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Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale

Giulio Calella Bhaskar Sunkara 5 Novembre 2018

L’inaspettata circolazione di idee socialiste negli Usa, l'evoluzione della sinistra statunitense e il suo sguardo sull’Italia. L'anticipazione dell'intervista a Bhaskar Sunkara pubblicata nel primo numero di Jacobin Italia

Aveva solo 21 anni nel 2010 quando ha pensato di fondare la rivista Jacobin, coinvolgendo molti coetanei nell’ambizione di fare una rivista marxista ma non propagandistica, accurata ma non accademica, in grado di apparire innovativa senza rimuovere il passato, con un linguaggio capace di dialogare anche con l’immaginario pop e arrivare a più persone possibile. In questi otto anni c’è stata l’esplosione del movimento Occupy Wall street nel 2011, poi la coinvolgente seppur sconfitta campagna elettorale presidenziale per le primarie del Partito democratico di Bernie Sanders nel 2016 e infine l’elezione di Donald Trump: tutti fenomeni che in modi differenti tra loro hanno inciso non poco nella possibilità di far circolare idee socialiste nella patria del capitalismo. In Italia oggi, quando si parla di idee provenienti da oltreoceano, si cita spesso Steve Bannon, ex stratega di Trump, venuto nel nostro paese negli ultimi mesi per spiegarci come l’Italia del governo gialloverde sia un laboratorio di politiche sovraniste per tutta l’Europa, un modello per costruire un «partito del popolo» contro il «partito dell’establishment». Ma dagli Stati uniti, dal paese che da queste latitudini abbiamo sempre considerato “senza sinistra” paragonandolo all’Europa, soffia anche un vento contrario: quello della rivista Jacobin, di Black Lives Matter, il movimento antirazzista afroamericano nato a seguito dei continui omicidi di cittadini neri perpetuati dalla polizia, del #Metoo femminista e dei diversi candidati socialisti che hanno vinto a sorpresa le primarie del Partito democratico per le elezioni di Mid-Term del 2018. Bhaskar Sunkara oggi è direttore ed editore di una rivista che è arrivata a contare circa 40mila abbonati, che ha settanta gruppi di lettura in tutto il paese capaci di incanalare nuove energie militanti e più di un milione di contatti unici mensili da tutto il mondo sul sito jacobinmag.com.

In Italia, ma non solo da noi, desta impressione e ammirazione che un ragazzo così giovane sia stato capace in pochi anni di fondare e animare una rivista divenuta un vero e proprio fenomeno editoriale e politico internazionale. Ci racconti innanzi tutto qualcosa sulla tua formazione personale?

Sono diventato socialista in giovane età. La mia era una famiglia di immigrati e ho visto che mi era capitato di avere molte più opportunità a disposizione di quante ne avevano avute i miei fratelli, decisamente più grandi di me. Credo che la ragione sia stata semplice: non avevo certo delle qualità innate rispetto a loro, ma piuttosto io sono cresciuto in una zona con un’ottima scuola pubblica e ho avuto accesso alle politiche sociali. Per questo credo di poter dire che la mia sensibilità sia divenuta socialdemocratica in modo epidermico. Ma la mia è stata una politicizzazione totalmente spontanea, in larga parte casuale. La mia biblioteca di zona aveva un mucchio di testi di ispirazione socialista, la maggior parte donati da militanti comunisti e da associazioni culturali ebraiche. Per puro caso nell’estate successiva al Seventh grade [corrispondente alla nostra seconda media Ndr] scelsi di leggere La mia vita di Lev Trotsky, non mi piacque particolarmente (e ancora non amo molto quel libro), ma ne fui abbastanza incuriosito da decidere di leggere la biografia di Trotsky scritta da Isaac Deutscher, le opere di socialisti democratici come Michael Harrington e Ralph Miliband, e alla fine anche lo stesso misterioso Karl Marx. Il marxismo mi ha fornito gli strumenti per capire come mai le riforme conquistate all’interno del sistema capitalistico fossero così difficili da sostenere, e sul perché ci sia così tanta sofferenza in società così piene di abbondanza. Alla fine ho combinato il mio cuore socialdemocratico e il mio cervello ancora confusamente marxista nell’idea politica che sostengo oggi: un radicalismo consapevole delle difficoltà del cambiamento rivoluzionario e, allo stesso tempo, di quanto profonde possano essere le conquiste delle riforme.

