Per un socialismo del disastro
Dopo il «capitalismo del disastri» teorizzato anni fa da Naomi Klein è necessario che dalla crisi emerga un modello economico opposto e speculare, orientato alla difesa delle persone e non dei profitti
La pandemia Coronavirus minaccia rapidamente di degenerare in una crisi globale di proporzioni epocali. Mentre la malattia virulenta tiene il mondo sotto scacco, la gestione disastrosa dell’epidemia negli Stati uniti e in Europa evidenzia una serie di debolezze strutturali nelle configurazioni politico-economiche del mondo occidentale. Ciò ci fornisce in modo inequivocabile la misura di quanto le società capitaliste che inseguono il mercato siano mal equipaggiate nell’affrontare un’emergenza di tale portata e intensità.
Ci sono almeno tre aspetti correlati alla crisi attuale, ognuno dei quali evidenzia pecche fondamentali al cuore dell’ordine stabilito. Il primo e il più importante di questi è, ovviamente, la dimensione medica: l’emergenza di salute pubblica assume la forma di un aumento esponenziale e inarrestabile del numero di casi rilevati, del numero di pazienti ospedalizzati e del numero di vittime. Negli Stati uniti e in molti paesi europei, una ripetizione dello scenario italiano è ormai imminente, poiché il flusso improvviso di pazienti gravemente malati in terapia intensiva minaccia di sopraffare i sistemi di assistenza sanitaria pubblica strutturalmente sotto-finanziati o del tutto inaccessibili.
A breve termine, quindi, la priorità dei governi dovrebbe essere quella di evitare l’imminente catastrofe umanitaria e salvare quante più vite possibile. Tuttavia, è diventato chiaro presto che portare questa furiosa pandemia sotto controllo richiederà molto più dei cambiamenti nel proprio stile di vita che i governanti richiedono ai cittadini. Questa strategia cerca di privatizzare i costi della crisi ponendo l’intero onere di essa sulle abitudini individuali e rappresenta l’ennesima forma di approccio conforme al mercato. Come ampiamente dimostrato dalle difficoltà di diversi governi occidentali delle scorse settimane, non sarà sufficiente una campagna pubblica che invita a lavarsi le mani, a starnutire sui gomiti e al distanziamento sociale volontario per arginare il crescente tasso di infezioni.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la repressione della pandemia richiederà un’azione statale radicale, dai blocchi e le quarantene forzati a interventi di vasta portata della sanità pubblica. Quest’ultima dovrà includere non solo un rapido aumento della capacità ospedaliera e uno sforzo erculeo per produrre ventilatori, dispositivi di protezione e altre forniture mediche, ma anche un’implementazione immediata e diffusa condotta dal governo della capacità di fare tamponi, tracciare i contatti e porre sotto isolamento controllato quelli che sono stati infettati, per non parlare dello sviluppo accelerato di un vaccino efficace. Una risposta del genere d’emergenza guidata dallo Stato è chiaramente necessaria, ma costringerà la maggior parte dei governi occidentali ad andare ben oltre il mandato neoliberista che si sono dati da tempo come garanti della «libera impresa».
È altrettanto evidente che questi interventi sulla salute pubblica avranno un costo immenso. Il che evidenzia la seconda dimensione dell’attuale crisi: quella economica. Mentre il virus continua a diffondersi rapidamente, le democrazie capitaliste avanzate si trovano improvvisamente nella straordinaria posizione di dover sfidare gli interessi commerciali e chiudere efficacemente tutti i luoghi di lavoro non essenziali per consentire alla popolazione che lavora di rimanere a casa. Ovviamente, i datori di lavoro stanno sfidando attivamente la «necessità» di tali misure radicali, nonostante gli esperti di sanità pubblica siano fermamente convinti che se si dovesse mancare questo obiettivo le risorse ospedaliere verrebbero rapidamente assaltate.
Crollo economico
Al momento, dobbiamo ancora capire quali saranno le conseguenze di un arresto così improvviso dell’attività produttiva e commerciale. Tutto ciò che sappiamo è che la ricaduta economica sarà immensa – molto peggio di qualsiasi cosa abbiamo mai visto al di fuori di una grande guerra – e che potrebbe potenzialmente costituire una minaccia esistenziale per l’economia mondiale fortemente indebitata e per il sistema finanziario globale che conosciamo. Bill Ackman, miliardario gestore di hedge fund, parlando con la Cnbc l’ha messa in questi termini: «Il capitalismo non funziona con un blocco di 18 mesi».
Sempre desiderosi di sostenere l’ordine costituito, i governi occidentali e le banche centrali si sono quindi mossi in modo aggressivo per cercare di contravvenire a questo secondo aspetto della crisi. Pur esitando a salvaguardare la salute popolare, si sono mossi rapidamente per preservare la salute dei mercati. Nel giro di poche settimane, i funzionari hanno già promesso una serie di pacchetti di salvataggio da record per prevenire un tracollo di sistema, tra cui una serie di rivoluzionari nuovi interventi monetari da parte della Federal Reserve e il programma di stimolo fiscale da 2 mila miliardi di dollari recentemente approvato dal Senato.
