11 settembre
All’epoca dell’Unidad Popular: voci della «via cilena al socialismo», tra spinte dal basso e contraccolpi reazionari. Fino al colpo di stato che avrebbe insediato in un bagno di sangue il «paradiso del neoliberismo»
«È così strano parlare oggi di tutte queste cose, a volte mi sembra sia stato solo un sogno…». Tra il 1972 e il 1973 Mario Olivares era un giovane operaio metalmeccanico, militava nel Mir, il Movimiento de Izquierda Revolucionaria ed era un delegato dell’assemblea di fabbrica Vicuña Mackenna. In realtà ha vissuto davvero un sogno a occhi aperti, una festa popolare, una speranza collettiva in movimento, condivisa da milioni di donne e uomini, da lavoratori e lavoratrici, da giovani, contadini, sindacalisti, intellettuali e attivisti della sinistra cilena. All’epoca Hernán Ortega, presidente del Coordinamento dei comitati di fabbrica di Santiago – un coordinamento territoriale di operai e di organizzazioni di base di classe, create in risposta alla grande «serrata padronale» nell’ottobre del 1972 – militava già nel Partito socialista. «Per me, come per tutti i cileni, Unidad Popular esprimeva l’aspirazione a una società differente, più democratica, più egalitaria, che permettesse ai lavoratori di ottenere una crescita completa e integrale, non solo dal punto di vista economico ma anche per quanto attiene lo sviluppo integrale dell’essere umano».
Cinquant’anni fa, il 4 settembre del 1970, Unidad Popular, la coalizione dei partiti di sinistra, portava al potere Salvador Allende Gossens, medico e parlamentare marxista, massone e dirigente socialista. Quella stessa notte il nuovo presidente del paese andino pronunciò un discorso emozionante dai balconi della Federazione degli studenti del Cile (Fech):
Io so che voi, che avete fatto sì che il popolo sia domani governo, avrete la responsabilità storica di realizzare quello che il Cile anela per far diventare la nostra patria un paese incomparabile nel progresso, nella giustizia sociale, nei diritti di ciascun uomo, di ciascuna donna, di ciascun giovane della nostra terra. Abbiamo trionfato per sconfiggere definitivamente lo sfruttamento imperialista, per farla finita con i monopoli, per promuovere una seria e profonda riforma agraria, per controllare il commercio d’importazione ed esportazione, per nazionalizzare, infine, il credito, pilastri tutti che renderanno fattibile il progresso del Cile, creando il capitale sociale che darà impulso al nostro sviluppo.
Cominciavano mille giorni di mobilitazione, di organizzazione e di costruzione della via cilena al socialismo in piena guerra fredda, che sfidarono l’egemonia statunitense e fecero tremare la vecchia oligarchia cilena. Una transizione al socialismo che la sinistra parlamentare prometteva come «pacifica» e non armata (a differenza della rivoluzione cubana), democratica e legalista, antimperialista e popolare.
Nella memoria di molti protagonisti dell’epoca rimangono ancora oggi ricordi diffusi della forza tellurica di questi tre anni di creatività sociale, culturale e politica, nonostante la violenza di sedici anni di dittatura militare e civile e più di tre decenni di democrazia neoliberale. Il governo Allende, Unidad Popular e il movimento operaio innovarono e sperimentarono su più piani, mostrando che effettivamente un altro mondo era possibile in un piccolo paese del «terzo mondo» come il Cile, che deteneva la più grande riserva di rame al mondo ma che vedeva il proprio popolo vivere in condizioni di povertà e precarietà che provocavano indignazione.
Il programma delle «40 misure», l’aumento generalizzato dei salari operai, l’approfondimento della riforma agraria, la nazionalizzazione del rame senza indennizzo del capitale yankee e di quasi la totalità del settore bancario, la creazione di una economia dove i salariati potevano partecipare alla cogestione della produzione, la nuova relazione tra arte e politica, la politica internazionale solidale e non allineata, la riflessione sui diritti dei bambini e il ruolo da protagoniste delle donne nella costruzione del socialismo: si trattava di pensare la rivoluzione su più piani nello stesso tempo, col rischio di trasformare il ruolo dello stato, del mercato, della democrazia, pur seguendo la scommessa strategica di Allende di una transizione rispettosa della costituzione del 1925, delle istituzioni liberali e… delle Forze armate. Furono molte e molti i dirigenti comunisti, socialisti o cristiani di sinistra della coalizione di governo che credettero, con fervore, nella «eccellenza» della tradizione democratica del Cile, nella «professionalità» del suo esercito, nel «costituzionalismo» della maggior parte dei generali e nella «flessibilità dello stato borghese».
Per il Mir, piccola organizzazione rivoluzionaria politico-militare, fondata nel 1964 e molto attiva in quegli anni, bisognava appoggiare e difendere l’esperienza di Unidad Popular, ma bisognava anche denunciare con urgenza le illusioni riformiste del nuovo esecutivo. Per il movimento di Miguel Enríquez, Allende era alla testa di un governo democratico e antimperialista, dominato però dal «riformismo operaio e piccolo borghese».
