Un’elezione non come le altre
In Francia si vota in uno scenario senza precedenti. La minaccia dell'estrema destra è più forte che mai, in gran parte alimentata dalle politiche di Macron. La sinistra è divisa ma Mélenchon è in crescita
Il 10 e il 24 aprile il popolo francese è chiamato alle urne al primo e al secondo turno delle elezioni presidenziali per decidere chi ricoprirà la più alta carica esecutiva del paese nei prossimi cinque anni: l’attuale presidente Emmanuel Macron – favorito dai sondaggi nonostante la sua bassa popolarità – o uno degli altri undici candidati, che vanno dalla sinistra trotskista all’estrema destra.
La configurazione politica di queste elezioni è senza precedenti. Come i due principali partiti che hanno strutturato il panorama politico francese negli ultimi decenni – il Parti Socialiste e i Républicains – hanno confermato il loro declino, così la tradizionale distribuzione bipolare dei voti tra la sinistra e la destra. La destra attrae ormai più del 70% delle intenzioni di voto, con circa il 35-40% per i due candidati del blocco borghese, Macron e Valérie Pécresse, e il 30% per i due candidati di estrema destra, Marine Le Pen ed Éric Zemmour.
Inoltre, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale e nella storia della V Repubblica francese, l’estrema destra ha effettivamente una possibilità di andare al potere: Le Pen è attualmente al 24%, non lontano dal 26,5% di Macron. Per quanto possano valere, i sondaggi recenti prevedono un divario molto stretto tra i due candidati se Macron dovesse affrontare la Le Pen al secondo turno, con un margine di errore che potrebbe permettere a quest’ultima di vincere le elezioni.
Eppure, in un contesto segnato dalla guerra ucraina, dall’aumento dell’inflazione e dalla crisi del Covid in corso, questa campagna presidenziale ha attirato meno attenzione pubblica che mai, e si prevede che il tasso di astensione per questo primo turno batterà il suo massimo storico del 28,4% nel 2002 – che aveva allora permesso per la prima volta nella storia della V Repubblica francese al leader di un partito di estrema destra, il padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen, di arrivare al secondo turno delle elezioni. La minaccia di un governo di estrema destra è quindi più tangibile che mai, ed è in gran parte alimentata dalle politiche antipopolari condotte da Macron negli ultimi cinque anni.
Cinque anni di controrivoluzione di Macron
Sebbene avesse fatto una campagna elettorale nel 2017 sostenendo di non essere «né di sinistra né di destra», ma «allo stesso tempo» un liberista economico e un socialista, una volta eletto il giovane ex-banchiere d’investimento ha accelerato l’attuazione delle politiche neoliberali che aveva già portato avanti come ministro dell’Economia sotto il suo precursore «socialista» François Hollande: abolizione della simbolica tassa patrimoniale e riduzione dei sussidi per l’alloggio per i più poveri, introduzione di una flat tax che abbassa la tassazione sul capitale, approvazione di nuovi decreti che smantellano i diritti dei lavoratori, riforma dei sussidi di disoccupazione, privatizzazioni dei servizi pubblici, ecc.
Le conseguenze di queste politiche sono state, ovviamente, disuguaglianze crescenti. Mentre i più ricchi sono diventati significativamente più ricchi negli ultimi anni, le classi lavoratrici francesi hanno sperimentato un continuo impoverimento. Secondo diversi studi, in Francia le cinque persone più ricche possiedono oggi tanto quanto i 27 milioni più poveri (il 40% della popolazione), 12 milioni di persone non sono in grado di riscaldare adeguatamente la propria casa, 8 milioni dipendono dall’assistenza alimentare, 4 milioni vivono in condizioni abitative precarie, 300 mila sono senza tetto, e quasi 6 milioni di persone sono iscritte al centro per l’impiego.
Per di più, secondo l’ultimo rapporto di Oxfam, la ricchezza dei miliardari francesi è cresciuta più velocemente durante la pandemia di Covid che mai: da marzo 2020 a ottobre 2021 la loro ricchezza è aumentata di 236 miliardi di euro, cioè dell’86%. Una quantità di denaro che basterebbe, secondo l’Ong, a quadruplicare il bilancio dell’ospedale pubblico (dove la Francia ha perso circa 17.900 letti d’ospedalizzazione dal 2016). Le enormi quantità di fondi pubblici investiti per contrastare la crisi legata alla pandemia sono state ovviamente cruciali in questa straordinaria rapina.
