Quando l’esercito di riserva eravamo noi
Un secolo fa il movimento operaio francese dovette fare i conti con la massiccia concorrenza al ribasso dei lavoratori immigrati, molti dei quali italiani. Invece di combattersi tra loro, scelsero di unirsi
L’Operaio Italiano, El Proletario, La Riscossa, Trybuna Robotnika, Romania Muncitore, Parisi Munkas, Glas, Robotnik… Girando tra i cantieri della banlieue parigina, nelle miniere vicino alla frontiera belga, nelle acciaierie della Lorena negli anni Venti e Trenta del secolo scorso poteva capitare di veder passare uno di questi giornali di mano in mano tra operai provenienti da paesi più o meno lontani. L’invito esplicito del sindacato era proprio questo: farli circolare. Oppure leggerli ad alta voce, per i compagni di lavoro che non sapevano farlo nemmeno nella loro lingua materna. Su questi giornali i lavoratori stranieri potevano informarsi dell’ultimo decreto sui permessi di soggiorno o la nuova legge sulle assicurazioni sociali. Potevano scoprire quando si sarebbe svolta la prossima riunione per la mano d’opera italiana, polacca o spagnola, o gli orari d’apertura dello sportello legale organizzato da sindacalisti loro connazionali. A quel giornale potevano scrivere, domandando come agire contro il loro padrone che non aveva versato i contributi o che, semplicemente, non aveva pagato la giornata.
Questi giornali in lingue straniere e queste riunioni fatte da sindacalisti migranti non erano l’eccezione nella Francia tra le due guerre. All’inizio degli anni Trenta in Francia c’erano circa tre milioni di lavoratori stranieri. Ottocentomila italiani, mezzo milione di polacchi, trecentocinquantamila spagnoli, duecentocinquantamila belgi… Queste erano le comunità che costituivano il nervo dell’industria francese e, spesso, della sua classe operaia. L’immigrazione si era resa una necessità per la Francia dalla fine del 1800, sia per la crisi demografica in cui era entrato il paese, sia per sostenere la rivoluzione industriale che trasformò il paese, prima della Grande Guerra, in uno dei principali produttori al mondo di acciaio, alluminio, macchine.
Con il conflitto mondiale la necessità di mano d’opera si acuì. La Francia aveva perso il 10% della sua forza lavoro nella guerra e doveva far fronte alla ricostruzione delle zone devastate del Nord-Est del paese. A questo scopo numerosi trattati di lavoro furono firmati con l’Italia, la Polonia, la Cecoslovacchia, il Belgio, la Spagna ed altri Stati che trovavano nell’emigrazione una valvola di sfogo per la sovrabbondanza di mano d’opera e un modo per avere nuove entrate grazie alle rimesse. Questi trattati bilaterali definirono i meccanismi di reclutamento della mano d’opera, in taluni casi demandando la selezione al governo del paese d’emigrazione, in altri ad imprese private come la Société Générale d’Immigration, gestita dalle grandi imprese del settore minerario e agricolo.
L’arrivo di questi migranti non era stato un fenomeno incruento. Accusati di essere briseurs de grêves (crumiri), di portare ad una riduzione dei salari e dei diritti, gli stranieri erano stati oggetto di violenze da parte dei lavoratori francesi. L’evento senz’altro più noto è quello del Massacro di Aigues-Mortes [al quale di riferisce l’immagine sopra], avvenuto tra il 16 e il 17 agosto 1893. Accadde che una massa inferocita di lavoratori francesi uccise e ferì numerosi stagionali italiani impiegati nelle saline. Ma fu davvero una storia a senso unico, con gli stranieri vittime passive e i francesi nella parte dei razzisti carnefici?
