Una campagna depressiva
Annunciando di voler correre per il secondo mandato, Joe Biden ha esortato gli elettori ad aiutarlo a «proteggere la democrazia». Di migliorare la vita delle persone non se ne parla più, neanche nelle promesse elettorali
«Questi sono gli Stati uniti d’America. Non c’è niente, semplicemente niente, che non possiamo fare se lo facciamo insieme».
È una battuta che avrete sentito innumerevoli volte se avete seguito le corse presidenziali più recenti di Joe Biden a partire dal 2019, adesso ricompare ancora una volta nello spot di Biden diffuso oggi per il lancio ufficiale della sua ricandidatura. «Finiamo il lavoro!» è ciò che chiede la pubblicità. Quale lavoro? È difficile scoprirlo guardando lo spot.
Certo, parla degli «estremisti del Maga [Make America Great Again, lo slogan di Trump, Ndt]» che cercano di tagliare la previdenza sociale, attaccare i diritti riproduttivi, vietare i libri, discriminare le persone Lgbtq e danneggiare il diritto di voto. Il paese è ancora nel mezzo di una «battaglia per l’anima dell’America», ci viene detto.
Sfortunatamente però, Biden e i Democratici non hanno fatto molti progressi su questi temi. Biden lo scorso anno ha respinto la richiesta del suo stesso partito di eliminare il tetto del debito, cosa che sarebbe servita a neutralizzare l’attuale scenario che ha dato ai Repubblicani la leva per cercare di tagliare la previdenza sociale. Oltre a usarlo come argomento per chiedere voti, i Democratici hanno fatto poco a livello federale per proteggere i diritti riproduttivi, mentre pare che Biden non attaccherà la Corte suprema che sta conducendo questo assalto perché è preoccupato di danneggiare la sua reputazione pubblica. Il disegno di legge sui diritti di voto non è andato da nessuna parte: il presidente è passato rapidamente oltre dopo che il partito si è rifiutato di eliminare l’ostruzionismo e in seguito alla crescente frustrazione degli attivisti per i diritti di voto che hanno trovato una Casa Bianca decisamente disinteressata alla questione. È difficile sapere come misurare l’«anima» del paese, ma il fatto che il 71% degli statunitensi pensi che il paese stia andando nella direzione sbagliata sicuramente non è un segno di buona salute.
Ancora più importante, non c’è alcuna indicazione su ciò che Biden e il suo partito intendano fare al riguardo. Delineando una visione ambiziosa e stimolante della sua presidenza, se rieletto, e dando un’idea delle sue priorità legislative nel secondo mandato – rilanciando il famosissimo disegno di legge Build Back Better [pacchetto di misure contro la crisi e per la transizione ecologica, Ndt] che è morto due anni fa e ha costituito la spina dorsale della sua agenda presidenziale, per esempio, o promettendo di espandere i benefici della previdenza sociale – potrebbe dare agli statunitensi scoraggiati e controllati qualche motivo o addirittura, oserei dire, l’entusiasmo di uscire di casa per votare per Biden e il suo partito l’anno prossimo, per dare loro i seggi al Congresso di cui hanno bisogno e ottenere finalmente un programma oltre gli schemi. Ma un invito all’azione del genere non esiste. Dovrebbero votare per Biden perché, in qualche modo, finirà il lavoro, qualunque esso sia.
Il discorso per la rielezione di Biden è, in breve, una ricostruzione del suo discorso di settembre sulla minaccia alla democrazia da parte dei «Repubblicani del Maga», che a sua volta era una ricostruzione dell’approccio stantio e poco entusiasmante della campagna Democratica degli ultimi decenni: non promettere di fare nulla di positivo per le persone, ma indicare solo quanto sono spaventosi gli altri ragazzi.
Mare mosso all’orizzonte
Non ha molto senso in questi giorni fare previsioni elettorali, se mai ci fosse il momento. La nostra epoca politica è virtualmente definita dalla sua imprevedibilità. E i risultati delle elezioni di mid term hanno mostrato che una strategia di puro allarmismo sull’orribile qualità dell’opposizione ha ancora benziana nel serbatoio.
Ma è anche importante riconoscere, per la campagna di Biden se non altro, che il presidente si candiderà in un ambiente molto diverso dal 2020, cosa che rende la sua rielezione – anche contro il Partito repubblicano di oggi – tutt’altro che assicurata.
Biden non avrà problemi ad assicurarsi la nomination Democratica, principalmente a causa delle manovre dietro le quinte tipicamente antidemocratiche del partito. Hanno spostato le primarie della Carolina del sud alle primissime elezioni in programma – tanto grandiose per Biden quanto terribili per il partito – e hanno annullato qualsiasi dibattito presidenziale, proteggendo il presidente dalla manciata di ribelli che si sono fatti avanti per correre contro di lui e prevenire qualsiasi discussione aperta sulle priorità del partito e sulla direzione futura.
