Proteggere l’anima per resistere all’oppressione
A cinquant’anni dalla prima edizione, «La terza vita di Grange Copeland» di Alice Walker fa ancora emergere con forza che la violenza, una volta interiorizzata, non può far altro che riverberarsi in una catena di relazioni di oppressione
Alice Walker è una delle voci letterarie e politiche più importanti del femminismo Nero statunitense. Figlia di mezzadri di Eatonton, Georgia, Walker cresce in uno dei contesti più segnati dalla storia della schiavitù. Attivista sin dagli anni Settanta nel movimento per i diritti civili, è tra le prime teoriche di una specificità storica e politica dell’esperienza quotidiana di oppressione e resistenza delle donne Nere. Premio pulitzer nel 1983 con Il colore viola, il suo romanzo d’esordio risale invece al 1970, La terza vita di Grange Copeland, appena ripubblicato in Italia dalle edizioni Sur tradotto da Andreina Lombardi Bom e di cui qui pubblichiamo un estratto della postfazione.
A cinquant’anni dalla prima pubblicazione, ancora oggi La terza vita di Grange Copeland fornisce strumenti fondamentali per leggere le interconnessioni tra le varie forme di oppressione, razziale, sessuale e di classe, che si fanno sistema in modo complesso. Con gli strumenti dell’arte e della letteratura, mostrando una sofferenza brutalmente incarnata, Walker ci mette di fronte alla posizione che le nostre vite e i nostri corpi occupano in questo sistema, alla responsabilità di fronte al perpetuarsi della discriminazione e dell’ingiustizia. Nelle parole di Walker emerge con forza che la violenza, una volta interiorizzata, non può far altro che riverberarsi in una catena di relazioni di oppressione. La sua voce e la sua opera sono un invito a spezzare per sempre questa catena.
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Nella mia cittadina natale di Eatonton, in Georgia, quando ero ragazzina c’era, e c’è ancora adesso, una incredibile quantità di violenza. «Eatonton è una cittadina violenta», così dice la gente del posto quando ogni altro tentativo di spiegare qualche recente sciagura si è rivelato vano. I neri di laggiù, come in tantissime altre parti del mondo, sono una comunità oppressa e, come ha detto uno dei nostri grandi scrittori afroamericani (che qui parafraso): frustrati e infuriati com’erano, per forza si ammazzavano a vicenda. Però cosa sarebbe successo, mi chiesi io, se qualcuno avesse mostrato alla gente della comunità oppressa l’inutilità di tutto questo? In ogni caso, forse la violenza della mia città natale mi è rimasta più impressa che ad altri perché diverse volte alla settimana mi recavo alla locale impresa di pompe funebri riservata ai neri. Io facevo la baby-sitter nella casa accanto; e mia sorella lavorava proprio per l’impresa di pompe funebri, come estetista e truccatrice. Da un lato del salone lavava, stirava e arricciava i capelli ai vivi, dall’altro lato faceva lo stesso per innumerevoli cadaveri; inoltre truccava i loro visi e talvolta anche i corpi, nascondendo lividi, tagli, ferite di arma da fuoco, graffi e squarci meglio che poteva con il suo arsenale magico di trucchi e belletti assortiti.
Ma neanche lei riuscì a fare molto per la vittima intorno al cui decesso è stata costruita questa storia. Sentendo il bisogno di condividere la sua frustrazione e, così ritenni, la sua indignazione (di ciò che aveva provato non ne parlammo mai), mi fece entrare nella stanza in cui la signora Walker (portava il nostro stesso cognome) era distesa su un tavolo smaltato di bianco con il capo su un poggiatesta di ferro. Nel romanzo la descrivo esattamente come mi apparve in quel momento. Scriverne anni dopo è stato l’unico modo per liberarmi da un’immagine così potente e disperata. Eppure la vedo ancora; non tanto il viso fracassato – il tempo ha contribuito a cancellare l’intensità di quella visione – ma sempre, sempre quell’unico piede calloso, la scarpa consunta, logorata, con un buco sfilacciato, coperto da carta di giornale, nella suola.
Un altro paradosso: la figlia della signora Walker era una mia compagna di classe. Si chiamava Kate. E non si chiamava così pure mia nonna, anche lei uccisa a revolverate da un «amante»? E a chi, durante le conversazioni sussurrate in famiglia, veniva data in qualche modo la colpa di tutto questo? Credo di aver trascorso il resto dell’anno scolastico a fissare Kate come se fosse un fantasma. Quando le espressi la mia vicinanza per il suo lutto (un modo di dire del Sud, tanto dolce quanto inefficace, «esprimere la propria vicinanza») lei quasi non rispose. Era su di lei che ricadeva adesso la cura della famiglia e dei numerosi fratelli e sorelle. Aveva tredici anni, come me. Si chiedeva ad alta voce se quelli là, i funzionari bianchi del carcere, all’epoca e probabilmente ancora oggi gli unici che ci sono a Eatonton, avrebbero rilasciato presto suo padre. Lui era l’unico mezzo di sostentamento della famiglia. Ormai la violenza di suo padre tormentava i miei sogni; volevo che non lo rilasciassero mai più.
Anche tra i miei parenti più prossimi c’era violenza. Appariva sempre radicata nel bisogno, da parte di mio padre, di sottomettere mia madre e noi figli, e nella sua (e nostra) resistenza, verbale e fisica, a una tale sottomissione. Parlandone con mio marito, che proveniva da una cultura totalmente diversa (o almeno così credevo) dalla mia, scoprii che anche nella sua famiglia c’era stato esattamente lo stesso tipo di violenza. Vedendo il corpo senza vita della signora Walker là su quel tavolo smaltato, mi ero resa conto che in effetti lei avrebbe potuto essere mia madre e che forse simboleggiava anche tutte le donne nel loro rapporto con gli uomini, comprese non solo la nonna e la madre di mio marito, che avevo creduto diversissime dalle mie, ma anche me stessa. Ecco perché nel romanzo quel personaggio si chiama Mem, dal francese la même, vale a dire «la stessa».