Tra internazionalismo e protezionismo
In un quadro nel quale l’afflusso di operai divenne costante, i sindacati si trovarono combattuti tra la l’ideologia internazionalista e l’attivismo protezionista. Già durante la guerra le organizzazioni operaie francesi avevano rivendicato un ruolo attivo nella selezione dei contingenti di lavoro che avrebbero dovuto varcare i confini. Aspiravano a gestire questa funzione di primo piano con il doppio scopo di avere voce in capitolo nelle politiche di sviluppo industriale e ridurre la possibile conflittualità che sarebbe potuta sorgere tra mano d’opera locale e quella straniera. Tuttavia, subito dopo la firma dei Trattati di pace si rese evidente che i governi volevano escludere le organizzazioni operaie, privilegiando le richieste del mondo padronale in cerca di operai a basso costo, fortemente mobili e non organizzati.
Per questo divenne imprescindibile riuscire ad organizzare i lavoratori stranieri, in un’Europa dove la mano d’opera diventava sempre più mobile e il diritto internazionale, se da una parte puntava ad un allargamento sempre maggiore dei diritti sociali (assicurazioni sugli infortuni, disoccupazione, invalidità, maternità, ecc.) ai lavoratori stranieri, dall’altra rischiava di creare gerarchie tra lavoratori maggiormente protetti (quelli difesi da trattati bilaterali) e quelli meno protetti (nel caso, per esempio, dei profughi armeni o russi).
A propiziare una nuova attenzione verso i lavoratori migranti intervenne anche la scissione, nel mondo politico e sindacale, delle correnti comuniste dalle organizzazioni socialiste. Le une e le altre iniziarono a vedere negli stranieri un settore su cui costruire radicamento, specialmente per entrare in quei rami di nuova industrializzazione dove i migranti costituivano la maggioranza o una componente consistente della mano d’opera. In questo quadro furono da stimolo i vari incontri tenuti dalla Federazione sindacale internazionale (la cosiddetta Internazionale di Amsterdam, vicina al mondo socialista) e l’Internazionale Sindacale Rossa (Profintern, di emanazione sovietica). In rapida successione queste due internazionali chiesero ai loro membri di mettere in piedi delle “sezioni di lingua” dove i lavoratori migranti di ogni nazionalità potessero riunirsi e dentro i quali potessero essere sindacalizzati. Il sindacalismo francese aveva già esperienze precedenti la Guerra, guidate soprattutto dalle comunità di lingua Yiddish impiegate nel tessile nella zona di Parigi che avevano fondato propri giornali e sezioni.
Dopo un vano tentativo di costituire delle sezioni tedesche subito dopo la guerra, le prime iniziative a diventare operative furono quelle degli italiani ed dei polacchi. La nascita di questi Bureaux de la Main d’œuvre Étrangère (Moe) fu propiziata da una diplomazia parallela che sorse tra il sindacalismo francese e le organizzazioni operaie dei paesi d’emigrazione. Questi uffici erano guidati da leader stranieri scelti dalle organizzazioni francesi su proposta dei sindacati fratelli nei paesi d’emigrazione.
La Babele operaia
La maggior parte dei finanziamenti finirono nelle iniziative editoriali. Nacquero periodici nelle lingue delle maggiori comunità straniere. La Conéfdération Générale du Travail Unitaire, organizzazione scissasi dalla Cgt nel 1921 e vicina al Partito comunista francese, fondò El Proletario (in spagnolo), La Riscossa (in italiano), La Voix Ouvrière (in Yiddish), Trybuna Robotnika (in lingua polacca), Romania Muncitore (in romeno), Parisi Munkas (in ungherese), Glas (per i lavoratori iugoslavi), Robotnik (in ceco). Nel 1926 il 16% del bilancio della Cgtu era consacrato alla vita di questi periodici, che subirono l’anno successivo una forte repressione poliziesca che corrispose a nuove politiche anti-immigrazione ed alla repressione delle manifestazioni in solidarietà a Sacco e Vanzetti.