Allo stesso tempo, il bilancio di Macron nella lotta contro l’attuale crisi climatica e la perdita di biodiversità è disastroso. Come denunciano tutte le associazioni e gli attivisti ambientalisti, il presidente e il suo partito di maggioranza, La République en Marche, hanno fatto marcia indietro sulla maggior parte delle loro promesse iniziali – per esempio quella di raddoppiare la produzione di energia eolica e solare, o di eliminare gradualmente pesticidi come il glifosato. La Francia è molto lontana dal rispettare gli impegni presi nel 2016 con l’accordo di Parigi alla Cop21 per ridurre i gas serra, e lo stato francese è stato addirittura condannato due volte negli ultimi anni per la sua inazione climatica. Come dimostrano il numero crescente di inondazioni e incendi devastanti e le temperature sempre più calde in estate, così come conferma l’ultimo rapporto dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, la Francia non sarà risparmiata dalle disastrose conseguenze ambientali e sociali del riscaldamento globale.
Ultimo ma non meno importante, Macron ha adottato posizioni dure in materia di sicurezza e laicità (un tema ormai strumentalizzato in Francia per stigmatizzare ed opprimere le popolazioni non Cristiane, a cominciare da quella musulmana). Ed ha fatto approvare una serie impressionante di leggi che hanno limitato le libertà pubbliche, aumentato la repressione contro i migranti così come i manifestanti, ampliato i poteri della polizia, aumentato la sorveglianza pubblica e limitato le libertà di stampa, infrangendo così la libertà di associazione, la libertà di espressione, la libertà di religione e la libertà di educazione.
Gli anni a venire
Se verrà rieletto, Macron porterà avanti la sua agenda, che è stata in parte ostacolata da due o tre eventi importanti nel suo primo mandato: l’indimenticabile movimento dei Gilets jaunes alla fine del 2018 e nel 2019, che lo ha costretto a fare alcune concessioni a favore dei più poveri; il movimento contro la sua proposta di riforma dei regimi pensionistici nell’inverno 2019-2020, che lo ha costretto a ritirare la proposta; e la crisi del Covid, che ha momentaneamente congelato ulteriori riforme antipopolari, a eccezione dell’imposizione del pass sanitario anche sui posti di lavoro.
Ma Macron non sembra aver imparato molto dalla pandemia e dalla crescente rabbia popolare. Nella sua campagna elettorale tardiva e in cui si è rifiutato di partecipare ad alcun dibattito, ha annunciato, per esempio, che andrà avanti con un nuovo progetto di riforma delle pensioni, con un allungamento della vita lavorativa spingendo indietro l’età pensionabile da 62 a 65 anni. Ha anche l’ambizione di porre fine all’istruzione universitaria gratuita, di attuare nuove riforme dei sistemi di assistenza sociale – perché non obbligare le persone che ricevono il reddito sociale minimo (Rsa, circa 560 euro al mese) a lavorare 15-20 ore alla settimana? – e di approvare nuove leggi per smantellare i diritti del lavoro. Naturalmente, intende completare queste misure con un nuovo abbassamento delle tasse sulla produzione insieme ad altri omaggi al mondo degli affari e della finanza.
In breve, se Macron ottiene un secondo mandato, ciò che attende la Francia è una continua redistribuzione dal basso verso l’alto che favorisce i ricchi e svantaggia i poveri, una continua controrivoluzione fiscale e sociale, altri tagli nei servizi pubblici e lo smantellamento ulteriore dello stato sociale.
Ma cosa succederebbe invece se Marine Le Pen venisse eletta? Oltre al suo orientamento nazionalista, razzista, anti-immigrazione e anti-Islam, il partito storico dell’estrema destra francese, il Front National ribattezzato Rassemblement National nel 2018, ha esibito negli ultimi anni una «svolta sociale» – incarnata dall’assunzione della guida del partito da parte di Marine Le Pen nel 2011. Contro l’ammirazione del padre per la Reaganomics, il partito di Marine le Pen ha sempre più spesso denunciato l’avidità dei mercati finanziari e dei miliardari, attaccando il libero scambio, la globalizzazione e i «dogmi dell’ultraliberismo» imposti dall’Unione europea e deplorando le loro conseguenze negative per i servizi pubblici, l’occupazione e la giustizia sociale, promettendo una tassazione più progressiva e tasse sulla ricchezza.
