Roma Calenda est?
Per la capitale, arriva la candidatura del figlio della buona borghesia, un «liberista pentito» che ripropone le ricette liberiste, uno che si considera nemico di sovranisti e populisti ma ne riecheggia gli slogan
«Se mi candidassi a sindaco di Roma sarei un cialtrone», disse Carlo Calenda nel febbraio del 2018, e in effetti poco più di due anni dopo ha ufficializzato la sua candidatura.
Il leader di Azione, partito da lui fondato accreditato al 2% nei sondaggi e che conta un senatore ex renziano, Matteo Richetti, e due deputati, di cui uno fuoriuscito dal gruppo di Forza Italia e un transfuga dei Cinque stelle, ha deciso: «candidarsi è un dovere». Pur essendo uscito polemicamente dal Pd dopo un anno dall’iscrizione e opponendosi al governo di cui il Pd è parte, voleva che il Partito democratico appoggiasse la sua candidatura senza nemmeno fare le primarie. Del resto Calenda non è uno abituato a sudarsi troppo le cose nella vita.
Il ragazzo della buona borghesia
Nato nel 1973 a Roma nell’elegante quartiere Africano, a undici anni è già protagonista della serie Tv Cuore, ispirata al romanzo di Edmondo De Amicis, diretta da suo nonno Luigi Comencini e sceneggiata da sua mamma Cristina Comencini, dove interpreta una parte non così difficile per lui: quella di Enrico Bottini, il bimbo della buona borghesia. Dopo aver frequentato le elementari alla scuola Montessori di via Santa Maria Goretti e le medie in una sperimentale a villa Ada, si iscrive al liceo Mamiani ma – come racconta in un’intervista a Repubblica – viene subito bocciato e recupera l’anno in una «scuola-esamificio» per poi prendere il diploma in un liceo privato.
Dopo una laurea in giurisprudenza con voti non proprio brillanti, a soli 25 anni entra in Ferrari sotto l’ala protettiva di un caro amico di suo padre Fabio – prima dirigente alla Banca di Roma poi giornalista finanziario – dal nome di Luca Cordero di Montezemolo. Quando Montezemolo diventa presidente di Confindustria, Calenda diviene assistente del presidente, e sempre con il movimento Italia Futura di Montezemolo inizia nel 2012 il suo impegno in politica, che poi confluisce nella sua candidatura con la lista Scelta civica di Mario Monti. In quota Scelta Civica diventa viceministro allo Sviluppo economico del governo Letta e poi ministro con i governi Renzi e Gentiloni. Nel mezzo anche un incarico nel 2016 da rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea, cosa che creò qualche polemica perché solitamente riservato ai diplomatici di carriera. Ma in fondo suo nonno paterno – Carlo anche lui – era un ambasciatore.
Nonostante tutto però Calenda insiste sempre che la politica non dovrebbe affidarsi alle ideologie o visioni del mondo, ma alla competenza delle persone.
Odio e amore per populisti e sovranisti
Si considera il nemico numero uno di sovranisti e populisti, di Luigi Di Maio quanto di Matteo Salvini, eppure nel suo ultimo libro, I mostri. E come sconfiggerli, riecheggiano continuamente i due slogan identitari portati avanti proprio da Lega e Cinque stelle.
Il suo cruccio principale, che percorre tutto il libro, è infatti che nel nostro paese l’essere di destra o di sinistra continui a rappresentare la discriminante più rilevante attorno a cui si dividono gli elettori e le appartenenze politiche. «Quante volte – scrive amaramente – mi sono sentito dire ‘Concordo con lei su tutto ma sono di sinistra/destra’ a seconda dell’interlocutore». Si scaglia in particolare contro chi vede a destra un pericolo fascista perché, spiega, «il rischio del ritorno al fascismo non esiste quello dell’involuzione verso una democrazia illiberale sì».