Il primo periodico lanciato dalla Confédération Générale du Travail fu il Pravo Ludu, giornale in lingua polacca che era sorto autonomamente in seno alla Federazione del Pas de Calais dove si concentravano numerosi lavoratori polacchi impiegati nelle miniere. A seguire fu l’Operaio Italiano, testata nata dalla sezione di lingua italiana guidata da sindacalisti italiani come Ernesto Caporali e Felice Quaglino (quest’ultimo leader storico dei lavoratori dell’edilizia) ed in cui lavorò anche Pietro Nenni. Con la repressione in patria e lo scioglimento della Cgdl Parigi divenne il cuore del sindacalismo in esilio. Così il gruppo di lingua divenne spazio in cui convogliare parte di quei quadri sindacali che avevano varcato le Alpi.
Questi gruppi dalla loro nascita svolsero un’intensa attività di sindacalizzazione nelle zone in cui si concentravano grandi comunità straniere, come nelle zone minerarie ed industriali del Nord e dell’Est, ma anche in quelle regioni alpine in cui i migranti italiani rappresentavano il cuore della mano d’opera impiegata nella costruzione e, successivamente, manutenzione delle centrali idroelettriche o nel sud-ovest dove italiani e spagnoli riempivano massicciamente i vuoti lasciati dai francesi in agricoltura. Le zone minerarie e metallurgiche della Lorena, dove il sindacalismo si scontrava da decenni con quelli che venivano definiti i «baroni del ferro», erano seguite con attenzione particolare. Qui la repressione dello stato contro i militanti stranieri non ebbe mai soluzione di continuità, visto che gli stranieri furono la componente fondativa delle prime organizzazioni sindacali come dei gruppi locali del comunismo francese. Nel momento in cui, nel 1926, si venne a creare il Cartello Europeo dell’Acciaio, i sindacati di Francia, Germania, Lussemburgo e Belgio provarono a costituire un’iniziativa comune di sindacalizzazione delle aree minerarie ed industriali attorno al Reno. Quest’iniziativa, il cui esito fu immediatamente negativo per i comunisti, un po’ più duratura per i socialisti, fu il tentativo di unificare rivendicazioni ed azioni non più su base nazionale, ma su quelle di regioni trans-frontaliere che condividevano modelli industriali e struttura di una mano d’opera sempre più mobile.
L’ostacolo nell’organizzare i lavoratori stranieri non era costituito solamente dalle lingue diverse che essi parlavano. Un altro ostacolo era insegnargli il linguaggio del diritto. Fu così che, là dove nascevano gruppi locali di lingua, i sindacalisti provavano a sviluppare opere di alfabetizzazione giuridica per difendere i propri connazionali da soprusi e vessazioni e per renderli capaci di spostare la propria azione in sede giudiziaria qualora si rendesse necessaria. Così sappiamo, per esempio, di uno sportello giuridico che si tenne a Parigi dalla metà degli anni Venti fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Questo sportello si svolgeva in italiano ogni sera nei giorni lavorativi, in mezzo alla giornata durante i fine settimana. L’Operaio Italiano aveva una sezione in cui i redattori davano risposte alle domande circa il diritto del lavoro francese postegli dai lettori del giornale. I temi spaziavano dalle strategie da usare con i propri padroni, alle nuove politiche sociali (assicurazioni sociali, assegni familiari, ferie, ecc.) che furono introdotte tra la fine degli anni Venti e il decennio successivo.
Il razzismo ed il Fronte Popolare
I partiti politici prima modificarono il nome dei Moe in Main d’œuvre immigrée per togliere quell’ingombrante «étrangère» che nelle campagne anti-immigrati di inizio anni Trenta imperversò in tutto il paese, poi sciolsero totalmente le proprie sezioni di lingua per farne confluire i militanti nelle proprie fila. Il sindacalismo, invece, non sciolse mai le proprie strutture. Questi furono anni in cui le organizzazioni operaie, specialmente quelle vicine ai socialisti, furono profondamente attraversate da tensioni xenofobe e razziste. La Cgt sostenne con forza la Legge di difesa della mano d’opera nazionale emanata nel 1932 che imponeva una percentuale massima di lavoratori stranieri impiegati nei vari settori economici. La situazione cambiò progressivamente con la normalizzazione della crisi economica e, soprattutto, dopo i moti del febbraio 1934 in cui le organizzazioni sindacali e di sinistra temettero un colpo di stato di matrice fascista. I sindacati serrarono le fila, ed il Primo maggio successivo convocarono la data con volantini in varie lingue richiamando tutti all’unità antifascista. L’anno successivo Cgt e Cgtu avviarono un processo di unificazione che si concluse nel marzo del 1936.