Una strategia che ha effettivamente permesso al partito di conquistare una parte del voto popolare: tra il 1988 e il 2017, al primo turno delle elezioni presidenziali, la popolarità del partito è aumentata costantemente tra gli elettori con un livello di istruzione inferiore al diploma di maturità passando dal 16 al 31%, mentre la percentuale di impiegati che attraeva è passata dal 14 al 30% e quella degli operai dal 17 al 39%.
Dalla sua sconfitta contro Macron al secondo turno delle elezioni del 2017, tuttavia, il Rassemblement National ha rivisto il suo programma per rassicurare le élite e attirare un elettorato borghese, allineandosi sulle proposte dei suoi rivali economico-liberisti del centro-destra. Così, il partito non parla più di lasciare l’euro, l’Ue o Schengen, ha annacquato le sue proposte sulla tassazione delle imprese e dei capitali, ha abbandonato l’idea di riportare l’età pensionabile a 60 anni, e così via. Dietro le cortine di fumo retoriche, ci sono pochi dubbi che una anche una vittoria di Le Pen favorirebbe innanzitutto gli interessi delle classi superiori.
In altre parole, la differenza tra una vittoria di Macron e di Le Pen – e ci sarebbe una differenza significativa da non sottovalutare, soprattutto per milioni di persone razzializzate – sarebbe una questione di grado nello scatenamento del razzismo e dell’autoritarismo, non una questione di redistribuzione della ricchezza.
C’è ancora una speranza per la sinistra?
Contro queste lugubre prospettive, sembra esserci poca speranza per la sinistra. Il nuovo panorama politico è caratterizzato da un crollo di popolarità dei partiti di sinistra, che ora attrae meno del 30% dei votanti. La sinistra, frammentata, ha fatto un’opposizione piccola e piuttosto impotente in Parlamento negli ultimi cinque anni; ha subito amare sconfitte nelle ultime elezioni (europee e regionali). Soprattutto, il Parti Socialiste è sceso in modo spettacolare a circa il 2% delle intenzioni di voto.
Ci sono molte ragioni per questo destino della sinistra. È in gran parte dovuto al disastroso mandato presidenziale di François Hollande nel 2012-2017, che ha portato a compimento l’associazione nella coscienza collettiva della sinistra (socialista) alle politiche neoliberiste antisociali. È anche una conseguenza della capacità di Macron di catturare una parte significativa del personale politico e dei voti del centro-sinistra da quando ha lanciato il suo partito nel 2016. È poi un risultato dell’astensionismo sempre crescente tra i giovani e le classi popolari, che si sentono sempre meno coinvolti nel simulacro della democrazia rappresentativa.
Il calo di popolarità dei discorsi di sinistra ha certamente anche a che fare con i media francesi sempre più nelle mani di pochi miliardari, che concentrano il dibattito pubblico su questioni come l’immigrazione, l’Islam e la presunta insicurezza, eclissando i problemi sociali ed ecologici, e favorendo sempre più i discorsi di destra e di estrema destra. Éric Zemmour, il candidato del neonato partito di estrema destra Reconquête, è un caso emblematico: il cronista ossessivamente razzista e misogino è diventato sempre più famoso negli ultimi anni per la sua partecipazione a programmi televisivi popolari, grazie al sostegno del miliardario cattolico-nazionalista Vincent Bolloré, che controlla molti giornali e stazioni televisive, come il gruppo Canal+.
Ma questa nuova frammentazione dell’estrema destra potrebbe offrire una possibilità all’unico candidato di sinistra che ha effettivamente ispirato entusiasmo e potrebbe arrivare al secondo turno: Jean-Luc Mélenchon, che è salito costantemente nei sondaggi nelle ultime settimane e ora raggiunge il 17,5% delle intenzioni di voto. Con il programma più completo e ambizioso di tutti i candidati – incentrato su una forte redistribuzione della ricchezza, sulla pianificazione ecologica e sulla democratizzazione delle istituzioni del paese – e con innegabili capacità di campagna elettorale, l’organizzazione di Mélenchon, La France Insoumise, è riuscita ad attrarre molti attivisti provenienti da sindacati, associazioni della società civile, Ong, quartieri popolari, artisti, intellettuali, attivisti politici di altri partiti, ecc.