Ciò nonostante, gli analisti concordano sul fatto che l’economia mondiale è ancora sulla strada di una terribile contrazione. La banca d’investimenti Goldman Sachs ha stimato che l’economia statunitense potrebbe ridursi di ben il 24% nel secondo trimestre del 2020. Lo scorso fine settimana la Federal Reserve ha presentato la stima ancora più drammatica di un calo del 50% della produzione. Un crollo su questa scala non è mai stato sperimentato prima, nemmeno durante la Grande Depressione. Con la Cina, il Giappone, l’Eurozona e il Regno Unito che registrano tutti contemporaneamente i loro peggiori cali nelle attività commerciali, la conclusione sembra inevitabile: alla base c’è il collasso dell’economia mondiale capitalista.
A questo punto ci troviamo in un territorio inesplorato. In assenza di un’azione pubblica radicale, l’imminente depressione economica alimenterà inevitabilmente una terza emergenza simultanea: una crisi sociale di una gravità senza pari in una democrazia moderna in tempo di pace. Dal momento che le principali economie mondiali si fermano improvvisamente, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo stanno per perdere lavoro e mezzi di sussistenza. La Federal Reserve ha previsto che la disoccupazione negli Stati uniti entro il secondo trimestre del 2020 potrebbe arrivare alla soglia record del 30%. A titolo di confronto, durante la Grande Depressione degli anni Trenta, ci sono voluti quattro anni perché la disoccupazione raggiungesse il suo picco del 25%.
Misure drastiche
Evidentemente, questa situazione senza precedenti richiede misure senza precedenti. Esiste solo un modo per impedire che il triplo disastro di una pandemia fulminante, di un’economia mondiale al collasso e di un ordine sociale sfilacciato sfugga completamente al controllo. Per i governi nazionali di tutto il mondo ciò significa riunirsi in uno sforzo coordinato per affrontare in modo deciso l’emergenza sanitaria pubblica globale, assumere il controllo sui settori strategici dell’economia e garantire che i beni essenziali continuino a essere prodotti in base alle capacità e distribuiti sulla base del bisogno. Non possiamo permettere che i costi della crisi vengano privatizzati e ricadano sulle spalle di coloro che sono meno in grado di sostenerne l’onere: lavoratori, anziani e poveri.
Tutto ciò richiederà un abbandono dei vetusti dogmi neoliberali sulla santità del mercato e uno sforzo collettivo per difendere la salute pubblica, la sopravvivenza economica e la solidarietà sociale. Richiederà l’effettiva smobilitazione di ampie parti della forza lavoro per prevenire l’ulteriore diffusione della malattia. Dovrà esserci una moratoria immediata su tutti gli affitti, i debiti e i mutui per mantenere le persone nelle loro case per tutta la durata della pandemia. Dove non lo hanno già fatto, i governi dovranno intervenire per garantire tutti gli stipendi e assicurare un reddito a coloro che non hanno forme di lavoro regolari o costanti.
Queste misure radicali richiederanno a loro volta un notevole aumento della spesa pubblica per compensare la perdita di reddito derivante dall’attività del settore privato. Un’espansione fiscale così ambiziosa potrebbe essere finanziata attraverso un’importante imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze e sul finanziamento monetario su larga scala dei disavanzi pubblici. Nell’Eurozona, l’emissione di «Coronabond» collettive – una proposta lanciata la scorsa settimana da nove paesi membri, ma fermamente osteggiata da Germania e Olanda – abbasserebbe i tassi di interesse dei paesi maggiormente colpiti, consentendo loro di mantenere il resto del continente al sicuro da infezioni ricorrenti. Senza una forte manifestazione di solidarietà internazionale di fronte a questa crisi comune, il progetto europeo – e l’ideale internazionalista più in generale – morirebbero.
Sta diventando sempre più chiaro che l’«ordine spontaneo» del mercato non può salvarci dall’emergenza medica, economica e sociale. Che ci piaccia o no, gran parte del mondo si sta già muovendo verso un’economia parzialmente pianificata – o almeno una molto più guidata dallo Stato o diretta dallo Stato – al fine di affrontare le straordinarie sfide del momento. L’unica vera domanda è: il modello economico emergente prenderà la forma di un «capitalismo del disastro» favorevole alle imprese, orientato a preservare il potere aziendale in un guscio più nazionalista e statalista, o prenderà la forma di un «socialismo internazionalista del disastro», orientato alla protezione dei lavoratori e alla conservazione del tessuto delle nostre società democratiche?
Le linee di battaglia sono già state tracciate per quella che quasi sicuramente diventerà la più grande crisi dei nostri tempi. Qualunque sia il risultato, sicuramente avrà effetti sulla nostra capacità di affrontare le sfide ancora più grandi che ci attendono: dall’emergenza climatica alla sesta estinzione di massa. Questa volta, sarebbe il caso di fare la cosa giusta.
*Jerome Roos è ricercatore in economia politica internazionale alla London School of Economics. Ha scritto Why Not Default? The Political Economy of Sovereign Debt. Sta lavorando a una storia economica della crisi globale.
Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro.
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