Ripartire dalle fondamenta
Durante le crisi emerge spesso una critica dell’economia dominante tanto diffusa quanto disarmata. In tanti rivalutano le attività essenziali e l’intervento pubblico, ma la sfida è rifondare a tutto tondo il sistema economico.
La realtà che viviamo è attanagliata da crescenti ingiustizie sociali, razzismo, guerre tra poveri, distruzione ecologica. Le idee su cui far ripartire un progetto di cambiamento sono da reinventare. Anche perché oltre alla fine della sinistra in questi anni abbiamo assistito a profondi mutamenti, tecnologici e produttivi, economici e finanziari, che hanno condotto anche a un sovvertimento degli equilibri internazionali. Alle spalle, insomma, non c’è solo la sconfitta del comunismo reale e della socialdemocrazia, ma anche l’imporsi di un mondo che prima non conoscevamo. Intento di questa rivista non è quello di aspettare un nuovo Marx all’orizzonte, ma di mettere in relazione, assorbire istanze differenti, costruire un nuovo mosaico per il cambiamento, trovare tasselli di un percorso politico. Per questo abbiamo incontrato il Collettivo per l’Economia Fondamentale, che da qualche anno su scala sovranazionale prova a riflettere su possibili cambiamenti dell’economia e del modo di fare impresa.
Innanzitutto perché e dove nascete? Quale è la vostra storia?
Siamo un collettivo che ha membri attivi in molti paesi europei, tra cui Germania, Inghilterra, Italia, Austria, Spagna e Olanda. Abbiamo molte storie ma l’orientamento è comune. Il nostro primo Manifesto per l’Economia Fondamentale è nato nel 2013 a Manchester da una discussione che ha coinvolto un gruppo di ricercatori inglesi, italiani e spagnoli legati al Centro di Ricerca sul Cambiamento Socio-Culturale (Cresc) dell’Università di Manchester. Eravamo preoccupati da come le politiche economiche diventate mainstream negli anni Ottanta e Novanta – l’esperimento neoliberale – non stessero affatto diffondendo prosperità come promesso dai loro sostenitori. Piuttosto, stavano generando forti disuguaglianze sociali e territoriali, oltre a danni ambientali. Molti di noi si sono fatti le ossa studiando la finanziarizzazione dell’economia e delle imprese. Quest’esperienza ci ha aiutato a comprendere che, molto spesso, all’origine del declino socio-economico a cui stiamo assistendo in Europa ci sono i modelli di business seguiti dagli attori economici. Il fallimento dell’economia fondamentale – ossia di quei settori dell’economia che tutti i giorni ci danno accesso alle cure mediche, al cibo, alla casa, ai trasporti e all’energia elettrica – inizia quando essa viene interpretata come uno spazio economico in cui è lecito perseguire la massimizzazione dei profitti (o del rendimento del capitale) nel breve periodo. Noi pensiamo invece che quando si parla di casa, di trasporto pubblico, di alimentazione e di sanità ci vogliano dei modelli di business low profit o no profit, che mettano invece al centro la qualità del servizio e delle giuste retribuzioni per chi ci lavora. Il contrario di quello che è stato il trend degli ultimi decenni.
Allora partiamo dalla fine. Gli eventi di questi ultimi mesi sono stati contraddistinti da un fenomeno imponente che con tutta probabilità cambierà, almeno in parte, le forme della nostra vita, oltre che l’ambiente economico che ci circonda. La crisi sanitaria ha dato vita a una nuova crisi economica dalla profondità davvero inusuale, che probabilmente supererà le crisi precedenti. Da quella del 2008 fino a quella del 1929. Per dare solo un’idea, la Banca centrale britannica prevede entro fine anno un crollo del Pil del 14%, cioè un valore che non si registrava da circa 300 anni. Anche se la Banca d’Inghilterra è diventata famosa per le sue previsioni catastrofiche, basti pensare al disastro annunciato in caso di vittoria dei Brexit nel referendum del 2016, indubbiamente i dati negativi convergono da più parti in maniera preoccupante. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha annunciato una recessione globale per il 2020 pari a -3% (nel 2009 era stata solo -0,1%), con punte significative in paesi come la Germania dove si ipotizza un -7%. La stessa Cina sembrerebbe poter quasi azzerare la sua crescita. Il vostro Collettivo già a marzo scriveva una piattaforma dal titolo Cosa accadrà dopo la pandemia? in cui sottolineavate che «il perimetro dell’economia fondamentale lo sta mostrando in termini pragmatici la pandemia, attraverso l’elenco delle attività che, durante l’emergenza non possono essere fermate». Una sorta di prova del nove di quali siano i comparti dell’economia, spesso dimenticati, ma che proprio in questi tempi eccezionali disvelano la loro centralità per le persone comuni. Un passaggio che, seppur nella sua drammaticità, potrebbe contribuire a riordinare una nuova gerarchia di priorità in campo economico e non solo. Come se si aprisse un nuovo spazio economico. Che ne dite?
