«Più tribale, più settario, più capitalista che mai»
Assad sta confiscando le case dei siriani scappati dalla guerra per far piazza pulita degli oppositori. Daher descrive i rapporti di forza nel paese, le mire geopolitiche e le relazioni tra sinistra siriana e curda. Riportando al centro l'internazionalismo
Nel settembre 2011, lo scrittore siriano di sinistra Yassin al-Haj Salah aveva messo tutti in guardia sul fatto che la rivoluzione stava entrando in una «fase disastrosa, improntata alla distruzione». Nella primavera le prime proteste pacifiche erano state brutalmente represse dalla dittatura di Bashar al-Assad, e durante l’estate la rivolta si era evoluta in un’insurrezione armata. Tuttavia, dopo otto anni di «fase disastrosa» è il regime di Assad ad aver vinto.
Malgrado la durata della guerra e l’entità delle catastrofi che ha prodotto, le cause profonde del conflitto siriano rimangono poco comprese, persino a sinistra. I protagonisti sono visti troppo spesso con la lente culturalista «sunniti vs sciiti», o «islamisti vs secolaristi». E altrettanto spesso, la guerra è ridotta a pura geopolitica, e si presume che i suoi attori principali siano meri procuratori degli Stati Uniti e dei suoi nemici (o alleati) internazionali.
Ancora più raro è un qualsiasi ragionamento articolato sulle dinamiche di classe che hanno modellato lo stato siriano e la sua società sin da prima del conflitto del 2011. Eppure sono state un fattore decisivo dell’insurrezione e della capacità del regime di resistervi. Comprendere gli elementi sociali del conflitto è molto importante ancora oggi per leggere la strategia del regime di Assad per la “nuova Siria”, e per capire come questa si leghi ai piani dei suoi alleati russi e siriani.
Joseph Daher è autore del libro Syria After the Uprising: The Political Economy of the State Resilience (Pluto Press, 2019). Joe Hayns l’ha intervistato e insieme hanno parlato delle origini profonde del conflitto, delle ragioni della sopravvivenza del regime di Assad e della sua strategia per la “nuova Siria”.
Gilbert Achcar usa la parola patrimoniali per descrivere quelle nazioni del mondo in lingua araba in cui alcuni gruppi di famiglie possiedono tanto lo stato quanto il capitale: il Marocco, l’Arabia Saudita e altri stati del Golfo. Invece ne descrive altre, come l’Egitto e la Tunisia, con il termine neo-patrimoniali: si tratta di nazioni in cui i legami familiari, la proprietà capitalistica e il controllo statale a volte si sovrappongono, ma non totalmente. Tu metti la Siria nel primo gruppo. Come mai?
La distinzione di Achcar fra patrimoniale e neo-patrimoniale è molto utile. Con patrimoniale, io intendo uno stato completamente privatizzato da una famiglia e dalla sua rete di contatti. Rovesciare uno stato del genere è molto più difficile di quanto non lo sia per uno degli stati neo-patrimoniali che hai citato prima, dove settori chiave del potere statale sono stati in grado di rimuovere Ben Ali e Mubarak pur mantenendo una forma basilare di controllo.
Nel Sudan e in Algeria – che ora stanno vivendo rivolte importanti – sono avvenuti processi neo-patrimoniali, anche se il vero potere è in mano ai ranghi più alti dell’esercito. Non hanno raggiunto i livelli della Siria, dove la burocrazia, l’esercito e il potere finanziario sono completamente nelle mani di una sola famiglia e della sua vasta rete di contatti.
Data questa continuità, potresti spiegarci questo passaggio che vedi in atto, dalle politiche statali corporatiste alle politiche neoliberali?
Quando Bashar al-Assad è diventato presidente nel 2000 c’è stato un aumento delle politiche neoliberali, unito a un indebolimento delle organizzazioni corporative come il Partito Ba’ath, la rete di contadini, e la Federazione Generale dei Sindacati. Queste organizzazioni non hanno mai avuto a cuore gli interessi dei contadini e dei lavoratori, erano piuttosto organi clientelari di controllo. Tuttavia, sono stati meno utilizzati dal 2000 in poi.
