
Se al metano diamo (ancora) una mano
L’Enel ha presentato progetti di nuove centrali a gas in tutto il paese con l’approvazione e il finanziamento dei governi Conte e Draghi, con buona pace della transizione ecologica che ci dovrebbe assicurare il ministro Cingolani
Lo scorso 20 maggio si è svolta, ancora una volta a porte chiuse causa pandemia, l’assemblea degli azionisti di Enel, l’azienda che nel 2000 è diventata la prima multinazionale italiana per capitalizzazione, soffrendo meno di Eni del temporaneo crollo del prezzo del greggio. Enel è un gigante europeo con propaggini globali e dal 2014, sotto la guida dell’ad Francesco Starace, è diventata il pupillo dei mercati finanziari e dei sostenitori della transizione green nel comparto energetico. Dopo l’impegno per una decarbonizzazione del gruppo entro il 2050, nel 2018 di fronte agli azionisti Starace si era impegnato a uscire dal carbone entro il 2030 – data poi anticipata al 2027 – e a non investire più in nuovi impianti fossili. Ma a Starace è bastato un anno per macchiare la sua uscita dal fossile con una scelta non troppo trascurabile proprio in Italia.
L’Enel ha infatti presentato progetti di nuove centrali a gas per poco meno della potenza totale di settemila megawatt degli impianti a carbone da chiudere entro il 2025, come stabilito dal governo nel 2017. Centrali da far sorgere per la gran parte proprio nei siti industriali oggi inquinati dalla combustione della polvere nera. Parliamo di Brindisi, Civitavecchia, La Spezia e Fusina. Le valutazioni di impatto ambientale devono ancora essere approvate, ma la posizione di Enel risulta inamovibile.
Così, se da una parte a livello europeo Enel si fregia di guidare le lobby per le rinnovabili e le soluzioni pulite, investendo molto a livello globale sulle tecnologie pulite e accettando la chiusura definitiva degli impianti a carbone, proprio a casa sua sceglie con forza la via del gas, il tutto con l’approvazione dei governi Conte I e II e ora anche di quello guidato da Mario Draghi, per buona pace della transizione ecologica che ci dovrebbe assicurare il ministro Roberto Cingolani.
Per capire perché Enel rischia di macchiare così tanto la sua immagine green è necessario esaminare chi in ultima istanza pagherà questi impianti, che per coerenza con la strategia di decarbonizzazione della stessa Enel per far fronte alla sfida climatica difficilmente potrebbero avere una vita più lunga di 15-20 anni. Il gas, erroneamente chiamato «naturale», è infatti un combustibile fossile e una volta bruciato emette la CO₂ responsabile del riscaldamento globale, anche se meno del carbone. Ma gli impianti a gas, e il suo trasporto, comportano anche fughe di metano significative, la cui persistenza in atmosfera è molto più lunga della CO₂, da cui un potenziale di riscaldamento di cento volte superiore alla CO₂ nel corso di dieci anni e di 87 volte in vent’anni, anche se molti lo dimenticano.
Insomma, qualsiasi investitore oggi direbbe che costruire nuove centrali a gas con una durata di vita così limitata difficilmente ripagherebbe l’investimento, a meno che non arrivino degli aiuti. Proprio quest’estate, il governo dovrebbe assegnare due nuove gare del meccanismo di mercato della capacità elettrica, noto in inglese come capacity market e che consiste in lauti sussidi pagati per ogni megawatt di potenza installata a chi la mette a disposizione del gestore di rete come riserva, pronta a essere attivata quando necessario. Come se il gestore affittasse questi impianti e poi chiedesse di azionarli per un numero di ore limitato. Un buon affare per chi vuole costruire nuovi impianti sapendo che non avranno lunga vita.
Viene da chiedersi perché questa presunta potenza di riserva debba essere per forza alimentata a gas. Per capire quanto il Capacity Market sia stato rilevante per un nuovo rilancio delle centrali a gas è opportuno chiamare in causa una delle analisi più recenti sulle caratteristiche dei nuovi impianti. In un’indagine diffusa a marzo 2021, Carbon Tracker ha mappato i progetti del comparto gas per l’Italia. Secondo lo studio, gli impianti in via di realizzazione ammontano a 19 unità con una capacità complessiva di 14,5 gigawatt. Enel fa la parte del leone con 7 nuove installazioni previste per un apporto stimato di quasi 6,8 gigawatt. A seguire, nell’ordine, Eph (quasi 2 gigawatt), Engie (1,8) ed Électricité de France (1,66).
