Primarie Usa: il caso Tulsi Gabbard
Le arbitrarie regole del Democratic National Committee hanno eliminato dal dibattito del 12 settembre una candidata scomoda, che nel 2016 aveva svelato le manovre anti-Sanders e che ha messo alle corde Kamala Harris
Il 12 settembre a Houston, Texas, si terrà il terzo dei dodici round presidenziali decisi dal Democratic National Committee (Dnc), l’organo dirigenziale del partito tra i cui compiti vi è l’organizzazione delle primarie. Contrariamente alle prime due tornate, a Houston ci sarà una sola serata, dato che il numero dei candidati è stato dimezzato. Secondo il comitato solo dieci dei venti precedentemente ammessi avrebbero conseguito, entro la deadline del 28 agosto, i requisiti che, raddoppiando le richieste rispetto ai primi due, prevedono 130 mila donatori unici in almeno 20 stati e il 2% in quattro sondaggi accreditati dal comitato.
L’obbligatorio condizionale introduce gli argomenti principali di questo articolo, che verte sul Dnc e sulle candidate Tulsi Gabbard e Kamala Harris, le cui tre storie sono intrecciate da alcuni avvenimenti.
Una candidata controversa
L’ammissione dei dieci presunti top ten (Joe Biden, Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Pete Buttigieg, Kamala Harris, Cory Booker, Amy Klobuchar, Beto O’Rourke, Andrew Yang e Julian Castro) ha il vantaggio di vedere esclusi alcuni personaggi che avevano suscitato parecchi interrogativi sul perché si fossero candidati e che infatti sono rimasti fermi nel gradimento popolare. D’altro canto però mette anche in evidenza l’esclusione di Marianne Williamson, l’outsider scrittrice molto apprezzata sui social media che ha raggiunto la soglia dei donatori richiesti, e soprattutto di Tulsi Gabbard, che di donatori ne ha ormai più 165 mila e che degli oltre 25 sondaggi in cui ha raggiunto o superato il 2%, se ne è vista convalidare solo due.
Appartenente alla minoranza etnica samoana, di religione induista, maggiore dell’esercito, veterana dell’Iraq, deputata al Congresso per le Hawaii, Tulsi Gabbard è odiata dall’establishment più o meno come Bernie Sanders. L’informazione indipendente di area sandersiana invece appare divisa tra coloro che la guardano con diffidenza per alcune discutibili e controverse posizioni ed altri che invece, pur avendola criticata duramente e continuando a farlo quando non concordano con lei, la sostengono comunque con vigore. Senza entrare nel merito delle complicate differenti posizioni, può essere interessante, per chi volesse approfondire l’argomento, l’intervista a Tulsi di Glenn Greenwald, direttore di The Intercept.
Quanto a coloro che apertamente si schierano con lei, diversi la considerano preferibile a Elizabeth Warren la quale, contrariamente a Tulsi, non è affatto invisa all’establishment democratico, come lo stesso Bhaskar Sunkara ha dichiarato nell’intervista rilasciatami a Milano il dicembre scorso, sia per la sua storia personale, sia per l’endorsment che Liz ha dato a Hillary Clinton nel 2016, cosa che, nonostante l’entusiasmo suscitato dalla performance vincente della squadra Sanders-Warren nel dibattito del 30 luglio, è comunque difficile da dimenticare per i sandersiani Doc.
Regole arbitrarie
Anche indipendentemente dal caso Gabbard, molte sono le critiche che il Dnc ha ricevuto per l’arbitrarietà e la non trasparenza con cui ha stabilito le modalità che regolano le primarie, tra le quali figurano l’assegnazione dei sondaggi esclusivamente ad alcuni media mainstream scelti senza senza darne motivazione; l’attribuzione di scientificità a sondaggi condotti interpellando poche centinaia di persone ed escludendo completamente i social media che, sebbene imprecisi ed imperfetti, coinvolgono milioni di persone; l’equivoca riduzione in corso d’opera di sondaggi precedentemente accreditati e l’esclusione di quelli di alcuni stati in cui si voterà nel febbraio 2020.