Sì e no. Sì, perché la pandemia sta mostrando a tutti – anche solo intuitivamente – l’importanza della solidarietà e della giustizia in campo economico, rendendo le persone più consapevoli di quanto sia iniquo e disfunzionale l’attuale sistema. Stiamo tutti rivalutando le attività fondamentali: quelle che non si possono fermare neanche durante l’emergenza, perché forniscono beni e servizi essenziali. Riscopriamo che dalla qualità e accessibilità di questi beni e servizi di base – come la sanità, il cibo, la casa, le telecomunicazioni e la mobilità – dipende gran parte della qualità della nostra vita e percepiamo che non è giusto che i lavoratori di questi settori così importanti – i cassieri dei supermercati, gli infermieri e molti altri – siano sottopagati nonostante svolgano compiti essenziali per la società e, in questo momento, così rischiosi. Tutto questo mentre grandi imprese multinazionali che poco contribuiscono al benessere sociale compiono scelte economiche socialmente scellerate, fanno enormi profitti, hanno sede fiscale fuori dall’Italia in paesi dove la tassazione è bassa e strapagano i loro manager. Inoltre, la pandemia in fondo ha rilegittimato l’intervento pubblico in economia, decostruendo l’immagine neoliberale dell’economia come una sfera sottoposta a leggi proprie da non alterare, già messa in discussione dai salvataggi pubblici delle banche in seguito alla crisi del 2008.
Tutto questo sta evidentemente aprendo uno spazio politico-economico inedito, ma, come nel caso della crisi del 2008, la pandemia può anche chiuderlo. Questo periodo di chiusure sarà seguito da una forte e prolungata recessione, che riduce la produzione e incrementa la disoccupazione e offre opportunità anche a forze politiche conservatrici. Il debito pubblico crescerà dopo i salvataggi delle imprese e i sussidi ai lavoratori, e i profitti saranno bassi. In queste condizioni è improbabile che arrivino automaticamente investimenti per migliorare l’economia fondamentale per chi ci lavora e per i cittadini che ne usufruiscono. Le grandi imprese private stanno esercitando pressioni fortissime per essere destinatarie pressoché esclusive dei flussi di denaro pubblico, possibilmente radendo al suolo quel che resta del sistema delle tutele del lavoro. Il lavoro di delegittimazione e denigrazione messo in campo dalla stampa mainstream nei confronti del settore pubblico è più intenso che mai.
Sono d’accordo che il portato di questa nuova crisi è ambivalente. Da un lato le difficoltà aumentano in relazione al fatto che la crisi precedente non si era ancora conclusa. Quest’ultima, poi, non è semplicemente il portato di un’emergenza sanitaria, semmai la pandemia è stata il detonatore di una crisi che molti analisti paventavano da un po’ di tempo. Dall’altro, però, come la gran parte delle crisi, comprime i ritmi di accumulazione, riduce la ricchezza e di conseguenza la sua distribuzione. Insomma durante le crisi emerge una critica dell’economia dominante diffusa quanto disarmata. In quest’epoca, inoltre, alle contraddizioni strettamente materiali vanno aggiunte quelle politiche. All’orizzonte non si vede un’opzione critica credibile, in grado di proporre un’alternativa. Un modello economico differente s’impone quando esiste una politica, un progetto che rende anche solo pensabile e coerente il cambiamento. Su questo siamo molto indietro. Un tempo si sarebbe affermato che ci sono le condizioni oggettive, ma non quelle soggettive. La strada per costruire le fondamenta di un progetto è ancora molto accidentata. Voi però provate a riprendere il filo sul piano intellettuale, cercando al contempo di trovare energie da realtà ed esperimenti in carne e ossa.
