Un uomo solo
La vicenda Soumahoro, sebbene strumentalizzata dalle destre, rivela che la trappola del leader carismatico ha di nuovo la meglio su anni di sconfitte e scompaginamento di organi collettivi
Si fa fatica a prendere posizione sul caso che riguarda Aboubakar Soumahoro. Quando si tratta dei «nostri» ovviamente le parole latitano, la difficoltà la fa da padrone e si rischia di non riuscire a dire una parola pubblica alimentando un ulteriore danno. Nel mondo della sinistra più o meno variegata, politica, sociale, istituzionale, di movimento, non ci sono prese di posizione definitive, eppure della vicenda si parla in ogni ambito di questo nostro stesso mondo. Tacere, dunque, potrebbe non essere la scelta più saggia.
Il tema, sgombriamo subito il campo dalla questione più spinosa e scomoda, non è tanto l’inchiesta giudiziaria anche se tutti i giudizi che circolano e che esprimeremo anche qui da quelle indagini dipendono. Le accuse sono gravi, i sospetti ancora di più, le indiscrezioni su altre vicende che riguardano fondi raccolti e non ancora resocontati sembrerebbero ancora più significative visto che coinvolgono l’attività pubblica del neo-deputato dell’Alleanza Rosso-verde (gruppo parlamentare dal quale, nel frattempo, si è sospeso). E quindi tutto questo ha un peso e dovrà necessariamente essere valutato.
Ma ci sono vicende in cui il «modo» di gestirle, l’approccio che si sceglie, i toni politici che si assumono, anche quelli della voce e dello sguardo, sono importanti. Perché sono il frutto di una visione della politica, di una determinazione a sgombrare il campo dai dubbi e costituiscono un appello alle coscienze frastornate affinché possano fugare quei dubbi e rendersi disponibili alla fiducia.
Diciamo subito che in questa difficile arte Soumahoro non ha brillato mai. Non aveva informato nessuno dei suoi tanti compagni di strada della vicenda delle cooperative di migranti gestite dalla suocera e dalla sua compagna ed è un aspetto simbolicamente stridente della vicenda: un simbolo della lotta dei migranti contro lo sfruttamento in grado di parlare di razzializzazione del lavoro e quindi di operare una sutura intersezionale nella lotta delle e dei migranti che è invischiato, più o meno direttamente, senza responsabilità accertate sia chiaro, nella gestione dell’accoglienza.
Per le destre che nel nostro paese vogliono fare tabula rasa su questo tema e rendere criminale l’accoglienza e la protezione – come dimostra la guerra senza tregua alle Ong che salvano vite in mare – l’occasione è stata tanto inaspettata quanto ghiotta. E infatti i loro giornali ci stanno sguazzando da giorni. Per la destra è un’occasione imperdibile – che spiega in parte un’esposizione mediatica della vicenda di questo livello – per poter dire che in fondo anche chi fa il buono è cattivo, che «rossi e neri sono tutti uguali», come in un film di Alberto Sordi.
A una simile esposizione non si può rispondere prima dicendo che non è vicenda che lo riguardi, poi con un video in cui, lacrime agli occhi e voce senza controllo, si lanciano accuse contro complotti immaginari (accuse poi ritirate), poi, ancora, con un’intervista ai principali quotidiani in cui ci si mette a disposizione per costruire «un nuovo tetto» quindi una nuova casa comune (l’ennesima) della sinistra, infine con alcune presenze televisive in cui si prendono apertamente le distanze dai propri familiari. Non è una gestione salda e serena, non è una modalità che trasmette fiducia e che possa tranquillizzare i tanti e le tante che in questa figura politica e nella sua candidatura alle ultime elezioni parlamentari hanno visto una speranza di cambiamento.
Qui c’è l’aspetto nevralgico della questione, quello che spiega lo spaesamento e l’avvilimento. Ancora una volta le ragioni del cambiamento, o forse solo ancora le ragioni degli ultimi e delle ultime, sono state trasferite a un uomo solo. Ancora una volta la trappola del leader carismatico ha avuto la meglio su anni di sconfitte e scompaginamento di organi collettivi, di strutture molteplici e democratiche in cui confrontarsi, scontrarsi, vivere insieme. Ancora una volta la fragilità della sinistra ha avuto bisogno di un’individualità a cui delegare totalmente le proprie speranze, le proprie aspettative, in uno scollamento tra i rappresentati e il rappresentante che tocca le vette altissime della figura mitologica dell’eroe. Ancora una volta «l’eroe» ha assunto sulle proprie spalle la fatica della lotta quotidiana, delle vittorie e delle sconfitte collettive, ergendosi a emblema, a figura simbolica unitaria in grado di assorbire un imprecisato e sterminato molteplice. Da qui l’arroganza di proporsi come ricostruttore di una nuova sinistra, la solitudine di presentarsi in parlamento con gli stivali da bracciante (scena al limite del populismo mediatico) ma senza i braccianti in carne e ossa, senza una comunità reale pensante, libera e collettiva a sostenerlo in modo organizzato. La solitudine dei numero uno, si potrebbe dire, se non sembrasse una sorta di carezza postuma a comportamenti che invece vanno criticati e capiti.
Soumahoro sembra ora solo, ma si è proposto come un uomo solo: incatenato da solo agli Stati generali indetti dal governo Conte per parlare di Recovery fund; da solo sulle copertine dei quotidiani e dei settimanali; da solo in tv a enfatizzare la propria capacità mediatica; da solo, con la famiglia, a gestire una vicenda in cui nessuno o nessuna dei suoi compagni e compagne ha mai avuto un qualche possibile ruolo. E solo oggi deve affrontare la devastante campagna accusatoria.
Questa storia, insomma, ancora una volta parla anche della sinistra, della sua debolezza, delle scorciatoie che cerca di prendere quando si accorge di essere senza gambe per marciare, senza braccia per lottare e anche senza idee per parlare. Cercare e utilizzare il leader carismatico funziona per progetti populisti e/o autoritari ma non funziona per chi esercita una capacità critica costante, per chi non rinuncia a domande collettive, per chi vuole cambiare un mondo incentrato sull’individualismo esasperato.
Soumahoro quindi parla anche di noi, ma deve parlare ormai molto per sé. Esiste certamente un dovere ineludibile per questo parlamentare che in molti hanno conosciuto personalmente, stimato o ammirato. Chiarire tutto nei minimi dettagli. Perché solo risposte convincenti a questioni di fondo possono restaurare una qualche fiducia. Altrimenti resterà solo l’ennesima delusione prodotta da una pratica fallimentare a sinistra che questa vicenda, qualunque sia la sua conclusione, deve contribuire a illuminare.
In questa società frantumata socialmente, con tutte le organizzazioni politiche e sociali in profonda crisi, in cui lo stesso attivismo si è spostato a livello individuale sui social network, sembra troppo lungo e troppo difficile, forse quasi «d’altri tempi», mettere in piedi percorsi reali che ricostruiscano una base collettiva, una solidarietà di classe e provino per questa via a cambiare i rapporti di forza. Però la differenza, ad esempio, tra il percorso di convergenza sociale messo in piedi dal collettivo di fabbrica della Gkn e quello praticato in solitaria in questi anni da Soumahoro è questa. Si tratta sicuramente di un percorso lungo e difficile, con efficacia non immediata, che piace meno ai grandi media e che fatica a trovare spazio nei talk show. Non si può però nemmeno continuare ogni volta a stupirsi del fatto che le case non si costruiscono dal tetto.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.