e dai Gps della stampa dell’uccellino blu.
C’è chi fa campare la famiglia con i buoni spesa dell’ipermercato vinti al bingo municipale, chi digiuna nell’attesa della pizza (una a settimana) offertagli dall’azienda, chi lavora nella logistica da vent’anni con un contratto a tempo indeterminato… ma “ad interim”, chi sopravvive grazie alle associazioni caritative, chi fruga nei secchi. Chi spolpato dalle tasse, chi dalla banca. Chi da Cariddi e Scilla insieme.
Talvolta tra le risa, talvolta tra i singhiozzi, la parola si manifesta col vigore dello sfogo, della liberazione da un fardello durato troppo tempo. Ci si disfa della vergogna delle proprie difficoltà economiche fin lì vissute nella solitudine e nel pudore dei panni sporchi da lavare in casa, con le finestre rigorosamente chiuse.
Ancor prima che un documentario sui Gilet Gialli, J’veux du soleil è un film sulla liberazione dalla vergogna, o almeno sulla fine della vergogna come condizione di autoflagellazione. «Mi rivolto dunque siamo» scriveva Albert Camus. Si è dunque al plurale, e per molti, moltissimi, è la prima volta. È una liberazione. Insieme ci si scrolla la croce dalle spalle.
«Sono ormai vent’anni che racconto questa Francia su Fakir» racconta Ruffin in un’intervista per il suo giornale, «ma prima alle persone bisognava strappare le parole dalla bocca. Mormoravano, a porte chiuse, nei loro appartamenti infestati dalla vergogna: la vergogna di non farcela, la vergogna di non riuscire a pagare le vacanze ai propri figli, la vergogna di avere il frigo vuoto. Alla sofferenza si sommava la vergogna. Dovevo garantire l’anonimato affinché non fossero riconosciuti nei loro quartieri, nei loro paesi… I poveri si nascondono per soffrire. Ed ecco che questa Francia invisibile diventa visibile, anzi visibilissima, anche di notte, con dei gilet fluorescenti! Ecco che occupa lo spazio pubblico, le rotonde, gli studi televisivi! Eccola che parla, grida s’incazza!».
Eccola che canta, aggiungiamo, come Marie che, davanti al mare del sud, chiude il racconto intonando la canzone che dà il titolo al film: J’veux du soleil del gruppo “Au p’tit bonheur”. «Voglio il sole» canta Marie e «attraversare gli oceani / diventare Montecristo / al chiaro di luna / fuggir dalla cittadella / devenir re delle paludi / liberarmi dalla mia gabbia».
*Federico Lancialonga è ricercatore in storia del cinema. Insegnante precario all’Università di Parigi, collabora con diverse strutture e istituzioni culturali per la salvaguardia e la valorizzazione del cinema (ahilùi) “marginale”.
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