Sì, in questo momento in tutta Europa esistono moltissimi esperimenti che prefigurano dinamiche economiche alternative in campo abitativo, alimentare, energetico, nei servizi avanzati e in quelli pubblici, alcuni dei quali molto progrediti per scala e complessità. Tra i casi che hanno avuto l’esposizione mediatica più forte c’è sicuramente la Barcellona di Ada Colau, che ha avuto il coraggio di fare politiche dirompenti per una metropoli globale, come creare un’azienda municipale di distribuzione dell’energia elettrica per contrastare la povertà energetica, bloccare gli sfratti e al contempo varare un piano ambizioso per la creazione di un patrimonio di edilizia pubblica e sociale. L’obiettivo dichiarato qui non è solo far fronte all’emergenza, ma progressivamente portare Barcellona verso un nuovo modello abitativo dove gli alloggi popolari e sociali di qualità costituiranno in modo strutturale il 30% del patrimonio edilizio.
Sempre parlando di politiche abitative, anche Berlino dopo la fase neoliberale degli anni 2000 sta invertendo rotta. L’ordinamento tedesco attribuisce alle città grandi poteri di regolazione e di intervento. E sullo sfondo dei forti movimenti anti-gentrificazione, la città ha reintrodotto il blocco degli affitti, ha usato lo strumento dell’espropriazione per ricreare il patrimonio edilizio pubblico e ha varato un piano casa che si aggira intorno all’impressionante cifra di 300.000 alloggi. Ciò significa che il piano riguarderà quasi un milione di persone, più dell’intera popolazione residente del Comune di Torino (870.000 circa) e un po’ meno di quella del Comune di Milano (1,3 milioni).
Negli ultimi mesi si è parlato anche di Amsterdam, che ha deciso di ripensare la nuova strategia di sviluppo a partire dalla «ciambella» dell’economista eterodossa Kate Raworth. Quindi non più crescita e competitività, ma soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutta la popolazione e riduzione dell’impronta ecologica come parole chiave. E non bisogna dimenticare che oltre questi casi eclatanti ci sono moltissime città piccole e medie che stanno facendo cose altrettanto ambiziose. Gand in Belgio ha un piano di sviluppo basato sui beni comuni mentre Totnam in Inghilterra da anni ormai lavora orientandosi alla decrescita e alla ridistribuzione. Ancora non sappiamo quanto questi esperimenti saranno efficaci, ma è evidente che segnano un cambio di immaginario.
Mi sembrano riferimenti interessanti. Per certi aspetti costituiscono esempi che emergono dalle macerie del Novecento. Spingono da sotto, fuoriescono dal basso. Con più o meno spontaneità, ma costituiscono i primi esperimenti di controtendenze che materialmente si affermano. A parer mio scontano ancora una spinta prevalentemente d’opinione, da cui si cerca poi il riferimento al piano politico per sfondare, per attuare progetti di cambiamento. Mancano di una intrinseca forza capace da un lato di imporsi e insieme di sorreggere adeguatamente l’azione politica, anche istituzionale. Ma guai a buttar via qualcosa di simile, magari perché si ha un approccio eccessivamente teorico o, peggio, elitario. Verrebbe da dire che questi rappresentano laboratori post-ideologici. E la freschezza si vede proprio nello sperimentare, nel navigare a vista se vogliamo, rispetto ai problemi che abbiamo di fronte.
Ciò su cui però vorrei provare a riflettere con voi è un limite che vedo nella prospettiva dell’economia fondamentale. Concordo che sia urgente un progetto che rimetta al centro l’essere umano, i suoi bisogni e le sue necessità. Come concordo quando nel testo che presenta l’Economia Fondamentale (Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana, Einaudi 2019) si parla dell’importanza non solo del consumo individuale, ma di quello sociale, cioè di consumi pubblici che svolgono un ruolo di volano per l’intera economia. Penso alle infrastrutture ad esempio. Nel testo citato si fa esplicitamente riferimento al fatto che si potrebbe obiettare che servizi pubblici largamente intesi consumano ricchezza piuttosto che crearla. Tale assunto si dice che «è una convinzione ragionevolmente corretta e, allo stesso tempo, sostanzialmente fuorviante perché questi servizi sono finanziati da imposte e tasse; sostanzialmente fuorviante perché il confine fra produzione e consumo di gettito fiscale può essere modificato per volontà del legislatore attraverso lo spostamento di attività fra Stato e il settore privato, tramite privatizzazioni o nazionalizzazioni». Ma siamo sicuri che sia semplicemente un problema di confine? Una nuova società si può ipotizzare rafforzando la sfera pubblica, una sfera che, se estesa, potrà contribuire a creare ulteriore ricchezza, ma ho l’impressione che non sia sufficiente. La sfida è sì pensare a come recuperare centralità alla sfera pubblica, ma per risultare credibili e chiudere il cerchio vi è la necessità di rifondare un’economia a tutto tondo. Chi e come potrà produrre ricchezza? A quali condizioni? Con quali livelli di redistribuzione e al contempo con quali nuovi criteri di efficienza? Dilemmi ancor più complessi a cui naturalmente non è facile rispondere.