I mostri del nostro paese sono quindi secondo lui prodotti dalla mancata convergenza di destra e sinistra in difesa della democrazia liberale, mentre «in modo naturale in molti altri paesi europei» governano insieme qui da noi si accusano a vicenda di essere… di destra e di sinistra.
Il suo ragionamento inizia in effetti con una constatazione difficilmente contestabile, ossia che «a ben vedere, la distanza tra le politiche del centrodestra e quelle del centrosinistra nella Seconda repubblica è stata, almeno sino alla fine dell’era Berlusconi, piuttosto lieve […] è difficile cogliere differenze sostanziali […] ma i toni sono stati quelli di una guerra civile». Rovesciando però causa ed effetto, sostiene che non sia stata questa sostanziale convergenza ad aver prodotto negli ultimi anni la crisi delle culture politiche e dei partiti tradizionali e la nascita dell’antipolitica, ma al contrario che i toni di reciproca delegittimazione tra destra e sinistra abbiano prodotto i mostri del sovranismo e del populismo. Del resto, dice Calenda nella parodia di Maurizio Crozza, «io delle cozze scarto il dentro».
Ad ogni modo i veri rischi per la democrazia secondo Calenda non vengono da destra. Il vero pericolo sono coloro che hanno difeso la Costituzione contro la riforma proposta da Matteo Renzi perché, sostiene, «salvare la democrazia dai democratici è il compito più difficile».
Oltre al tradizionale slogan grillino «né di destra né di sinistra», nel suo libro risuona anche il celebre motto di Salvini: «prima gli italiani». Secondo Calenda infatti solo una sinistra autolesionista poteva trasformarlo in uno slogan pericoloso, perché «‘prima gli italiani’, versione nostrana di ‘America first’, altro non è che la constatazione di un’evidenza. Si governa nell’interesse dei cittadini, nel nostro caso dei cittadini italiani». E più avanti precisa ancora meglio la sua critica, in un passo che però sembra proprio copiato da qualche documento della Lega o da un articolo di Diego Fusaro: «I progressisti hanno concentrato tutti i loro sforzi nella difesa dei diritti delle minoranze (religiose, razziali, lgbt ecc.), facendo sentire ancora più esclusa la maggioranza, impoverita e trascurata, dei cittadini».
Altra accusa non così originale alla sinistra – che a dire il vero è abbastanza condivisa dentro al Pd a partire dall’ex ministro dell’interno Marco Minniti – è sull’incapacità di affrontare pragmaticamente il tema immigrazione, che invece verrebbe a suo dire posto «solo sul piano morale, con appelli alla bontà d’animo e alla necessità di accogliere […] e gli italiani meno abbienti, tra i quali i migranti trovano naturalmente posto, si sentono sempre meno accolti». Per questo si scaglia contro chi bolla come razzista qualsiasi reazione contro i migranti, «anche quando è determinata dalla disperazione della condizione dei residenti», dice senza spiegare quale relazione dovrebbe esserci tra la disperazione dei residenti e il fenomeno migratorio. Del resto, una delle frasi più illuminanti del suo libro, esposta come una vera e propria legge, è che «in politica vince sempre chi dimostra di comprendere la paura, rispetto a chi tenta di esorcizzarla».
Il liberismo è una cazzata, viva il liberismo
Va però riconosciuto a Calenda di essere incline all’autocritica. Un anno fa, dopo esser passato a una manifestazione dei lavoratori dell’Embraco, davanti a un operaio di cinquant’anni che lo accusa di avere sulla coscienza 409 lavoratori, ha una specie di illuminazione: «Io per trent’anni ho ripetuto tutte le banalità che si sono dette nel liberismo economico. Poi quando ho avuto davanti l’operaio dell’Embraco ho capito che erano una gran cazzata».
