
Questo non è un editoriale sulle sardine
Un movimento contro Salvini e il razzismo sta riempiendo le piazze di diverse città. Per leggere questo fenomeno bisogna guardare al contesto sociale in cui è immerso
Questo non è un editoriale sulle «sardine». È piuttosto un eco-scandaglio lanciato nel mare in cui nuotano, una sonda gettata negli abissi della profondità sociale che le piazze contro Matteo Salvini rappresentano.
Il mare, si sa, ha la memoria lunga e prima o poi restituisce tutto. Dunque a piantare lo sguardo oltre la risacca ci si accorge che stiamo parlando di un fenomeno che non è cominciato l’altro giorno. Ormai da mesi, prima della piazza bolognese dello scorso 15 novembre e anche alla vigilia del grande balzo elettorale della Lega alle europee, Matteo Salvini è assediato dai contestatori. Il fenomeno si è propagato trasversalmente, nelle grandi città come in quelle di provincia, ed è andato oltre singole sigle e affannate reti di movimento. Ha ecceduto ogni forma organizzativa, anche se in molte piazze di molte città da nord a sud del paese sono stati movimenti sociali e associazionismo antirazzista a convocare le piazze contro Salvini. Quelle contestazioni hanno rappresentato una costante che proprio il clamoroso risultato elettorale della Lega alle elezioni europee, oltre la soglia psicologica del 30%, aveva rischiato di attutire e oscurare e che la grande manifestazione bolognese dello scorso 15 novembre ha avuto il merito di rinfocolare.
Ma sarebbe sbagliato decontestualizzare quella manifestazione, inquadrarla soltanto sotto la chiamata di un evento Facebook. Probabilmente sarebbe riduttivo anche attribuire al corso degli eventi un unico brand, dei portavoce e una linea politica coerente. Lo dicono anche le parole generiche e imbarazzate pronunciate davanti ai microfoni da quelli che, quasi loro malgrado, i media hanno nominato sul campo come «portavoce» della protesta.
La mareggiata trascina parecchi luoghi comuni. Di fronte ad anni di bombardamento mediatico e regressione culturale che hanno prodotto il ciclo reazionario di questi anni, qualcosa si muove. Solo chi si è rintanato dentro le mura rassicuranti e/o anguste della propria appartenenza immagina che lì fuori ci sia una società soltanto incattivita, preda inerme della Bestia salviniana o delle sirene sovraniste, delle semplificazioni delle destre e della paranoia dell’invasione. Non si tratta di ostinarsi a essere ottimisti, bensì di osservare come lì fuori, appena dietro lo schermo dal quale state leggendo queste parole, si gioca ogni giorno una battaglia.
È un conflitto che bisogna imparare a riconoscere e che riguarda innanzitutto le forme di vita, il modo in cui si convive dentro un’aula scolastica o si condivide un muretto, investe le dinamiche di potere quanto le relazioni orizzontali. Siamo davanti a un fenomeno ciclico che ogni volta si presenta in forme inedite, adatte al contesto: i più giovani non si fidano di chi è più grande di loro. Ci sono generazioni che hanno poco a che spartire con le paure che diffonde Salvini, che altro non sono che la versione 2.0 delle angosce di un vecchio bacucco alle prese con la modernizzazione della società. Una volta i matusa avevano paura delle minigonne e dei grammofoni, indice del panico morale col quale si manifestava il timore dello sgretolamento della società, oggi i boomer si fanno contagiare dalle emergenze artificiali costruite ad arte per comandare e costruire gerarchie. Salvini sa bene che tocca corde tutt’altro che accattivanti, che rimastica la solita vecchia solfa reazionaria. Per questo fa di tutto per apparire smart, per svecchiare la sua immagine e darle un tono vissuto e giovanilistico: da qui derivano le patetiche scenette del Papeete o le imbarazzanti messe in scena gastronomiche via social.
Questa nuova generazione e la ricchezza delle sue relazioni sociali e affettive eccedono Salvini, non si limitano a contrastarlo ma lo oltrepassano, lo considera come un oggetto estraneo e incompatibile con il consesso della vita in comune, ricade in forme spurie, non lineari e irriducibili a sintesi politica definita, nelle piazze che contestano il leader leghista. Si dirà che questi eventi rischiano di essere soltanto mediatici, speculari alle messe in scena dell’ex ministro dell’interno. Il rischio è concreto, ma finora le piazze hanno incarnato l’incrocio tra reale e virtuale col quale sono fatte le nostre vite.