Siamo d’accordo che servono riforme strutturali – e non certo nel significato neoliberale del termine – per dare a questi esperimenti un carattere veramente trasformativo e farle diventare il «new normal». Ma non dobbiamo sottovalutare come alcuni degli esperimenti sopra citati hanno già raggiunto risultati strutturali sul piano locale assolutamente incredibili se confrontati con quello che avviene in Italia. In Italia non abbiamo ancora visto un piano casa di elevata qualità energetica, architettonica e urbanistica per un milione di persone in una città sola, come quello di Berlino. E non abbiamo ancora visto un’amministrazione comunale che blocca gli sfratti ed espropria patrimonio edilizio nell’ottica di una coerente visione politica e sociale, come a Barcellona.
Siamo abituati a pensare all’economia come qualcosa che serve gli interessi di qualcun altro – i mercati, l’efficienza, lo spread – per la quale noi dobbiamo fare dei sacrifici: lavorare di più, accettare tagli ai servizi, adeguarci a un aumento dei prezzi. Il concetto di economia fondamentale vuole ribaltare questa visione sottolineando che esiste una grandissima fetta dell’economia con una funzione eminentemente pubblica o collettiva, nel senso che ha come obiettivo dare salute, casa, alimentazione di qualità, possibilità di movimento e di accrescimento culturale a tutte e tutti. Quando questo non avviene – quando le persone non hanno accesso a servizi medici di qualità, come in molte regioni del Sud, oppure quando mutui e affitti superano di gran lunga gli stipendi, come in molte grandi città – allora l’economia non funziona e dobbiamo sentirci legittimati a cambiarla. È evidente che anche le economie che non si occupano di soddisfare bisogni fondamentali come cibo, salute e casa – per esempio le filiere del turismo o dell’intrattenimento – sono disfunzionali quando alimentano rendite, creano occupazione di bassa qualità, offrono prodotti accessibili a pochi. E poi l’emergenza ambientale e climatica ci presenta la necessità di ripensare tutta l’economia per riportarla entro quei limiti planetari che abbiamo sorpassato violentemente. Quindi, certo, la posta in gioco va oltre l’economia fondamentale e riguarda la riorganizzazione di tutta l’economia. Ma serve una strategia e qui l’economia fondamentale ci offre un solido punto di partenza, politicamente e socialmente. Politicamente perché esiste una tradizione consolidata – che il neoliberismo ha cercato di nascondere ma che sta riemergendo – di intervento e regolazione nei settori fondamentali per garantirne il buon funzionamento dal punto di vista collettivo. Socialmente perché servizi sanitari, casa, cibo, trasporti, educazione sono la base del benessere e un’economia fondamentale che funziona, in Italia come altrove, farebbe un’enorme differenza nella vita di milioni di famiglie. Quindi, iniziare dall’economia fondamentale è una scelta strategica che offre una base di legittimazione imprescindibile.
David Graeber, antropologo, militante del movimento no-global e anarchico recentemente scomparso, in un saggio di qualche anno fa dedicato al ruolo della Burocrazia nelle società attuali sottolineava come nell’Ottocento la nascita dello Stato sociale sia stata la risposta dall’alto del Cancelliere Bismark per contrastare la spinta che arrivava dal basso per la costituzione di uno Stato sociale. In quegli anni nelle fila del nascente movimento operaio si affermava un protagonismo di sindacati, cooperative, associazioni di quartiere, partiti, teso alla costituzione di assicurazioni sociali (previdenza, indennizzi per la disoccupazione e invalidità), ospedali pubblici, biblioteche e teatri, ecc. Una specie di spinta graduale e dal basso per costruire istituzioni di tipo socialista. Ciò che Bismark fece, sostiene Graeber, fu «annacquare» il programma socialista purgandolo di «qualsiasi elemento democratico e partecipativo».