Dei tanti autorevoli giornalisti indipendenti che si sono fatti sentire, riportiamo la voce di Michael Tracey:
Se il Dnc avesse semplicemente accettato i sondaggi condotti dai due maggiori giornali di due stati critici che voteranno per primi nelle primarie (New Hampshire e South Carolina), Tulsi si sarebbe qualificata per il prossimo dibattito. […] La logica di queste “regole” non è mai stata spiegata dai capi del partito, che le hanno escogitate in segreto. Le “regole” vanno esattamente in direzione opposta rispetto al modo in cui funzionano le primarie, nelle quali i candidati inizialmente si concentrano sui primi stati in cui si vota. […] Si tratta di una serie di diktat arbitrari costruiti dai dirigenti del Dnc che stanno soprattutto proteggendo i loro interessi ( e quelli dei loro ‘media partners’).
Così come nel 2016, quando il Dnc aveva fatto di tutto per ostacolare Bernie Sanders, anche oggi un obiettivo impellente dell’establishment democratico sembra dunque essere quello di togliere di mezzo quanto prima i candidati sgraditi non ancora conosciutissimi, impedendone la visibilità che si consegue con i dibattiti televisivi. E poco importa se ciò significa soffocare la democrazia arrivando al paradosso di ignorare il progressivo supporto popolare ottenuto proprio grazie a quei dibattiti, soprattutto in una fase ancora iniziale della campagna, quando la gente non solo ha il bisogno, ma ha il diritto di vedere a confronto coloro per i quali ha dimostrato apprezzamento o interesse.
La tattica del Dnc, questa volta impossibile da applicare a Bernie Sanders, ha colpito fin dall’inizio un’altra “pecora nera” della politica americana, l’ottantanovenne Mike Gravel, definito da Jacobin Magazine l’anti-Joe Biden, che ha condotto battaglie su battaglie fin dai tempi della guerra del Vietnam, quando aveva lottato per il rilascio dei Pentagon Papers. Gravel, ritiratosi senza aver potuto partecipare ad alcun dibattito e che ha dato il suo endorsment a Bernie Sanders e a Tulsi Gabbard, non sarebbe certo giunto fino al termine delle primarie, tuttavia la sua partecipazione ad alcune fasi avrebbe costituito un importante e prestigioso contributo alternativo, in grado di contrastare il grosso della platea pro-establishment che, seppure scremata, vedremo a settembre.
Intanto, dato che le regole per l’ammissione a Houston valgono anche per il quarto dibattito, che si svolgerà in due serate se i candidati saranno più di 10, in programma in Ohio il 15 e 16 ottobre con una deadline spostata al primo di ottobre, continua la raccolta firme di una petizione affinché il Dnc accrediti i sondaggi commissionati dai prestigiosi The Economist, Emerson College e Suffolk University, che darebbero la certezza dell’inclusione a Tulsi Gabbard.
Primarie 2016: Tulsi Gabbard denuncia le scorrettezze del Dnc
Molti sono i motivi per i quali il Dnc e i media mainstream hanno ingaggiato contro Gabbard una feroce battaglia. Uno riguarda le sue posizioni sia contro le guerre di regime change, intraprese «sulla base di menzogne e senza alcuna prova ingannando il popolo americano», sia contro il potentissimo Military Industrial Complex, sostenuto in maniera assolutamente bipartisan, che ogni anno si mangia «trilioni di dollari dei contribuenti in guerre devastanti e controproducenti, quando quei soldi sono così necessari qui a casa per essere destinati agli urgenti bisogni delle persone nelle nostre comunità».