Spesso ci si dimentica che quando Hafez al-Assad, il padre di Bashar, ha preso il potere sconfiggendo l’ala radicale del partito Ba’ath nel 1971, ha dovuto fare una scelta: poteva o annichilire le istituzioni esistenti, o utilizzarle. Le prime persone che ha represso sono stati i Ba’athisti, insieme ad altri elementi di sinistra al di fuori del partito. Hafez ha scelto di tenere in vita le istituzioni come reti di controllo, mentre contemporaneamente ha cercato una collaborazione con alcuni pezzi della borghesia, specialmente a Damasco.
Ma dalla metà degli anni Settanta c’è stata “un’apertura” – infitah – nei confronti del capitale, che è aumentata con la crisi fiscale degli anni Ottanta. Con Bashar c’è stata un’accelerazione su questa strada fatta di banche straniere, investimenti stranieri, ecc. A questo grande cambiamento si è accompagnato un indebolimento dei legami del regime con la sua storica base sociale (e cioè, con la classe media provinciale e i lavoratori, soprattutto quelli del settore pubblico), e il regime ha iniziato a fare affidamento sulla classe urbana medio-alta e su pezzi della borghesia vera e propria.
Bashar non è come il padre; è cresciuto a Damasco, negli strati più ricchi della società, ed è stato educato in Inghilterra. Negli anni Duemila è comparsa una nuova generazione di tecnocrati, che promuovevano le classiche politiche neoliberiste dicendo «questa è la soluzione per la Siria». Ma il passaggio dallo stato-capitalista al modello patrimoniale-neoliberale era già iniziato alla fine degli anni Settanta.
È vero che negli anni Duemila il regime si è appoggiato sempre meno alle istituzioni popolari; ma le classi popolari sono state in grado di generare istituzioni autonome, attraverso le quali esprimersi politicamente e avanzare richieste?
Negli anni Duemila in Siria c’erano più di 170 gruppi di discussione, alcuni dei quali aspiravano a istituire democrazie nazionali – i curdi, gli assiri, e così via – mentre altri trattavano argomenti diversi, come l’economia o lo stato. Ce n’erano anche di sinistra. A Damasco, c’erano piccoli gruppi di persone che si organizzavano a partire da idee di sinistra: per esempio c’era un gruppo ispirato da Attac (l’organizzazione nata dalla campagna per tassare le transazioni finanziarie). La maggior parte dei gruppi di discussione fu chiuso con la forza dopo solo un anno, e le persone furono attaccate.
C’erano anche degli studenti che provavano a organizzarsi indipendentemente dai maggiori sindacati studenteschi, soprattutto durante l’intifada palestinese del 2003. Furono repressi dal regime, perché erano visti come una minaccia che poteva svilupparsi in qualcosa di più radicale.
Tutte le volte che i lavoratori hanno provato a organizzarsi o a resistere alle politiche di liberalizzazione (ci sono stati anche scioperi) sono stati o repressi o cooptati dalla Federazione Generale dei Sindacati, controllata dal regime. Non c’è stato – come in Egitto, ad esempio – nessun tentativo di organizzare sindacati indipendenti. E, come abbiamo potuto vedere nelle rivolte del 2011, non c’era nessuna organizzazione di massa basata esplicitamente sulla classe.
Le capacità dei gruppi indipendenti dallo stato erano molto, molto limitate. Alla fine degli anni Settanta, i sindacati e le associazioni professionali hanno giocato un ruolo importante, ma sono state quasi totalmente represse o rimpiazzate da organizzazioni costruite dal regime.
È rimasto qualcosa di questi sindacati nei decenni successivi – se non a livello istituzionale, almeno come traccia nella memoria collettiva? Quali personalità hanno resistito agli anni Ottanta e Novanta?
Sfortunatamente, nessuna istituzione è sopravvissuta, e degli scioperi importanti e delle manifestazioni avvenute in Siria negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta non è rimasto quasi nessun ricordo. Questa storia non era molto conosciuta dalla generazione che ha protestato nel 2011 – era nota soltanto alle generazioni più vecchie, a quanti furono coinvolti nei gruppi e nei movimenti di sinistra.