Il 1936 fu l’anno d’oro del movimento operaio. A cavallo delle elezioni che portarono il Fronte Popolare al governo del paese, le fabbriche entrarono in sciopero (12 mila di cui 9 mila con occupazione) portando alla firma di ben 9 mila contratti collettivi, all’approvazione della legge sulle quaranta ore di lavoro ed a quella sulle ferie pagate obbligatorie.
Con questo vasto movimento sindacale le organizzazioni operaie francesi, fino a quel momento arroccate in alcune zone ed alcuni settori (il pubblico e settori figli della prima rivoluzione industriale), entrarono capillarmente nei settori che stavano vivendo la più alta razionalizzazione dei processi produttivi, come quelli metalmeccanici guidati dall’automobile e dall’aeronautica. L’elaborazione e l’imposizione dei contratti collettivi era un’arma in mano agli operai per contrapporre la propria idea di gerarchie interne e di organizzazione dei tempi di lavoro. Come sappiamo questa fase durò poco, essendo stroncata definitivamente col fallimento degli scioperi del novembre 1938. Ciononostante, il sindacato divenne organizzazione di massa e ad iscriversi ad esso furono anche i migranti. Uno studio della Cgt del 1937 rivela che la percentuale di stranieri sindacalizzati passò dal 10 al 50%, in linea con le percentuali dei lavoratori francesi. I quadri del Partito comunista d’Italia presenti in Francia affermarono che gli scioperi erano stati in grado di attrarre nel movimento lavoratrici e lavoratori che fino a quel momento si erano tenuti ai margini, spesso provenendo dal mondo cattolico o temendo ritorsioni della diplomazia fascista.
Un internazionalismo pratico
La guerra non rappresentò la fine di esperienze di organizzazione degli stranieri nella politica francese. I comunisti crearono i gruppi Francs-tireurs Partisans – Main-d’œuvre Immigrée composti da militanti stranieri operanti sul territorio francese.
Passato il conflitto il sindacato rimise in piedi le sue vecchie strutture che perdurarono sul modello precedente fino agli anni Settanta, e a volte fino agli anni Ottanta. L’esaurirsi delle migrazioni storiche europee e soprattutto il cambio di struttura della componente di lavoro straniera li mise in crisi. I nuovi arrivati giungevano da paesi del mondo ex-coloniale francese, in cui un’identità linguistica e nazionale chiara non era riscontrabile. Un modello immaginato per migranti provenienti da stati nazione europei mostrava ormai tutte le sue contraddizioni.
Tuttavia, questa esperienza poco nota non si limitò solo agli stranieri in Francia. Esperienze simili si possono trovare altrove. Esse furono importantissime per quelle comunità che nel proprio Paese vivevano l’oppressione della dittatura, come gli italiani durante il Ventennio o gli spagnoli ed i portoghesi fino al 1975. Nel sindacalismo francese o tedesco, i migranti trovavano quella formazione politica, quella legittimazione e quella voce che gli erano negate in patria. L’esperienza di organizzazione sindacale dei migranti fu anche il frutto dell’internazionalismo degli anni Venti, un internazionalismo pratico in cui le identità di ciascuno dovevano essere valorizzate con il fine ultimo della ricomposizione della classe operaia internazionale.
*Federico Del Giudice si occupa di storia delle migrazioni e del lavoro, è dottorando alla Scuola Normale Superiore di Pisa in cotutela con l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi.
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