Ma il peccato originale che il Dnc non le perdona risale al 2016 quando Tulsi, allora vicepresidente del comitato, ne aveva denunciato le irregolarità e i favoritismi verso Hillary, osando sfidare la presidente e monarca assoluta Debbie Wasserman Schultz, potentissima e corrotta deputata della Florida, amica intima di Hillary e con forti interessi nelle alte sfere del mondo economico, comprese l’industria delle prigioni private e quella altamente inquinante della grande industria agricola. Nel marzo 2016 Tulsi si dimise dal Dnc per sostenere apertamente Bernie Sanders. Tra le tante dichiarazioni rese da Tulsi all’informazione indipendente, citiamo alcuni passaggi di un’intervista al Jimmy Dore Show:
Per la prima volta il Dnc limitava i dibattiti ufficiali a sei e sanciva che se un candidato avesse partecipato ad un dibattito non ufficiale sarebbe stato eliminato da tutti quelli successivi ufficiali. Secondo me ciò andava contro quei principi di inclusione, di impegno e di democraticità che stavamo cercando di sollecitare. Ne ho fatto un punto importante nella speranza che quella regola si potesse cambiare e che potessimo aggiungere altri dibattiti senza minacciare di punire chi tentava di conquistare elettori, attenzione e supporto, […] finché il capo del suo staff [di Wasserman Schultz] ha mandato un messaggio al mio dicendo che non sarei più stata invitata ad assistere ai dibattiti se avessi continuato a fare tutto quel baccano sulle nuove regole.
Le proteste di Tulsi riguardavano anche il modo in cui l’establishment e i media mainstream trattavano la politica estera di Bernie:
Sapevo che i dirigenti del Dnc dovevano rimanere neutrali e così avevo deciso di stare da parte e di non fare nessun endorsment, ma fin dal primo dibattito e dai modi in cui esso era stato stato coperto dai media, mi ero resa conto che non veniva posta alcuna attenzione alle grandi differenze che Hillary Clinton e Bernie Sanders avevano sulla politica estera. Ciò che passava era che Hillary fosse una grande esperta mentre Bernie fosse concentrato su altri temi. […] Ho dato le dimissioni poiché sentivo, come soldato e come veterana, che non potevo assolutamente restare neutrale durante una competizione così importante e dovevo far conoscere la mia opinione e parlare, a nome dei miei fratelli e sorelle che erano in servizio e che vedono di prima mano i costi della guerra, di come sia importante conoscere le opinioni dei candidati prima che diventino capo supremo dell’esercito.
Luglio 2016: Wikileaks prova la corruzione del Dnc e i media inventano il Russiagate
Nonostante dopo le dimissioni di Gabbard la presidente Wasserman Schultz avesse rassicurato il pubblico dei media mainstream sull’assoluta imparzialità del DNC, le email rilasciate da Wikileaks in luglio, a due giorni dall’inizio della Convention di Filadelfia decisiva per la nomina presidenziale, testimoniavano inequivocabilmente la sua collusione con la campagna di Hillary. Costretta a dimettersi, Wasserman Schultz lasciò la presidenza ad interim alla sua vice Donna Brazile, sebbene anche costei, analista politica della Cnn, fosse stata chiamata in causa da alcune email. Nel breve servizio che la Cnn dedicò all’intera faccenda, annunciò la sospensione temporanea di Brazile, ma soprattutto evitò di parlare dei contenuti delle email, facendo invece insinuazioni su quelle intrusioni russe che presto si sarebbero trasformate nell’infinito Russiagate che, sempre senza parlare della corruzione del Dnc, da allora tiene banco sui media mainstream distogliendo l’attenzione dai veri problemi della gente.
Tra le ulteriori migliaia di email rese pubbliche in seguito, vi furono quelle che incastravano definitivamente anche Donna Brazile che, come ha raccontato anche Michael Moore nel suo 11/9, aveva persino passato a Hillary alcune domande che il pubblico le avrebbe posto in un Town Hall con Bernie Sanders gestito dalla Cnn. Fu solo in quell’occasione che il network interruppe definitivamente il rapporto di lavoro con Brazile, la quale però, non volendo passare per capro espiatorio, si vendicò a sua volta con un libro. Le accuse contro Hillary Clinton e l’inestricabile groviglio di verità e menzogne raccontate da Brazile altro non fanno che confermare quale covo di intrighi con Hillary e con i media mainstream fosse quel comitato che Tulsi Gabbard aveva avuto il coraggio di denunciare.