Il problema è che dopo aver ripetuto tali «cazzate» per trent’anni, nel suo libro non fa grandi progressi. Ci si poteva aspettare che tale illuminazione lo portasse a proporre nuove tassazioni progressive sui redditi per permettere allo stato di intervenire nell’economia, redistribuire la ricchezza e non lasciare tutto in mano al libero mercato. L’unico problema che pone invece è di abbandonare le visioni complessive – siano esse socialiste o liberiste – per interpretare la politica come «arte di governo», attuando solo le politiche concretamente implementabili, come farebbe insomma un qualunque management aziendale. Dando però per fisso e immutabile non solo l’attuale sistema produttivo e sociale ma anche lo stesso bilancio dello Stato, per cui ogni scelta ne esclude un’altra: o si va in pensione a 65 anni o si viene curati e si manda i figli a scuola. Solo per un attimo gli viene in mente che qualcuno potrebbe suggerirgli di permettere entrambe le cose cambiando ad esempio il sistema di tassazione, e allora scrive: «L’unica via per ridurre il debito tutto in una volta sarebbe una gigantesca patrimoniale». Ma risponde subito con una delle «cazzate» già sostenute per trent’anni, ossia che una patrimoniale che tassi le grandi ricchezze per redistribuirle in servizi e lavoro per chi non ce l’ha «porterebbe il paese in recessione per anni». Il perché arrivi tale recessione non è dato saperlo, ma senza dubbio è una cosa che aveva sentito dire da Montezemolo.
I mostri su Roma
In quale modo tali idee innovative si traducano in proposte per una città come Roma al momento non è chiaro, e quel poco che abbiamo sentito è senza dubbio un programma di destra. Per ora Calenda è infatti solo riuscito a ripetere l’ideologia del decoro della città, parlando del problema degli imbrattatori di muri che si spacciano per artisti e dei migranti che «bighellonano» senza meta per le strade, riproponendo una cultura classista di gestione della povertà nelle città di cui non è certo l’ideatore.
Roma viene da un disastro profondo, che per reazione portò cinque anni fa alla netta vittoria di Virginia Raggi, con i Cinque stelle che promettevano maggior trasparenza negli atti amministrativi, coinvolgimento dei cittadini, più servizi nelle periferie e una svolta ecologista basata su investimenti sul funzionamento della città e non sulle grandi opere inutili. Nulla di tutto questo è stato fatto dalla giunta Raggi e oggi Roma si avvicina alle elezioni priva anche di illusioni.
Le diseguaglianze negli ultimi vent’anni basati sull’ipotesi neoliberista di crescita della città sono aumentate a dismisura, in uno spazio urbano privatizzato, pensato per il profitto dei costruttori e non per la tutela dei beni comuni, messo a servizio del turismo poi sparito da un giorno all’altro a causa della pandemia, mentre i trasporti, la gestione dei rifiuti, gli spazi verdi e le politiche sociali continuano a peggiorare.
Tutti sembrano aver timore di amministrare la capitale: «Chiunque fa il sindaco di Roma si brucia», è il ritornello che circola tra i principali esponenti politici di destra e di sinistra. E proprio grazie a questo ritornello, frutto dell’assenza di idee alternative di città, diventa credibile come candidato un personaggio come Calenda, con il Partito democratico che non riesce a convincere nessun proprio esponente di peso a candidarsi, esitando forse anche di fronte alla necessità di presentare una candidatura contro Virginia Raggi proprio mentre predica alleanze con i Cinque stelle a livello amministrativo.
Ci sarebbe bisogno di una profonda inversione di tendenza, di un ripensamento urbanistico della città, di investimenti massicci nei servizi sociali e nei beni comuni, di un Green new deal cittadino. Ma per «sconfiggere i mostri», quelli veri, bisogna guardare altrove, a partire dalle molte esperienze sociali e culturali minacciate di sgombero che durante il lockdown hanno rappresentato attraverso il mutualismo un argine conflittuale all’individualismo e alla solitudine sociale.
*Giulio Calella, Cofondatore di Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia.
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