Fin dagli inizi, sebbene rafforzata dall’ascesa delle lotte operaie e contadine e da quelle dei «pobladores» (gli abitanti dei quartieri poveri e delle villasmiserias, ossia le bidonville delle grandi città cilene), Unidad Popular si ritrovò di fronte enormi ostacoli e molteplici contraddizioni. Sul piano istituzionale (e non era poca cosa) bisogna ricordare che l’allendismo era un governo di minoranza, dato che in parlamento aveva ottenuto alle elezioni presidenziali il 36,6% dei voti, mentre la destra aveva il 35,3% e la democrazia cristiana il 28,1%. Nonostante alle elezioni municipali dell’aprile del 1971 la sinistra riuscì a capitalizzare un poco più del 49% del sostegno elettorale, questa situazione di minoranza istituzionale rimase in vigore, mentre la Democrazia cristiana a poco a poco si irrigidiva sulle posizioni dei settori più conservatori e il Partido Nacional invocava esplicitamente l’intervento militare contro il «pericolo marxista». Unidad Popular non controllava l’apparato giudiziario né il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, mentre ampi settori dell’economia rimanevano nelle mani di una classe imprenditoriale paternalista, molto ostile nei confronti di un governo che rivendicava il socialismo come una bandiera.
Anche nel campo popolare le tensioni e le turbolenze erano in ascesa, a misura dell’acuirsi dei conflitti di classe, dell’emersione della crisi economica, della crescente diffidenza delle classi medie e delle debolezze della sfida della trasformazione istituzionale del «compagno presidente». I settori più coscienti della classe operaia cominciarono a criticare la debolezza di Union Popolar di fronte all’offensiva dell’opposizione, della borghesia industriale e dell’estrema destra. Facevano pressione anche sulla dirigenza della Centrale Unica dei Lavoratori (Cut, fondata nel febbraio 1953, era l’unica confederazione sindacale del Cile, tra i suoi fondatori c’era Clotario Blest, figura di primo piano come cristiano libertario), dominata dal Partito comunista, primo partito operaio del paese, forza che rappresentava l’ala moderata all’interno del governo. La Centrale si consolidò come cinghia di trasmissione dell’esecutivo, appoggiando in particolare il «sistema di partecipazione dei lavoratori» dentro alle imprese nazionalizzate, tanto che due dei suoi massimi dirigenti occupano ruoli ministeriali nel 1972, mancando però di struttura a livello comunale e territoriale.
Nel complesso, la maggior parte dei lavoratori si trovava fuori dall’influenza diretta della Cut, perché non aveva diritto – o possibilità concreta – di sindacalizzarsi, e non vedeva di fronte a sé prospettive di integrazione nel sistema di cogestione (inizialmente limitato a novanta grandi aziende nazionalizzate o «partecipate» dallo stato). La frazione più radicalizzata del movimento operaio, che si opponeva alla passività della «rivoluzione a tappe», minacciata dallo sviluppo del mercato nero e dalle serrate padronali, cominciò a spingersi oltre la legalità delle direttive nazionali (sindacali, governative e di partito). Questa dinamica di «oltrepassamento» si tradusse in un numero crescente di aziende occupate, in un aumento considerevole di scioperi illegali, in diverse forme di autorganizzazione e, nelle zone rurali, in un’estensione dei terreni occupati e espropriati (i cosiddetti «corrida de cercos», una sorta di assedio contadino alle fattorie che andava oltre le riforme annunciate da Allende). Nelle imprese i militanti della sinistra del Partito Socialista, del Movimiento de AcciónPopular Unitario (Mapu) e della Sinistra Cristiana diffondevano l’idea che fosse necessario «avanzare senza compromessi» per non fare passi indietro. Oltre a questi partiti, che facevano parte della coalizione di governo, il Mir si fece paladino della consegna «Creare, creare, potere popolare!», invocando una rottura con lo stato liberal-oligarchico. Questa posizione era fortemente criticata dal Pc in quanto «di estrema sinistra» e addirittura «controrivoluzionaria». Il partito fondato da Luis Emilio Recabaren riteneva che fosse urgente «consolidare per avanzare». Nel 1972 il piano Prats-Millas arrivò a restituire decine di imprese occupate ai suoi proprietari legali, provocando un evidente malcontento nella base operaia di sinistra.
«Era un periodo molto fertile, durante il quale molti simpatizzanti di UnidadPopular si ribellarono alle direttive di governo ed entrarono nella coalizione dei comitati di fabbrica», ricorda José Moya, membro del Mir e operaio di una fabbrica del settore elettronico che impiegava quasi mille salariati. «Ricordo di aver partecipato ad assemblee dove i rappresentanti della Cut venivano a discutere con i delegati di fabbrica e se ne andavano con la coda tra le gambe!».