Per la cronaca Donna Brazile ora lavora niente di meno che per Fox News. Quanto al Dnc, la speranza che un po’ di pulizia e di trasparenza arrivasse con le elezioni del nuovo presidente nel 2017 fu bloccata sul nascere con la scelta di Tom Perez, meno diabolico di Debbie Wasserman Schultz e soprattutto meno potente, ma perfetto yes-man dell’establishment.
Il camaleontismo di Kamala Harris e la truffa del suo Medicare for All
Chi sicuramente gioisce dell’esclusione di Tulsi Gabbard è Kamala Harris, la ex-procuratrice generale ed ora senatrice della California di origini indiano-giamaicane, che gode del gradimento dell’establishment in quanto ultra-sicura rispetto al mantenimento dello status quo, ma che dopo il confronto con Tulsi nel dibattito del 31 luglio scorso ha visto seriamente compromessa la sua posizione di front-runner.
Dotata di un camaleontismo privo della ingenuità di Zelig ma applicato con precisi calcoli di convenienza, Kamala Harris si spaccia per progressista pur essendo finanziata da corporation, miliardari e ricchissimi raccoglitori di fondi che le organizzano eventi nelle zone più esclusive degli Stati Uniti come Hollywood e gli Hamptons.
Uno dei tipici esempi del suo doppiogiochismo è l’atteggiamento nei confronti di una delle bandiere di Bernie Sanders, quel Medicare for All presentato come proposta di legge nel 2017, il cui punto fermo è l’abolizione delle assicurazioni private in un sistema a totale copertura pubblica per tutti e che Kamala Harris ha cofirmato, proprio come ha fatto anche l’altro come camaleonte pseudo-progressista Cory Booker. La carismatica senatrice ha inoltre sostenuto la posizione di Bernie in tutte le situazioni di alta visibilità televisiva, come ad esempio nel Townhall di marzo della Cnn, salvo poi ritrattare nel giro di 24 ore sul mantenimento delle assicurazioni. La cosa si è ripetuta persino nel primo dibattito presidenziale, quando ha avuto il coraggio di alzare la mano a favore del piano di Bernie proprio di fianco a lui.
Da poco più di un mese Kamala è finalmente uscita allo scoperto con la sua proposta sanitaria ufficiale che mantiene le assicurazioni private, ma alla quale, facendo infuriare Bernie che ora è in lotta aperta con lei, ha lasciato il nome di Medicare for All, in modo da continuare a giocare sull’ambiguità di un programma che ormai riscuote il consenso della maggioranza degli americani. Almeno altri candidati hanno avuto il pudore di presentare i loro piani, misti di pubblico e privato, con nomi quali Medicare for Everybody, Healthcare for All o Medicare for America. Nel dibattito del 31 luglio, in assenza di Bernie Sanders che era nella sera precedente, è stata Tulsi Gabbard a fare notare come il piano sanitario che Kamala stava ancora spacciando per uguale a quello di Bernie non lo fosse affatto.
Tulsi Gabbard mette alle strette Kamala Harris
È soprattutto sulla presunta continuità con il Movimento per i Diritti Civili che Tulsi ha smascherato Kamala, restituendole, come in un contrappasso dantesco, quel che lei aveva riservato a Joe Biden il mese prima quando, con una performance drammatica, e melodrammatica, Kamala aveva messo in estrema difficoltà, accusandolo di segregazionismo negli anni in cui lei, bambina di colore in una California ancora segregata, ne subiva le umiliazioni.
Il momento cruciale tra Tulsi e Kamala è stato quando Gabbard ha riportato «la conversazione sul corrotto sistema giudiziario che oggi incide negativamente in maniera sproporzionata sulla popolazione nera e di colore di tutto il nostro paese», e sulla sua preoccupazione per il fatto che «la senatrice Harris dice di essere orgogliosa dei suoi precedenti di procuratrice e che sarà un ‘presidente procuratore’. Tra quei provvedimenti Tulsi ha citato le 1500 persone messe in carcere per uso di marijuana, nonostante Kamala stessa, ridendo, abbia dichiarato in un’intervista radiofonica di averla fumata; la negazione del test del DNA, che avrebbe riaperto il caso di un carcerato nel braccio della morte, “fino a quando le corti giudiziarie non l’hanno costretta a farlo”; l’aver “tenuto persone in prigione al di là dei termini previsti per usarle come forza lavoro a bassissimo costo per lo stato della California».