TABELLA 8 – I principali promotori dei progetti
Società | Capacità (MW) |
Enel SpA | 6.780 |
Eph | 1.993 |
Engie SA, Energia Italiana | 1.800 |
Électricité de France (Edf) | 1.660 |
Calenia Energia SpA | 940 |
A2A Energiefuture SpA | 858 |
F2i, Asterion | 330 |
Enipower SpA | 130 |
14.491 |
L’aspetto più problematico, sottolinea sempre Carbon Tracker, è dato dalla scarsa competitività degli impianti stessi, incapaci di reggere la concorrenza con le energie pulite. «I Clean Energy Portfolios (Cep), una combinazione di fonti di energia pulita e tecnologie flessibili, non sono solo più economici rispetto ai 14 gigawatt delle nuove centrali a gas – si legge nello studio – ma offrono anche lo stesso livello di servizi di rete». E ancora: «Investendo in nuovo gas, gli investitori si stanno esponendo a un rischio di stranded assets (o asset incagliati) per 11 miliardi di euro. Scegliendo l’energia pulita, al contrario, il risparmio annuale di CO₂ sarebbe pari a 18 milioni di tonnellate, equivalente al 6% delle emissioni totali del 2019». La vera anima del Capacity market si rivela così il sussidio di stato preferenziale per nuovi impianti a gas, che infatti sono «premiati» anche rispetto alle centrali termiche già esistenti.
Questi asset per loro stessa natura sono risorse incapaci di ripagare l’investimento e come tali destinate alla svalutazione. Inoltre nella maggior parte dei casi, la data di avvio delle operazioni per i nuovi impianti non è nota ma l’ingresso di questi ultimi nella categoria «stranded» è già avvenuto. Quindici impianti, in particolare, nascerebbero già non competitivi. A fare eccezione sarebbero le tre installazioni a ciclo aperto (Open Cycle Gas Turbines, Ocgts) per complessivi 680 megawatt progettate da F2i, Asterion (a Bertonico e Turano Lodigiano), Enipower (Ravenna) ed Eph (Trapani) e destinate a «incagliarsi» a partire dal 2034.
Ma entriamo più nello specifico: di quanti fondi stiamo parlando per invogliare le società a costruire centrali che dovrebbero restare spente gran parte del tempo? Si sono realizzate già due aste il 6 e il 28 novembre del 2019 con l’assegnazione dei contratti di opzione per agli anni di consegna 2022 e 2023. Le prossime aste saranno, come detto, celebrate nell’estate-autunno di quest’anno e si riferiscono al 2024 e al 2025. In entrambe le aste la capacità assegnata agli impianti alimentati da fonti rinnovabili non programmabili (eolico, solare, idrico fluente, idrico non fluente, pompaggio, bio-combustibili, geotermico e accumuli) rappresenta il 3% del totale. L’asta per il 2022, con un costo totale di 1,3 miliardi, ha assegnato 40,9 gigawatt, di cui 4,4 gigawatt all’estero. I principali beneficiari sono stati Enel (9,6 gigawatt), A2A (4,8 gigawatt) ed Edison (3,8 gigawatt). Nel dettaglio, il bando ha assegnato contratti per 34.758 megawatt di capacità esistente a un prezzo unitario di 33 mila euro per megawatt; a questi si aggiungono 1.767 megawatt di nuova capacità (1.401 relativa a progetti già autorizzati e 366 per iniziative in attesa di autorizzazione) a un prezzo più che doppio: ben 75 mila euro per megawatt.
Ma chi paga veramente? Nel giugno del 2019 il Ministero per lo sviluppo economico ha diffuso le sue stime sull’impatto del Capacity Market in termini di costi e benefici complessivi, ipotizzando un saldo netto positivo di circa 1,6 miliardi di euro all’anno «sulla base di simulazioni effettuate per l’anno 2022». L’ipotesi è però contestata. Secondo molti osservatori il Capacity market genera costi aggiuntivi che dovranno essere pagati dalle persone e dalle imprese. Secondo Arera, l’Autorità nazionale per l’energia e le reti, il sistema porterà il prezzo dell’energia al ribasso generando a conti fatti un saldo positivo ovvero un risparmio in bolletta. Come al solito le stime sono prodotte al rialzo quindi i numeri che abbiamo sono imprecisi e comunque indicano un risparmio per gli utenti di circa 200 milioni di euro, che sarebbe dato rispetto alla quota di capacity che gli utenti già hanno in bolletta. Il rischio all’orizzonte è che i risparmi attesi si scontrino con le perdite che il meccanismo potrebbe comportare generando un prezzo medio dell’energia fino a 50 euro al megawatt che sarebbe oltre il doppio del valore attuale.
Ciò che colpisce nella logica stessa del Capacity market è la sostanziale sottovalutazione della variabile tecnologica. Un atteggiamento particolarmente conservatore basato sull’assunto, sempre meno valido, della non programmabilità dell’offerta da parte della generazione rinnovabile. Risulta ormai anacronistico questo assioma che pare ispirare tuttora le scelte di Terna, il gestore della rete elettrica nazionale ad alta tensione, nella promozione del mercato della capacità e, soprattutto, nella sua strutturazione apertamente sbilanciata verso il gas. E i numeri lo dimostrano in modo evidente.