Ma la campagna elettorale generale non è quella delle primarie, e Biden non potrà avvantaggiarsi del sostegno di funzionari Democratici per aiutarlo a vincere. E ne avrà bisogno. I dubbi sull’idoneità di Biden, che è distinta dalla sua età, non sono irragionevoli. A gennaio di quest’anno, Biden ha trascorso tutti o parte dei 197 giorni della sua presidenza lontano dalla Casa bianca nel Delaware, nella sua casa o nella sua tenuta sulla spiaggia, oltre a più di sessanta giorni a Camp David. Nell’ottobre dello scorso anno, quando questo conteggio era ancora inferiore, già costituiva più di un quarto della sua intera presidenza e superava di gran lunga Donald Trump, che era stato spesso criticato dai liberal per essersi allontanato dalla Casa bianca. È per questo che gli strateghi del partito si sono chiesti se il presidente sia all’altezza della fatica di una campagna presidenziale.
Ricalcando la sua strategia per il 2020, Biden ha trascorso gli ultimi tre anni evitando rigidamente la stampa. Biden spesso aggira la pratica tradizionale di tenere conferenze stampa congiunte con i leader mondiali e ha accettato interviste solo cinquantaquattro volte nei suoi primi due anni, circa un quarto di quante ne ha fatte Trump e circa la metà di quelle che persino Ronald Reagan era riuscito a fare. In media tiene meno conferenze stampa all’anno di qualsiasi presidente dai tempi di Calvin Coolidge, a parte Reagan e Richard Nixon. Ha compiuto il passo senza precedenti di rifiutare un’intervista registrata con il New York Times, il Washington Post e il Wall Street Journal. Come ha osservato il Times, ha «fatto in modo di ridurre le opportunità in cui deve rispondere a domande di giornalisti non prestabilite e cui loro possano controreplicare».
Ha funzionato nel 2020, quando la pandemia ha dato al presidente una scusa già pronta per scomparire per giorni ed evitare apparizioni pubbliche. E mentre le richieste della presidenza potrebbero offrire un’altra ragione del genere, la saggezza di farlo è una questione aperta, data l’importanza per una campagna elettorale di viaggiare per il paese e presentarsi di fronte agli elettori.
Biden non disporrà neppure delle condizioni storiche uniche che in privato i suoi stessi consiglieri hanno riconosciuto come l’unica ragione per cui ha vinto tre anni fa. Il Covid potrebbe essere stata «la cosa migliore che gli sia mai capitata», come ha osservato all’epoca il consigliere Anita Dunn, ma lo stesso presidente e gran parte del paese ora credono che «la pandemia sia finita». Gli exit poll del 2020 hanno mostrato che il voto per Biden è stato causato in gran parte dall’opposizione a Trump, anche a causa della sua disastrosa risposta alla pandemia, ma il presidente non dovrà più vedersela con un presidente impopolare in carica: in effetti, l’impopolare in carica è lui.
Gli indici di gradimento di Biden in questo momento sono disperatamente bassi e sono scesi ulteriormente – tra gli elettori del Gop, nientemeno – dopo che di recente si è spostato a destra. Recenti sondaggi indicano che il 70% degli statunitensi non vuole che Biden si candidi di nuovo (la maggioranza non vuole neppure che Trump si candidi di nuovo, ma siamo sotto il 60%). Inoltre, con l’agenda interna in stallo, Biden ha – in parte grazie a un incidente storico, ma anche grazie alle sue scelte deliberate – gestito un drammatico restringimento dello stato sociale statunitense, che era stato ampliato, ancora una volta in gran parte per un incidente storico, mentre il presidente era il suo predecessore di destra.
Quella contrazione è ancora peggiore per il fatto che è arrivata in un contesto di deterioramento delle condizioni economiche. Quasi un quarto degli adulti statunitensi soffre di insicurezza alimentare, circa cinque punti in più rispetto al tasso già sbalorditivo registrato lo scorso anno. Più di un terzo afferma che è stato «abbastanza» o «molto» difficile pagare le bollette, un balzo del 25% rispetto all’anno precedente. L’ultimo rapporto del Census Bureau mette quasi 38 milioni di persone, o l’11,6% della popolazione, che vivono in povertà a gennaio 2021, un numero che è quasi certamente cresciuto da quando varie forme di aiuto per la pandemia sono svanite. L’aspettativa di vita negli Stati uniti è diminuita per il secondo anno consecutivo. Una recessione è largamente prevista nel prossimo anno, esattamente il tipo di shock simile a una pandemia che potrebbe far deragliare una presidenza.
I presidenti del passato hanno superato situazioni altrettanto difficili. Trump, che sembra sempre più probabile come candidato del Gop, è un avversario profondamente polarizzante, caotico e, per la base Democratica, mobilitante, al punto che potrebbe facilmente determinare un’altra sconfitta per sé stesso e il suo partito.
Ma queste non sono condizioni in cui qualcuno vorrebbe imbattersi. E a parte dire ancora una volta a tutti che l’alternativa sarebbe pessima, non sembra esserci alcun impulso all’interno della crescente campagna di Biden per fingere, come hanno fatto con successo la prima volta, che combatteranno per politiche volte a migliorare la vita delle persone, come un’assicurazione sanitaria pubblica o un salario minimo di 15 dollari, forse perché non vuole essere di nuovo pizzicato per promesse non amtenute. Una cosa è certa: saranno diciannove mesi cupi.
*Branko Marcetic è collaboratore di JacobinMag. Ha scritto Yesterday’s Man: The Case Against Joe Biden. Vive a Chicago, nell’Illinois. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.