Molti dei principali esponenti di sinistra hanno partecipato a varie Commissioni di Coordinamento Locale [Local Coordination Committees] e ad altre strutture nate durante le rivolte come indipendenti, e non attraverso organizzazioni politiche formali. Molti erano anche coinvolti nella coalizione di quattordici organizzazioni democratiche e di sinistra – al-Watan, o “La Nazione” – che ha messo insieme gli oppositori storici e le giovani generazioni. Ma nel 2012 questa coalizione è scomparsa, quasi interamente decimata dalla dura repressione del regime.
Nella Siria del Nord, negli anni Duemila, i gruppi curdi si sono organizzati secondo criteri nazionali e sociali. Perché una differenza così netta con il resto del paese?
Naturalmente c’è una lunga storia di resistenza e organizzazione politica curda in Siria. Il primo partito politico curdo della Siria venne fondato nella metà degli anni Cinquanta – prima di allora, la maggior parte dei curdi militava nel Partito Comunista Siriano ma, dal momento che le loro istanze venivano definite “nazionaliste” e non erano difese dal partito, molti se ne andarono.
Alla vigilia della rivolta, c’erano più di dieci partiti curdi, alcuni molto incentrati sulle varie personalità politiche, e alcuni organizzati a livello di massa, come ad esempio Yakiti, un partito molto importante fondato dai curdi negli anni Novanta con un’impronta nazionalista di sinistra.
Nel 2004 scoppiarono diverse proteste nelle zone curde attorno alla Siria. I curdi si stavano organizzando sulla base delle discriminazioni che erano costretti a vivere, certo, ma anche su temi socioeconomici. Storicamente, le zone a maggioranza curda sono anche le più povere, malgrado la loro importanza a livello agricolo e petrolifero.
Ma l’utilizzo diffuso di un discorso socioeconomico non ha necessariamente implicato un’organizzazione su base di classe. Pensa al Pyd (Democratic Union Party, il Partito dell’Unione Democratica, parente del Partito Curdo dei Lavoratori, Pkk) che, nei tardi anni Duemila, ha iniziato proprio abbandonando il discorso di classe del Pkk.
C’era, tuttavia, una sorta di senso comune collettivo sulle questioni socioeconomiche. Certe cose sono uscite fuori agli inizi della rivolta. Un esempio: a Dar’a i manifestanti presero di mira gli uffici della Syriatel – società di telecomunicazioni di proprietà del cugino di Bashar al-Assad, Rami Makhluf – come per dire «questo è il tizio che ci sta derubando». Questo senso comune era presente, ma non predominante.
Anche se le classi popolari non avevano istituzioni proprie, avevano comunque un modo di pensare collettivo, inclusi alcuni elementi etnolingustici e settari che sono diventati più evidenti durante la guerra. Autori come Rima Majed e Yassin al-Haj Saleh, giusto per citarne due, hanno teorizzato la settarizzazione come strategia messa in atto dallo stato. Ma davvero è stata una strategia soltanto statale?
Hafez ha mantenuto alcune forme di redistribuzione della ricchezza durante il suo regno, ma sempre di meno dagli anni Duemila in poi, aumentando così il tasso di povertà. Allo stesso tempo, c’è stato un rafforzamento delle identità e delle relazioni “primordiali”, incoraggiato dal regime – relazioni tribali, addensate attorno a figure religiose, e così via – in parte anche perché lo smantellamento dei servizi ha lasciato spazio alle organizzazioni caritatevoli religiose.
Il settarismo è stato costruito agli inizi della rivolta, nelle regioni più variegate in termini etnici. I crimini di regime – specialmente nelle campagne intorno ad Hama e nella regione dell’Homs – hanno alimentato il processo. Si è poi ulteriormente diffuso in virtù del fatto che il regime rappresentava gli oppositori – anche se non erano musulmani – come Salafiti, come “estremisti”, per spaventare le persone e aumentare il settarismo. E non dobbiamo dimenticare che all’inizio della rivolta il regime ha liberato i prigionieri jihadisti e fondamentalisti islamici, proprio per dare alla rivolta una definizione più settaria.