Quali erano gli obiettivi iniziali con cui è nata la rivista Jacobin?

Jacobin è nata con due obiettivi diversi tra loro. Il primo era più interno al dibattito della sinistra radicale statunitense e ruotava soprattutto attorno al tentativo di far emergere il ruolo primario della classe lavoratrice e l’importanza delle forme tradizionali della politica socialista, ossia la forma partito e l’organizzazione sindacale, in un’estrema sinistra egemonizzata in modo crescente dal pensiero anarchico e autonomo. In altre parole, sul piano dei contenuti, si può dire che all’inizio il nostro fosse un progetto marxista abbastanza ortodosso. Il secondo obiettivo guardava invece al di fuori del nostro mondo. Eravamo consapevoli di quanto le idee socialiste fossero marginali negli Stati uniti e volevamo costruire un luogo di elaborazione a sinistra del liberalismo, rendere le idee socialiste chiare e accessibili attraendo persone non politicizzate o che si autodefinivano “liberal” ma nei fatti avevano molte idee radicali di sinistra. In altre parole cercavamo una base di massa per le nostre idee politiche.

Riesci a fare una descrizione sociologica e politica dei lettori di Jacobin? Sono cambiati dopo il movimento Occupy Wall Street e dopo la campagna di Bernie Sanders per le presidenziali del 2016?

In verità siamo ancora alla ricerca di quella base sociale di cui parlavo prima. Siamo cresciuti molto in questi anni come diffusione, ma abbiamo una porzione sovradimensionata di lettori con istruzione universitaria mentre siamo ancora un po’ distanti dagli ambienti working class. Direi che il lettore medio di Jacobin ha 23-24 anni e frequenta il college. Ci sono poi molti figli di professionisti di classe media ormai declassati, e pur avendo tra i lettori di Jacobin molti attivisti sindacali tra loro ci sono soprattutto insegnanti e infermieri (la parte più istruita della working class). Le caratteristiche dei nostri lettori non sono cambiate dopo il movimento Occupy e la campagna per Sanders, piuttosto possiamo dire che prima non avevamo alcuna base di lettori mentre adesso una piccola base c’è.

Qual è la situazione della nuova sinistra socialista Usa e che rapporto c’è tra sinistra politica e movimenti sociali in una società che non ha conosciuto importanti partiti socialdemocratici, tanto meno comunisti, e sindacati di classe come in Europa?

Dobbiamo distinguere alcune cose, parzialmente diverse tra loro. Una cosa è l’ampia mobilitazione a sostegno di Bernie Sanders che ha attirato molto e continua a galvanizzare grazie alle sue assemblee e comizi nelle città; poi ci sono le persone che si sono entusiasmate con i nuovi candidati alle primarie del Partito democratico che si auto-definiscono socialisti come Alexandria Ocasio-Cortez; e infine c’è quel che si muove all’estrema sinistra. La mobilitazione più ampia si riattiverà con la campagna a favore di Sanders per le presidenziali del 2020, che ha molte potenzialità di far crescere la sinistra in generale e di produrre attivismo tra le persone. Poi c’è la sinistra radicale, per lo più organizzata nei Democratic Socialists of America (Dsa). Quando, nel 2007, ho aderito a Dsa c’erano non più di cinquemila membri attivi. Oggi sono più di cinquantamila. Quindi c’è stata una crescita enorme. È uno spazio ampio, con orientamenti politici non sempre definiti e difficoltà nel costruire un quadro e delle azioni coerenti, ma sta avendo comunque una crescita incredibile. In questo momento negli Stati uniti a mio avviso non ci sono dei veri e propri movimenti sociali, almeno per la definizione che ne do io. Black Lives Matter si è oggi in larga parte esaurito o si è spostato in una direzione egemonizzata dalle Ong. Il movimento femminista del #MeToo è importante e ha consentito a molte donne di ribellarsi a molestie e discriminazioni di genere, ma la mobilitazione è stata in larga parte mediatica. Vedremo se si riusciranno ad avere un maggior numero di azioni di lavoratrici intorno alle rivendicazioni del #MeToo, ma per ora non sono sicuro che sia un movimento sociale paragonabile a quelli che avete avuto in Europa o che esistono oggi in paesi come Brasile o India.