E Tulsi ha tralasciato la proposta, che a suo tempo sollevò ondate di indignazione, di mettere in prigione i genitori di bambini e ragazzini ad alto tasso di assenza scolastica, provvedimento che ancora una volta avrebbe penalizzato ulteriormente le già penalizzate fasce più povere ed emarginate come quelle di colore. Inconfutabilmente resi noti da tempo dagli organi di informazione indipendenti, e ribaditi anche dal professor Cornel West il giorno successivo al dibattito, alcuni delle misure prese da Kamala ricordano le situazioni descritte nello sconvolgente e straordinario documentario del 2016 13th di Ava DuVernay.
Visibilmente colta alla sprovvista, Kamala ha definito le accuse di Tulsi dei fancy speeches, discorsi di pura immaginazione, ed ha deviato sull’orgoglio di avere preso decisioni che hanno reso il sistema giudiziario californiano un modello per la nazione, mentre Tulsi «se ne stava in aula a fare discorsi». Gabbard, che una decina di giorni dopo si sarebbe assentata per due settimane dalla campagna elettorale e «dai discorsi in aula» per partecipare ai consueti addestramenti militari, che non sono propriamente delle passeggiate, in una delle zone più pericolose dell’Indonesia, ha controreplicato a Kamala che «deve delle scuse alle persone che hanno sofferto durante il suo regno di procuratrice».
La vendetta di Kamala e la questione e Gabbard-Assad
Nell’immediato post dibattito il giornalista della Cnn Anderson Cooper, senza porre a Kamala domande su quei provvedimenti, le ha offerto un’ulteriore possibilità di replica a Gabbard:
Harris: «Quello che sto per dire apparirà immodesto, ma io sono ovviamente uno dei candidati di punta. E così mi aspettavo che questa sera sarei stata alla ribalta e presa di mira, perché ci sono molte persone che vogliono mettersi in vista per il prossimo dibattito».
Cooper: «Per molti di loro è questione di vita o di morte».
Harris: «Sì, e specialmente quando si è allo zero o uno per cento o a qualsiasi punto sia lei, e così mi aspettavo di essere attaccata questa sera, ma vede, l’attacco arriva da una persona che è stata apologeta di un individuo, Assad, che ha ammazzato la gente del suo paese come scarafaggi, una che lo ha appoggiato e ne è stata talmente apologeta da rifiutarsi di chiamarlo criminale di guerra. Per ciò non posso prendere seriamente la sua opinione e quindi sono pronta ad andare avanti».
La questione dell’incontro con Bashar Al Assad, un’altra delle accuse con cui l’establishment martella Tulsi Gabbard da quando nel 2017 lo ha incontrato, è immediatamente tornata alla ribalta sui media mainstream, costringendo Tulsi a cercare di ribadire, nonostante le continue interruzioni degli intervistatori, che lei non deve giustificarsi con nessuno per aver incontrato Assad, e tanto meno con quei giornalisti che sanno solo accusarla di infamia. Anche in futuro, ha detto Tulsi, non rinuncerà ad incontrare qualsiasi altro «brutale dittatore pur di tentare di impedire le guerre», perché, dopo tutte le menzogne raccontate agli americani, «in qualità di soldato, di americana e di membro del Congresso, è mio dovere e mia responsabilità esprimere scetticismo ogni volta che qualcuno cerca di mandare i miei fratelli e sorelle in uniforme in situazioni di pericolo o di usare i nostri militari per cominciare una nuova guerra».
Non smentendo il copione previsto dall’establishment democratico, Tulsi Gabbard non parteciperà al dibattito presidenziale del 12 settembre. Ci auguriamo che giustizia sia fatta per quello di ottobre.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue da tre anni la Political Revolution di Bernie Sanders.
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