Senza dubbio lo stato ha contribuito più di tutti a produrre il settarismo della società siriana; ma non vuol dire che fosse il solo. Basta guardare all’insorgere del conflitto militare tra il regime e i Fratelli Musulmani nei tardi anni Settanta e nei primi anni Ottanta. I Fratelli hanno usato il settarismo per proporsi come rappresentanti della comunità sunnita in Siria. Un tentativo che non ha mai funzionato, perché la comunità sunnita non ha un’unica identità politica – in realtà, comprende un’ampia varietà di componenti sociali e politiche.
Se una delle ragioni della longevità del regime è il suo uso della settarizzazione – il fomentare divisioni politiche nelle opposizioni – un’altra è la sua capacità di guardare oltre le religioni, le lingue, e così via. Possiamo citare, per fare un esempio, le sue relazioni con i capitalisti sunniti – o meglio, con i “capitalisti che sono sunniti” – durante gli anni Duemila.
È vero. È sbagliato definirlo un regime alawita, ma c’è una preponderanza di personalità alawite, specialmente nei servizi di sicurezza, i cui ranghi più alti sono spesso direttamente collegati alla famiglia di Assad.
Ma se il regime fosse stato esclusivamente alawita, sarebbe scomparso da molto tempo; per questo è importante dire che si tratta di uno stato patrimoniale che ha bisogno di utilizzare vari strumenti di repressione e vari tipi di connessioni, sia dentro che oltre le differenze settarie.
Eppure, nel corso del 2011 e del 2012 ci sono stati elementi di organizzazione sia inter-settari che anti-settari. Basti guardare anche solo al Pyd e alla situazione curda: mentre alcune correnti della sinistra anglofona vedono il Pyd come il partito del cambiamento progressista, o persino rivoluzionario, altre lo criticano per le sue relazioni con il regime e con gli Stati Uniti. I suoi rapporti con le tribù di lingua araba e con altri gruppi arabi screditano le rappresentazioni più fumettistiche del partito. Ma nessuno potrebbe negare che sia stato tatticamente abile nel confrontarsi con il pericolo mortale e a lungo termine che veniva da una Turchia supportata dagli Stati Uniti, sia, dall fine del 2013, con la minaccia esistenziale di Da’esh.
In questo tipo di guerra è difficile avere una strategia duratura, ma è chiaro che l’obiettivo principale del Pyd è stato quello di rafforzare la propria influenza e il proprio controllo su tutte le aree che poteva raggiungere, attraverso relazioni di breve termine con gli attori che le popolavano.
Dobbiamo ricordare che all’inizio della rivolta il Pyd non era il principale attore della “via curda”. In realtà, nessun partito curdo lo è stato: si è trattato per lo più di reti giovanili. All’interno del movimento c’era il partito Yekiti – già indebolito dalle divisioni – e il Movimento per il Futuro Curdo [Kurdish Future Movement], un partito più piccolo che ha ancora una certa influenza. Dopo il 2011, ci sono state le Commissioni di Coordinamento Locale, che si organizzavano nelle aree curde in collaborazione (soprattutto nelle città) con le altre etnie, che fossero arabe, assire o siriane.
Il Pyd è diventato il maggior partito politico curdo soltanto a metà del 2012, quando il regime si è ritirato da alcune aree per potersi concentrare su altre. Al Pyd è stato permesso di costruire una propria potenza politica e militare. Ma le accuse che vedono il Pyd come uno “strumento” del regime sono completamente sbagliate. Entrambi gli attori hanno collaborato in alcuni periodi, ma questa collaborazione non si è tradotta in una relazione di lungo periodo. Il Pyd ha voluto seguire una linea indipendente sia dal regime sia dall’opposizione.
Questo non dovrebbe impedirci di criticare il Pyd. Come ho detto, anche se ci sono state delle intese fra i due, il Pyd non è un alleato del regime. Una prova è il continuo rifiuto del regime di riconoscere ai curdi qualsiasi diritto. Quando il regime catturò Aleppo nel 2016, riprese gradualmente il controllo delle aree sotto l’influenza del Pyd, perché non voleva trattare alla pari.