Questo fronte allargato della sinistra radicale, chiamato l’Union Populaire, propone quello che sarebbe stato probabilmente considerato un programma socialdemocratico quarant’anni fa, prima dello spaventoso spostamento a destra dei nostri paesaggi politici: portare il reddito minimo a 1.400 euro netti, tassare di più i ricchi, ad esempio limitando le eredità a 12 milioni di euro per finanziare un reddito di autonomia giovanile di circa 1.000 euro mensili, riportare l’età pensionabile a 60 anni, fare investimenti massicci nelle energie rinnovabili e nella ristrutturazione degli alloggi, investire un miliardo di euro su un piano di emergenza contro la violenza sessista e sessuale, ecc.
Questa proposta per un mondo radicalmente diverso di quello che ci viene ormai spacciato come fatalità è riuscita a riunire nelle ultime settimane folle impressionanti di decine di migliaia di persone ai comizi di Mélenchon in tutto il paese – con circa 100 mila persone a Parigi il 20 marzo scorso. Un numero crescente di associazioni e personalità femministe, antirazziste e ambientaliste hanno invitato a votare per il programma di Mélenchon nelle ultime settimane. Ormai unico «voto utile» a sinistra, Mélenchon ha ricevuto persino alcuni sostegni inaspettati, come quelli dell’ex-candidata socialista alla presidenza Ségolène Royal, e la sfortunata candidata della Primaire Populaire ritirata Christiane Taubira.
Anche se le possibilità sono scarse, molti a sinistra sperano ora seriamente che Mélenchon arrivi al secondo turno. Considerando che una persona su quattro non ha ancora deciso il suo voto, e che l’estrema destra è stata sistematicamente gonfiata dai sondaggi negli ultimi anni, non è impossibile. Tanto più che Macron è stato sempre più imbarazzato nelle ultime settimane da due scandali: il «caso McKinsey» – dopo le rivelazioni sull’uso da parte del governo di società di consulenza private pagate profumatamente con denaro pubblico per «consigliare» la sua amministrazione sulle politiche pubbliche – e le inchieste giornalistiche sul «Rothschild Gate» – riguardanti la misteriosa scomparsa dei milioni guadagnati da Macron mentre lavorava alla Rothschild.
Arrivare al secondo turno di queste elezioni cambierebbe molto per la sinistra e le classi lavoratrici di questo paese. Per prima cosa, significherebbe che le due settimane tra i due turni, che sono un momento chiave del dibattito pubblico nella vita democratica del paese, sarebbero incentrate su temi come l’aumento del salario minimo, la giustizia fiscale, la crisi climatica, e sui diritti delle donne, invece che essere un ulteriore momento di banalizzazione dei discorsi fascisti. Darebbe anche maggiori possibilità alla costruzione di una nuova e più forte opposizione di sinistra per i prossimi anni nel caso molto probabile in cui la destra vincesse – e ne avremo decisamente bisogno.
Nel caso improbabile che Mélenchon vinca le elezioni, non significherebbe certo «le grand soir» – nessuno qui è abbastanza ingenuo da crederci, anche perché i capitalisti si ribelleranno – ma certamente l’attuazione anche solo in parte delle riforme del programma l’Avenir en Commun significherebbero un miglioramento significativo delle condizioni di vita di decine di milioni di persone: i più precari, i giovani, gli anziani, le donne, le persone razzializate in primis. E poi renderebbe molto più facile per noi incontrarci, manifestare, occupare un posto di lavoro o un’università, scioperare, ottenere nuovi diritti, bloccare una rotonda, difendere un territorio contro un grande progetto inutile, distribuire aiuti alimentari nella nostra comunità locale, resistere contro un datore di lavoro, denunciare un’aggressione sessuale… In breve, continuare di organizzarci per costruire un altro mondo.
*Aurélie Dianara è una ricercatrice associata di storia economica internazionale presso l’Università di Glasgow, attivista femminista e membro in Italia del coordinamento nazionale di Potere al Popolo.
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