Qui entra in gioco la dimensione urbana. La questione degli spazi da riprendersi e delle città da occupare è decisiva. Nel giro di pochi anni, la Lega è riuscita a diventare egemone nel campo del centrodestra, emancipandosi dalle origini di partito territoriale, proprio cavalcando lo scenario mediatico che indipendentemente da essa ha amplificato una forma specifica di paura legata alla città e agli spettri che da sempre evoca presso reazionari e benpensanti: la convivenza tra diversi, la vita negli spazi pubblici, la messa in comune delle singole esistenze da sempre turbano le destre.
Si noti ad esempio che l’ascesa elettorale di Salvini è inversamente proporzionale alla chiusura delle sezioni della vecchia Lega di Umberto Bossi. Significa che la sua attività si è fatta spettacolare come le fobie che invoca, lungi dal rappresentare il radicamento sociale che i leghisti spesso millantano. Dunque, la presenza materiale e al tempo stesso spettacolarizzata, di una piazza senza simboli di partito, costituita dall’unione di uomini e donne che si incontrano per togliere letteralmente il terreno sotto i piedi a Salvini e all’avanzata leghista, è antidoto primordiale eppure potentissimo a quelle inquietudini.
Secondo alcuni l’anomalia di questo movimento risiederebbe nel fatto che contesta chi sta all’opposizione e non chi governa. Al netto di manovre elettoralistiche più o meno sotterranee, non bisogna dimenticare che viviamo in un paese in cui il volume del chiacchiericcio politico e della spettacolarizzazione dello scontro tra schieramenti si accompagna all’inconcludenza della politica, all’incapacità di incidere da parte degli eletti sulle vite dei comuni cittadini. In questo teatrino, è facile cadere in una concezione molto limitata del potere e di chi lo esercita, che impedisce di cogliere che il senso comune leghista oggi stia all’opposizione in parlamento ma abbia ampiamente contagiato parte del tessuto sociale, del discorso pubblico e persino della compagine di governo che a esso vorrebbe contrapporsi e che in nome dell’opposizione al leghismo ha messo insieme una maggioranza variegata e contraddittoria.
Allo stesso modo, bisogna avere un’idea caricaturale e limitata dell’antirazzismo per non capire come esso, assieme al femminismo e alle nuove lotte ambientali per citare i due maggiori movimenti di questi mesi, attraversi lo spettro dei conflitti sociali che abbiamo sotto gli occhi, quelli potenziali e quelli in atto, e non si riduca a una pure doverosa attività di vigilanza dei neofascismi. Ogni volta che ci abituiamo a considerare normale che un laureato in fisica nucleare svolga mansioni umilissime e sia sottopagato solo perché «straniero» o ci sembra fisiologico che un quartiere delle nostre città venga posto sotto attenzioni speciali perché vissuto da persone di altre etnie, ci accorgiamo quanto il razzismo molecolare abbia scavato dentro le nostre coscienze. Da questo punto di vista il razzismo, pericoloso quanto fumettistico, dei nazisti dell’Illinois è soltanto la punta di un iceberg più grande che ha conquistato ampi consensi presso la Lega e il centrodestra e che sposta l’asticella della tolleranza alla xenofobia nell’agone della politica istituzionale.
Queste piazze manifestano contro il populismo perché – come emerge dal prossimo numero di Jacobin Italia in uscita il 5 dicembre – un po’ ovunque in Europa ma soprattutto da noi il momento populista ha finito per rimettere in gioco le destre. Quello che spaventa e confonde gli attori politici, tuttavia, è il tratto più profondo del dichiarato «anti-populismo» di chi scende in piazza, che corrisponde a una composizione sociale e culturale complessa dei manifestanti, che si rivela tutto il contrario della costruzione di un’identità rigida e pre-definita, di un noi contro un loro.
È un bel paradosso per un movimento nato esplicitamente contro qualcuno e allo stesso tempo è una caratteristica che rende quasi impossibile qualsiasi strumentalizzazione di questi fenomeni in chiave elettorale, per lo meno in forme durature e strutturate. E proprio sulla forza di uno stile comunicativo e politico aperto ma radicalmente schierato probabilmente si gioca il destino di ogni movimento. Ecco perché le sardine ci riguardano.
*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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