Bashar al-Assad e altri ufficiali hanno accusato il Pyd di essere il «tirapiedi degli Stati Uniti» e un loro «strumento» e hanno detto che lo avrebbero «distrutto», considerando Raqqa (prima capitale di Da’esh, oggi sotto controllo del Pyd) come territorio occupato. Ad Afrin, per esempio, i russi costrinsero il Pyd a stringere un accordo col regime, dicendo «se smantellerete le armi pesanti e le darete al regime, la Turchia non invaderà la vostra zona». Ma il Pyd si rifiutò, e il risultato è stata l’occupazione di Afrin lo scorso anno.
Anche se ora stanno negoziando, il regime ha rifiutato qualsiasi condizione posta dal Pyd per il federalismo e il decentramento. È sbagliato dire che sono alleati, anche se a un certo punto hanno stretto degli accordi.
Guardando indietro, pensi che l’assenza di una collaborazione su base popolare tra arabi e curdi dopo il 2012 fosse inevitabile, data la debolezza storica delle organizzazioni popolari in quanto tali e dato il ruolo così importante della Turchia per l’opposizione in esilio?
Credo che dovremmo fare una distinzione tra il socialismo dal basso e l’organizzazione popolare. Ovviamente, l’assenza di quest’ultima sul lungo periodo ha rappresentato una debolezza per la rivolta siriana.
Ma un’organizzazione collettiva dal basso c’è stata – le Commissioni di Coordinamento Locale che, a loro volta, hanno dato ai Consigli Locali la capacità di sfidare il dominio statale. Nell’estate del 2012 erano alle porte di Damasco, con vaste aree del paese ormai fuori dal controllo del regime. Nei termini della rivoluzione siriana, erano dei radicali. Vuol dire che in determinate aree lo stato era scomparso, e c’era una sorta di dualismo di potere.
La vasta maggioranza promuoveva un discorso democratico e non settario. Alcuni lanciarono un appello socioeconomico. Per via della composizione socio-geografica della rivolta, i problemi socioeconomici sono stati sollevati, come lo è stata la corruzione, ma non erano al centro di tutto.
Quando si parla di questione curda, sfortunatamente, c’è una lunga tradizione, nei vari settori dell’opposizione siriana – e persino tra alcuni pezzi di sinistra – di rifiuto dell’autodeterminazione curda. La popolazione curda ammonta a circa il dieci, quindici percento, soprattutto nel nord-est. Ma, anche lì, sono una maggioranza ristretta, e più della metà dei curdi si trovava ad Aleppo e a Damasco. Per questo non erano tanto interessati a separarsi in uno stato indipendente, quanto a creare un sistema federale, decentralizzato, ad avere più riconoscimento dei diritti nazionali curdi, a rimuovere la parola “arabo” dalla dicitura “Repubblica Araba Siriana”, ecc. – una cosa che, per dirla tutta, è stata rifiutata dall’opposizione nel suo insieme sin dalla prima conferenza nell’estate del 2011, mostrando tutti i limiti delle tradizionali opposizioni politiche.
Sin dall’inizio del 2012 le commissioni di coordinamento curde hanno aumentato sempre più le loro richieste, ma sono state subito respinte dall’opposizione ufficiale. Chiunque sollevasse la questione del nazionalismo curdo era accusato di separatismo.
Ma dire che non poteva che andare così… Credo che delle possibilità ci fossero, soprattutto nelle organizzazioni collettive dal basso, come c’erano esperienze di collaborazione ad Aleppo, nelle città miste, e anche a Qamishli, dove potevi trovare commissioni di coordinamento in cui assiri, curdi e arabi lavoravano insieme, avanzando richieste comuni in ciascuna delle tre lingue.
È stata davvero l’opposizione in esilio, con il suo approccio nazionalista arabo, che ha rifiutato di riconoscere i diritti nazionali curdi. Questo rifiuto è stato supportato da alcuni attori stranieri, specialmente dalla Turchia, che vedeva nella presenza del Pyd ai suoi confini la minaccia più grande, e che per questo motivo ha aperto le porte alle organizzazioni di fondamentalisti islamici per attaccare i curdi.
Scrivi anche della “ricostruzione” del paese e del grande bisogno che ha lo stato di investimenti stranieri. Per questo mi ha sorpreso leggere che né la Russia né l’Iran, le nazioni che più di tutti hanno supportato il regime, sembrano voler o poter investire nel paese. Il che ci riporta alla domanda a monte della controrivoluzione: cosa ha spinto queste nazioni a supportarla così strenuamente?