Oggi per certi versi sembriamo tornati a quell’epoca, almeno per i compiti che attendono chi si pone in una prospettiva di ricostruzione di un’ipotesi di trasformazione dell’esistente. Con la differenza che non esiste una spinta adeguata nella direzione della costituzione di un welfare ed esiste un predominio del mercato incontrastato. Si pone, però, la necessità di costruire una nuova sfera di economia pubblica, un’economia che non può essere la riproposizione di quella dell’epoca keynesiano-fordista. Il modello passato non mi pare più fruibile. Esiste un problema di trasparenza, controllo e, perché no, efficienza. Vale la pena misurarsi con tali criticità. Vanno ipotizzate risposte che agiscono su molteplici livelli. Se devo immaginare una nuova economia pubblica la immagino come la risultante di un’economia statale coniugata con un’economia dal basso, un’economia del comune, basata su organismi collettivi, magari anche spontanei, ma più aderenti a una realtà sociale e culturale in continuo movimento. Insomma l’alternativa o sarà molteplice oppure non sarà. Che ne pensate?
Certo, l’alternativa secca fra pubblico e privato è un’opposizione manichea che si replica sistematicamente, ma è sterile. La vita economica è plurale. Non possiamo pensare che la soluzione alle deformazioni dell’azione pubblica sia la privatizzazione, ma neanche che la soluzione universale alle derive dei privati sia la gestione statale. Esistono molti tipi di attività private, alcune spregiudicatamente orientate al profitto, altre radicate sul territorio e con una visione sociale. Allo stesso tempo esiste una varietà di economie pubbliche, alcune estremamente burocratizzate e sclerotizzate, altre dinamiche, trasparenti e imprenditoriali nel miglior senso del termine. E poi ci sono le infinite varianti dell’economia sociale. Anche qui abbiamo esempi molto interessanti e casi disastrosi, dove i principi cooperativi sono stati sostanzialmente dimenticati.
Proporre ricette universalmente valide, quindi, non è sensato. Piuttosto, occorre sperimentare alternative, mantenendo un quadro di principi di riferimento. Il primo principio sul quale insistiamo è che non è tollerabile subordinare le attività economiche fondamentali alla logica dell’estrazione di valore, che ha preso piede da quando i mercati finanziari hanno riacquisito un ruolo centrale nelle dinamiche di accumulazione. Dobbiamo emancipare l’economia fondamentale da questa condizione di servitù. Per questo scopo non esiste un’unica ricetta, una soluzione. Ci sono invece molti percorsi possibili. Per ogni settore, ci sono forme di regolazione, di organizzazione, di gestione che funzionano meglio, e che di volta in volta possono coinvolgere la mano pubblica, i privati, la cooperazione. Non dobbiamo feticizzare un modello, ma capire qual è la strada più adatta a perseguire gli obiettivi sociali che ci poniamo.
La storia del secolo scorso ci offre insegnamenti importanti. Pensiamo a quanto rilevanti possano essere ancora le politiche elaborate nella stagione del socialismo municipale all’inizio del Novecento: edilizia residenziale pubblica, trasporti urbani, illuminazione pubblica. E dopo decenni di neoliberismo, è comprensibile che si possa rimpiangere il compromesso fordista. Ma non bisogna dimenticare – come ha giustamente notato Graeber – che quel patto sociale ha delle radici problematiche e che sarebbe incompatibile con molti connotati del presente: la necessità di porre un limite alla crescita economica e preservare gli ecosistemi naturali, l’inaccettabilità delle discriminazioni razziali e di genere, il bisogno di una democrazia più profonda e quindi di processi di partecipazione e non di mero coinvolgimento.
La specificità del nostro lavoro è sviluppare analisi e proposte di trasformazione settore per settore, radicate nelle sfide presenti e future – non riproporre vecchi modelli. Il tutto mantenendo un quadro di principi di riferimento: comprimere la rendita, mettere il benessere reale delle famiglie e della società sopra la ricerca del profitto, introdurre vincoli e obiettivi ambientali nei processi produttivi e di consumo, dare priorità all’uso collettivo rispetto al consumo individuale.
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre). Per il Collettivo per l’Economia Fondamentale hanno partecipato a questo dialogo Luca Calafati, Julie Freud, Angelo Salento, Karel Williams.
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