Come possono una famiglia, una comunità, una razza, una nazione, un mondo, essere sani e forti se una loro metà sottomette l’altra tramite minacce, intimidazioni e veri e propri atti di violenza? Vivendo nel Mississippi era facile per me capire come la violenza razzista prosciugasse la forza e la creatività dell’intera popolazione. Il Mississippi era lo stato più povero del paese, non perché il governo federale s’immischiava nelle sue faccende fin dalla guerra di secessione, come andavano proclamando a ogni piè sospinto i bianchi che cercavano di giustificare in qualche modo la povertà di quello stato, ma perché ogni minimo residuo di energia non sfruttata per l’immediata sopravvivenza quotidiana era impiegato per conservare una separazione tra le razze che era ipocrita, artificiale e fondamentalmente insostenibile, nella quale il dominio sui neri veniva raggiunto mediante la violenza. Pestaggi, castrazioni, linciaggi, arresti o incarcerazioni erano fatti di tutti i giorni, come lo sono adesso in un’altra società razzista similmente destinata a scomparire, quella del Sudafrica. Oggi sembra quasi amaramente comico, mentre vediamo il nostro pianeta sfruttato, avvelenato, esaurito, che vacilla sotto il nostro peso collettivo, pensare che gli assertori della supremazia bianca abbiano davvero creduto, e in parte credano ancora, di riuscire a garantirsi pace e sicurezza nel mondo togliendole alla gente di colore.
La signora Walker era una metà del suo mondo, così come la gente di colore è oltre la metà della popolazione del pianeta. Sarei stata capace di far sì che i lettori si rendessero conto di questo, e vedessero il legame tra la sua oppressione in quanto donna (e l’oppressione delle sue figlie) e la nostra in quanto popolo? Sarei riuscita a sensibilizzare i lettori? Dev’essere solo il cordoglio l’unico beneficio che ricaviamo dall’avere sperimentato tragedie che pochi si augurano di vedere? E come la mettiamo con il dovere di chi scrive nei confronti di quelli che finiscono, patetici, miseri, bistrattati, sotto un’imbarazzata coltre di silenzio?
«L’anima che abbiamo dentro è nostra, ti pare?», chiede il magnifico vecchio Grange Copeland al figlio Brownfield, che purtroppo non è in grado di rispondere affermativamente a questa domanda così come non lo è la schiera di tossicodipendenti e spacciatori della nostra comunità attuale. Il loro odio per sé stessi e la loro sensazione di inutilità sono uguali a quelli di Brownfield, come pure la loro violenza nei confronti degli altri, anche se ora non si limita ai familiari e minaccia interi popoli, interi mondi.
In una società nella quale tutto sembra sacrificabile, cosa rimane da tenersi stretto, da proteggere a ogni costo, da difendere a prezzo della propria vita? Sono propensa a credere, purtroppo, che in passato ci fosse tra i neri un riconoscimento del valore della propria anima maggiore di quanto ce ne sia al giorno d’oggi; siamo diventati più simili ai nostri oppressori di quanto molti di noi riescano ad ammettere. L’espressione to have soul, «avere anima», tanto spesso pronunciata dai nostri antenati per descrivere una persona di una certa levatura, prima voleva dire qualcosa. Avere soldi, avere potere, avere fama, perfino avere «libertà», non sono affatto la stessa cosa. Inevitabilmente figlia del popolo che mi ha allevato e guidato, in cui ho percepito il meglio così come il peggio, io credo con tutto il cuore che sia necessario mantenere inviolato l’unico spazio interiore che è concesso a tutti. Io credo nell’anima. Inoltre, credo che sia la tempestiva responsabilizzazione per le proprie scelte, un’accettazione volontaria di responsabilità per i propri pensieri, comportamenti e azioni, a darle potenza. L’oppressione dell’uomo bianco nei miei confronti non potrà mai giustificare la mia oppressione nei tuoi confronti, che tu sia uomo, donna, bambino, animale o albero, perché l’io che mi è prezioso rifiuta di lasciarsi possedere da lui. O da chicchessia.
Ci sono persone che non potrebbero mai essere schiave; molti dei nostri antenati ridotti in schiavitù erano così. Tutto ciò fa parte del mistero e del dono tramandati fino a noi che ci hanno permesso, una generazione dopo l’altra, di andare avanti. È questa la comprensione che è racchiusa nelle vite dei «sopravvissuti dell’anima» del mio romanzo, Grange Copeland e sua nipote Ruth. È una comprensione che riguarda la possibilità di resistere alla sottomissione, e può accomunarci tutti.
*Alice Walker è nata nel 1944 a Eatonton, in Georgia. Autrice di oltre trenta libri fra romanzi, racconti, saggi e raccolte di poesie, è nota anche per il suo impegno femminista e pacifista. In italiano sono già apparsi Non puoi tenere sottomessa una donna in gamba (Frassinelli), Il tempio del mio spirito, Possedere il segreto della gioia e Nella luce del sorriso di mio padre (Rizzoli), Non restare muti (Nottetempo), Il colore viola e La terza vita di Grange Copeland (Sur).
Copyright Edizioni Sur 2021 Tutti i diritti riservati. Traduzione di Andreina Lombardi Bom.
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