Dobbiamo essere chiari, senza l’aiuto della Russia o dell’Iran – incluso quello di Hezbollah e di altre milizie settarie – il regime non sarebbe stato in grado di sostenersi politicamente, militarmente ed economicamente.
Gli interventi di queste forze sono stati decisivi. E anche se l’intervento ufficiale è iniziato solo nel 2015, la Russia aveva già delle truppe sul terreno che aiutavano i servizi di sicurezza del regime. Le forze supportate dall’Iran – Hezbollah e altre – hanno iniziato a intervenire dal 2012. Questo fattore è stato decisivo.
Perché sono intervenuti? La prima ragione era ovviamente quella di preservare i loro interessi geopolitici. Bisogna considerare l’imperialismo come un mix di interessi economici e geopolitici, e come la relazione tra i due.
È anche importante ricordare che tutto ciò è avvenuto dopo quanto era successo in Libia. La Russia si era sentita tradita dall’amministrazione statunitense, la quale aveva detto che sarebbe intervenuta a Benghazi solo se le truppe di Gheddafi avessero attaccato la città. E invece mise su un intervento in piena regola contro il regime, che aveva legami economici con la Russia.
Le possibilità iraniane e russe in Siria erano anche legate all’indebolimento dell’imperialismo statunitense nella regione, soprattutto dopo la sconfitta in Iraq, la crisi finanziaria internazionale del 2008, e la stessa rivolta. Barack Obama non voleva una nuova guerra irachena in Siria, ma un accordo tra le parti al governo e le opposizioni conservatrici – di solito i Fratelli Musulmani o gruppi loro alleati – che avrebbero fatto gli interessi degli Stati Uniti.
La Russia ha preservato i suoi interessi nella nazione del Medio Oriente con cui ha rapporti più stretti. Come disse Putin anche prima del 2011, la Russia voleva espandere le due basi navali che ha laggiù. Il caso iraniano è differente. Primo, l’Iran ha bisogno di preservare la rotta attraverso la quale consegna le armi a Hezbollah in Libano. Più in generale, la sua strategia è di cercare una posizione migliore da cui negoziare con gli attori più forti, interpretando il ruolo della nazione “fastidiosa” grazie alla sua abilità di creare problemi ovunque. L’Iran prova a contrastare qualsiasi minaccia proveniente dagli Stati Uniti o da altri attori nella regione dicendo «se ci bombardate, siamo in grado di contrattaccare», che sia in Iraq, Siria, Libia, e forse in Yemen, e ora probabilmente anche passando attraverso Hamas, con la sua nuova leadership.
Per la Russia, il punto era mantenere il suo maggiore alleato; per l’Iran, era trarne un vantaggio e prevenire la prospettiva inaccettabile della Siria nelle mani di nemici regionali come l’Arabia Saudita.
Ma perché nessuna delle due nazioni sta investendo in Siria – cosa che presumibilmente potrebbe offrire maggiori opportunità di guadagno e di potere politico? Perché hanno aiutato il regime a sopravvivere, ma non a ricostruirsi?
Bisogna pensare alle rispettive economie. Entrambe le nazioni stanno affrontando sanzioni e proteste interne su temi socioeconomici. In Russia, Putin ha suscitato proteste di massa quando ha provato ad alzare l’età pensionabile, e l’Iran viene attaccato praticamente a ciclo continuo da vari settori della società, come puoi vedere anche tu. Specialmente con le sanzioni, nessuno dei due paesi ha la capacità di guidare la ricostruzione della Siria – l’economia della Russia, va detto, alla fine è grande quanto quella della Spagna.
Nei proclami ufficiali russi al mondo senti dire che «se volete vedere i rifugiati tornare in Siria, dovete pagare per la sua ricostruzione». Uno scenario che inizia a far gola ad alcuni stati, specialmente quelli europei con i governi più di destra, o persino fascisti – e potrebbe far gola persino ad alcuni governi liberal-autoritari, anche se non sono ancora convinti e si rifiutano di partecipare a qualsiasi tipo di ricostruzione che non preveda un processo di transizione politica.