Ha avuto una certa eco anche da noi in Italia la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez nelle primarie nel Quattordicesimo collegio di New York del Partito democratico per le elezioni di Mid-Term. Una ragazza di 28 anni, Latina, di famiglia working class e fresca di laurea in economia che sconfigge un boss del Partito democratico newyorkese come Joe Crowley, con il solo sostegno di un piccolo gruppo di militanti di ispirazione socialista. Hai più volte detto di guardare a queste candidature nel Partito democratico come uno strumento non per conquistare il partito ma per veicolare idee socialiste nel paese. Non c’è però un rischio di illudersi di poter cambiare dall’interno il Partito democratico? E in che modo si può non delegare, come più volte è stato fatto in Italia, la costruzione dell’alternativa al solo strumento elettorale?

Be’, dovremmo intanto fare una differenziazione tra i due tipi di candidature che hanno vinto a sorpresa le primarie nel Partito democratico. Ci sono le varie Alexandria Ocasio-Cortez, progressiste, che si autodefiniscono socialiste democratiche, sostenute da molti socialisti democratici ma che non hanno un legame reale con la tradizione socialista e la concezione dello Stato, della classe ecc. che ha la maggior parte di chi proviene da quella tradizione. E poi ci sono persone come la candidata senatrice Julia Salazar, che è una marxista con posizioni radicali e proviene da ambienti vicini a Jacobin e a Dsa. Io penso che concorrere apertamente come socialisti nelle primarie del Partito democratico sia una strategia che ha senso per la sinistra data la particolarità della nostra legge elettorale. Ma non dovremmo solo far partecipare candidati e festeggiare le loro elezioni, abbiamo bisogno di strumenti per formare gli eletti, per renderli controllabili collettivamente dai membri della propria organizzazione di appartenenza, e di molto altro ancora. Le campagne elettorali hanno dimostrato di essere un’utile scorciatoia, ma vanno utilizzate come strumenti per costruire il potere della classe. Dobbiamo essere guardinghi verso tutte le tendenze che scaturiscono dalla voglia di mantenere unicamente il proprio seggio parlamentare, ma se l’alternativa è sedersi e non far nulla o attendere che cambino le condizioni oggettive, allora io preferisco un approccio più attivo. Il varco che abbiamo di fronte in questo momento, oltre a piccole sacche di resistenza dei lavoratori come quella del sindacato degli insegnanti negli Stati Uniti, è soprattutto elettorale.

Negli Usa fate i conti forse da quasi un secolo con l’assenza di una forte sinistra politica, realtà che invece si sta affermando in Europa solo recentemente. Come vedi dalla vostra prospettiva questo cambiamento nel nostro paese, e cosa possiamo imparare da voi per “vivere in un paese senza sinistra”, ossia per ricostruire in un tale contesto idee e pratiche di trasformazione sociale?

Questa è una buona domanda, ma purtroppo non credo di avere una buona risposta. La storia della sinistra italiana mi sembra una storia di opportunità sprecate, sconfitte autoinflitte e fallimenti. Anche la sinistra statunitense ha fatto la sua parte di errori, ma abbiamo dovuto cimentarci con la classe dirigente più potente della storia e con l’eredità storica dell’assenza di partiti laburisti o socialdemocratici che abbiano rappresentato gli interessi del mondo del lavoro. Direi che in Europa ci sono nuovi spazi. Non credo nel populismo di sinistra come teoria, ma penso che ci siano aspetti della sua retorica popolare – come quelli utilizzati da Podemos in Spagna – che dovremmo prendere come esempio. Penso che serva anche una posizione credibile sull’Europa, avanzando critiche da sinistra alle istituzioni europee, in modo che la destra non finisca per presentarsi come la sola credibile forza di opposizione. Ma fondamentalmente penso che non si debba perdere la fiducia nella capacità dei lavoratori di lottare per la propria emancipazione. C’è ancora una working class, può ancora essere organizzata, ci sono ancora interessi comuni che la uniscono. La working class è cambiata, è stata frammentata, ma le intuizioni fondamentali del marxismo e del socialismo tengono ancora.

Cosa ti aspetti dall’esperimento di Jacobin Italia?

Mi aspetto che un progetto legato al nome di Jacobin si ponga obiettivi ambiziosi, sia aggressivo nella ricerca del suo pubblico e nel farlo crescere, professionale nel suo modo di lavorare, ma anche impegnato nella lotta per una società socialista dopo il capitalismo – una società senza oppressione, integralismi e sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

*Giulio Calella è cofondatore e direttore generale di Edizioni Alegre. Bhaskar Sunkara è editore, direttore e fondatore di Jacobin magazine.

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