Dal punto di vista tecnico i sistemi di accumulo, ossia le batterie, applicabili agli impianti alimentati dalle fonti rinnovabili consentono un’efficace programmazione dell’offerta. A complicare le cose, storicamente, è la nota variabile dei costi. Ma il trend in discesa che caratterizza questi ultimi è ampiamente conclamato e le conseguenze sono già significative. Nell’agosto del 2019, uno studio a cura del Massachusetts Institute of Technology pubblicato sulla rivista Joule ha stimato che con un costo di accumulo pari a 150 dollari per kWh risulterebbe conveniente, ovvero competitivo e quindi praticabile, affidare agli operatori delle rinnovabili la quasi totalità dell’offerta di base sul mercato. Più nel dettaglio, rilevano i ricercatori, a un tale livello di prezzo sarebbe possibile lasciare a questi ultimi il compito di soddisfare il 95% del livello minimo di domanda sulla rete, lasciando ai produttori del settore fossile il restante 5%.
Alla luce del quadro internazionale e a fronte degli obiettivi di transizione, appare dunque necessario suggerire tanto al governo quanto al gestore della rete un deciso cambio di passo verso una visione più coerente con lo scenario tecnologico e le prospettive che comporta. A maggior ragione considerando che in un orizzonte di medio-lungo periodo la tecnologia offrirà soluzioni sempre più efficienti a costi inferiori. Sembra di essere ancora negli anni in cui i costi del solare ed eolico erano molto alti. Oggi i prezzi delle rinnovabili si sono abbassati rapidamente e non potrà che essere così anche per l’accumulo.
Secondo Anie Rinnovabili, al 30 ottobre 2020 in Italia risultavano installati sistemi di accumulo con una potenza complessiva di 170 megawatt e una capacità massima utilizzata di 267 Megawatt ora. Buona parte del mercato è legata al comparto residenziale con tutto quel che ne segue: il 99% dei sistemi presenta una taglia inferiore ai 20 kilowatt ora; il 44% ha una capacità non superiore ai 5 kilowatt ora. I numeri, insomma, appaiono notevolmente distanti dagli obiettivi fissati dal piano nazionale per l’energia e il clima, Pniec, che prevedono la realizzazione di sistemi di accumulo centralizzato per complessivi 1.000 megawatt entro il 2023. È inoltre evidente come l’Italia sia molto indietro su ricerca e sviluppo tecnologico in materia e purtroppo anche i fondi del recovery plan non vedono un cambio di strategia, favorendo la promessa dell’idrogeno – che nella stragrande maggioranza sarà anch’esso di fonte fossile e centralizzato nella sua produzione e trasporto – in luogo della piena elettrificazione e dell’accumulo diffuso.
Tornando a Enel, da cui siamo partiti, è allora un gioco da ragazzi vendere i 7.000 megawatt di nuovi impianti a gas come un’inevitabile scelta per rimpiazzare il carbone entro il 2025. Per evitare di pagare i costi di esose bonifiche dopo decenni di inquinamento di suoli e acque, si propone inoltre di costruire gran parte di questa nuova capacità nei siti delle vecchie centrali a carbone, posticipando ancora una volta una diversa destinazione d’uso di quei suoli e non mettendo fine alla logica odiosa delle «zone di sacrificio» del territorio italiano. Ovvero quelle aree il cui destino è produrre energia elettrica per il resto del paese, con tanta pace per l’ambiente locale e la salute della cittadinanza.
L’Enel di Starace può appellarsi alle richieste (retrograde e conservatrici) di Terna, o alle decisioni del governo italiano – da sempre ostaggio della triade dell’energia di Eni, Snam e appunto Enel – ma la verità è che la tanto decantata svolta verde di Enel si piega alle logiche del profitto fossile sicuro e a breve termine se paga lo Stato in nome di una «transizione ecologica» che non c’è. Così la storia si è capovolta: non è più il metano che ci dà una mano, come recitava un ben noto slogan degli anni Ottanta, ma noi ignari cittadini che diamo una mano a chi deve fare ancora profitti col metano. Contro il clima e le comunità locali.
*Filippo Taglieri, ricercatore e attivista di ReCommon dal 2017, lavora su campagne contro i combustibili fossili, soprattutto carbone e gas, e ha condotto ricerche sul campo, in particolare in America Latina, sugli impatti socio-ambientali delle industrie estrattive e delle grandi infrastrutture. Antonio Tricarico è tra i fondatori di Re:Common nel 2012. Ha lavorato sulle campagne Eni, Enel e contro il carbone e la finanza fossile, conducendo ricerche, inchieste e azioni di pressione sulle istituzioni.
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