C’è chi mette in discussione la nozione di “imperialismo” russo e iraniano in Siria tirando in ballo la definizione di imperialismo data da Lenin, che legge l’imperialismo soprattutto come esportazione di capitale…
L’intervento russo è iniziato per ragioni geopolitiche e non direttamente economiche. Certo, la Russia aveva degli interessi economici, ma non così diffusi. E lo stesso vale per l’Iran.
In realtà, i maggiori investitori in Siria prima della guerra erano l’Arabia Saudita, il Qatar, e la Turchia. Se vogliamo seguire alla lettera la definizione di Lenin, queste nazioni sarebbero dovute intervenire per prime nella difesa dello stato siriano. E per i primi sei mesi hanno davvero tentato di trovare un accordo tra il regime e alcuni settori dell’opposizione conservatrice, provando a placare la repressione, e solo dopo aver fallito hanno dato il loro sostegno ai settori più reazionari dell’opposizione.
Ora la Russia sta provando a chiedere un risarcimento, perché la guerra è stata dispendiosa in termini economici, ed è interessata soprattutto al controllo delle risorse naturali. Ma, come ho detto, il processo di ricostruzione è difficile.
La controrivoluzione ha distrutto infrastrutture e industrie. Alcuni capitali sono andati persi; altri sono incrementati. Ovviamente ad averci guadagnato di più sono stati i venditori di armi, ma anche quanti stanno investendo ora nei settori chiave della ricostruzione – l’immobiliare, i trasporti, la produzione di beni di seconda necessità, l’acciaio, il calcestruzzo, e così via. Allo stato spetta il compito di gestire i rapporti – cioè la competizione – tra capitali in questa “nuova Siria”, ma il regime di Assad sarà in grado di farlo?
La classe capitalista si è ridotta drasticamente. Specialmente quelli che erano più indipendenti dallo stato se ne sono andati.
Oggi, i grandi capitalisti che sono rimasti hanno rapporti molto stretti con i servizi di sicurezza e con il regime – altrimenti non sarebbero potuti crescere. Molto spesso parliamo di mercanti, commercianti e prestanome: persone che possono comprare petrolio, grosse quantità di grano, e cose così, per lo stato.
In altre parole, il regime è, su tutti i fronti, ancora più patrimoniale, ma la sua base sociale si è ridotta. È più settario, più tribale, più clientelare, più capitalista di prima.
Un processo che era iniziato già prima della rivolta riguarda la crescente importanza degli affitti, del commercio, e dei servizi. L’economia produttiva è stata colpita duramente, e la quota dei salari in proporzione all’economia nazionale è scesa dal 33 percento di prima della guerra all’attuale 20 percento. Entrambi questi fattori renderanno più semplice la gestione della classe capitalista.
Nel libro, prendi in esame la Legge N. 10, che rende più difficile per i siriani dimostrare di essere i legittimi proprietari dei loro beni. Milioni di siriani vivono fuori dalla nazione e altri milioni sono profughi interni. Scrivi che le abitazioni informali erano molto diffuse nella Siria pre-2011 e, per ovvie ragioni, i rifugiati non possono possedere beni. Che effetto pensi che avrà questa legge?
La minaccia di espropriare le persone delle loro case è reale, e non è l’unica utilizzata per sfrattare la gente. La Legge N. 10 è un ampliamento del Decreto N. 66, entrato in vigore nel 2012. Queste leggi hanno due obiettivi.
Primo, rappresentano un’opportunità economica, dal momento che rendono disponibile gran parte dei terreni. Tra il trenta e il cinquanta percento delle case siriane è informale. Le persone sono scappate senza i documenti che potessero provare il loro possesso di particolari aree o proprietà – e ora come possono dimostrarlo? E anche se lo potessero dimostrare, dovrebbero comunque affrontare le misure di sicurezza, pagare determinate somme di denaro, e così via. Secondo, c’è una motivazione politica. Queste leggi puntano a escludere le classi socialmente pericolose e i gruppi socialmente ribelli.
È già parzialmente successo al Basateen al-Razi [un quartiere di Damasco, ndt], nel quale ci sono state davvero poche compensazioni – e questo vale per le persone che avevano le carte in regola, ed erano rimaste in Siria.
Questa minaccia esiste, e se fosse implementata su scala nazionale, potrebbe rivelarsi molto, molto pericolosa. Per la verità, le persone che ritornano si trovano davanti molteplici minacce, come la prospettiva per i giovani uomini di venire arruolati, o imprigionati. Anche dove sono in vigore i cosiddetti accordi di riconciliazione, le persone vengono uccise, come sta succedendo a Dar’a, dove ufficiali dell’esercito e personalità dell’opposizione sono prese di mira dai servizi di sicurezza, e non solo.
Se la tua zona è stata distrutta, a cosa stai “ritornando”? Ci sono circa 5 o 6 milioni di Idp (Internally Displaced Persons, rifugiati interni) nella regione che non possono tornare, proprio per questa ragione. Se guardi alla zona est di Aleppo, è praticamente distrutta, e i servizi statali sono pessimi; lo stesso si può dire per Ghuta est, fuori Damasco, dove non c’è stata alcuna ricostruzione su larga scala. Anche a Homs le cose procedono molto lentamente.
E, ancora una volta: tornare sì, ma per fare che? C’è ancora la crisi economica, e non c’è alcun piano per risollevare l’economia produttiva. L’impiego pubblico è riservato alle famiglie dei soldati e dei servizi di sicurezza, e per molti trovare lavoro è davvero difficile. Anche l’inflazione è molto alta: dal 2011 il potere d’acquisto dei siriani è calato drasticamente.
Malgrado i proclami, il regime non vuole che la maggioranza dei rifugiati torni in patria. Ci sono molte ragioni per le quali è difficile parlare oggi di ritorno, anche se le minacce negli altri paesi – i paesi di confine, ma anche l’Europa – “spingono” affinché i rifugiati tornino.
Credo che, a dicembre, dopo le prime proteste in Sudan, il primo leader straniero che Omar al-Bashir ha visitato sia stato Assad. Quanti hanno supportato al-Bashar non dovrebbero stare zitti sul regime di al-Bashir e più in generale sull’organizzazione popolare in Medio Oriente?
Credo che per piccoli settori della sinistra l’internazionalismo sia ancora importante. Non solo in senso retorico, ma come mezzo per imparare da determinate esperienze estere.
Anche se le idee di Marx stanno, in qualche modo, tornando in auge, le organizzazioni di sinistra radicale in Europa e negli Stati Uniti – e in realtà, in tutto il mondo – sono in crisi. Allo stesso tempo, ci sono pezzi di sinistra che si concentrano sull’imperialismo occidentale, senza però provare a imparare qualcosa dalle lotte in Medio Oriente. Guardano soltanto ai loro limiti, senza rendersi conto che queste rivolte hanno scosso il mondo. Come lo ha fatto il movimento di occupazione nato da piazza Tahrir, per non parlare della questione dei rifugiati e di come sta influenzando gli stati europei – inclusa l’ascesa dei partiti autoritari o addirittura fascisti.
Può essere fatto molto di più nella critica alle relazioni fra le classi dominanti occidentali e i regimi dispotici della regione. Un esempio sono i finanziamenti dell’Unione Europea alle Rapid Support Forces [forze paramilitare sudanesi, ndt], affinché agissero come polizia anti-immigrazione. Oggi queste stesse forze sono usate per reprimere i dissidenti in Sudan.
Per la Siria, si sarebbe potuto fare molto di più in termini di solidarietà internazionale, e se non è stato fatto non è semplicemente per la crisi generalizzata della sinistra. Se un tempo la bandiera dell’internazionalismo sventolava alta, oggi molti settori di sinistra sono diventati nazionalisti, e si schierano con questo o quell’altro campo: è il risultato dell’indebolimento della coscienza di classe. Ma i nostri destini restano comunque legati.
*Joseph Daher è un attivista di sinistra svizzero-siriano e un accademico. È autore di Hezbollah: The Political Economy of the Party of God (Pluto Press, 2016). Joe Hayns è un membro di rs21. È uno studente e fa ricerca in Marocco. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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