Nonostante tutti questi attriti, la forza del potere popolare e operaio non era rivolta sostanzialmente contro il governo, che era considerato un «governo del popolo» dalla maggior parte del movimento popolare. Ma il popolo di sinistra reclamava la mano dura e decisioni radicali contro i padroni che praticavano il boicottaggio economico, contro il quotidiano El Mercurio che incitava al colpo di stato, contro le orde fasciste di Patria y Libertad che attaccavano a mano armata le sedi sindacali e le fabbriche occupate. Luis Ahumada, che all’epoca era uno studente socialista, militava attivamente nella zona industriale di Santiago:
La cosa più importante che volevamo sostenere attraverso i comitati di fabbrica era la solidarietà da un muro all’altro degli stabilimenti. Abbiamo contribuito affinché questa solidarietà, ‘innata’ negli operai, si manifestasse in termini concreti: ad esempio, una fabbrica solidarizzava con le lotte di una fabbrica vicina. E dal momento che questi comitati di fabbrica ottennero una risposta popolare abbastanza ampia, divennero in breve un punto di riferimento per gli operai del settore, di modo che quando c’era un conflitto in un’azienda, arrivava la solidarietà delle organizzazioni sociali circostanti.
Nell’ottobre del 1972, nonostante i blocchi stradali dei sindacati dei camionisti e del trasporto pubblico diretto verso le fabbriche, nonostante la serrata padronale e dei commercianti, questi lavoratori riuscirono a far funzionare svariate fabbriche e ad aprire un centro logistico sotto controllo operaio. «Siamo riusciti a espropriare gli autobus armi alla mano, con le pistole – ricorda Mario Olivares – e li abbiamo portati dentro alle fabbriche, nelle mani dei lavoratori. Così abbiamo garantito che la produzione non si fermasse. Andavamo anche a cercare i lavoratori e gli offrivamo un passaggio». E aggiunge, con lo stesso fervore che in altri tempi mostrava nelle assemblee sindacali: «Cominciavamo a parlare di un potere reale dei lavoratori (…). Forse da un punto di vista ideologico non vedevamo tutto in maniera chiara, ma esigevamo una maggiore partecipazione in tutte le aree, non solo nella produzione!».
Comitati industriali come quello di Cerrillos-Maipú o di VicuñaMackenna a Santiago divennero così esempi per tutto il paese della capacità di organizzazione operaia «dal basso». Questo tipo di iniziative di controllo sociale e di democrazia diretta sorsero nelle campagne, nei quartieri più poveri o attraverso esperienze di autorganizzazione. Spesso ottennero l’appoggio degli studenti e della gioventù militante.
Per Neftalí Zuñiga, vecchio operaio tessile, ex dirigente sindacale del gigante industriale Pollack e militante comunista, il ricordo più intenso di quegli anni fu soprattutto quello della sfida della «battaglia della produzione». L’obiettivo era difendere il paese dal boicottaggio padronale e dal razionamento, contrastare l’inflazione e trasformare in realtà le promesse di Allende di crescita economica e redistribuzione della ricchezza. Don Zuñiga ricorda anche, con orgoglio e fierezza, i lavori volontari che mobilitarono migliaia di persone.
Cosa facevamo noi lavoratori coscienti? Tutte le domeniche andavamo (…) nelle grandi piantagioni per mietere il mais e poter alimentare una quantità maggiore di volatili. E questa era la coscienza popolare che avremmo voluto generare nella grande massa di lavoratori di questo paese.
Dopo lo «sciopero borghese» del 1972 Allende riuscì a riprendere il controllo della situazione creando un gabinetto che riuniva civili e militari. Così i militari entrarono in pieno gioco politico, occupando ministeri chiave. Ma intanto nei mesi successivi la creatività popolare tirò il freno. Col primo tentativo di colpo di stato, nel giugno del 1973, la funzione di resistenza dei comitati di fabbrica tornò a essere fondamentale. Il progetto di unificare gruppi popolari organizzati all’interno dei «comandi comunali» sembrava aprire il cammino alle aspirazioni dei settori rivoluzionari. Ma i comandi non ebbero tempo di svilupparsi in maniera ampia e i partiti di sinistra erano molto divisi sulla strategia da seguire, soprattutto quando nacquero effettivamente delle forme di coordinamento con un forte potenziale trasformativo, come ad esempio quella tra il comitato di fabbrica VikuñaMackenna e il comando comunale di La Florida, che aveva sede presso l’accampamento Nueva La Habana, sotto la direzione del MIR. Abraham Pérez, allora operaio edile, era uno dei dirigenti di questo accampamento, un autentico quartiere autogestito all’interno di Santiago. «Ogni isolato sceglieva un delegato in maniera libera e democratica». I delegati prendevano decisioni sull’amministrazione dell’accampamento, sulla sicurezza del quartiere, sull’appoggio alle fabbriche occupate dai comitati di fabbrica più vicini attraverso delle «milizie popolari».
Dopo il golpe, Abraham continuò a vivere in un quartiere povero, nato in seguito all’occupazione di un terreno. La situazione da allora è cambiata molto ma lui ricorda con nostalgia i bei vecchi tempi:
C’era molta partecipazione e si viveva in comune accordo con gli abitanti del quartiere. All’epoca non c’era delinquenza. Dentro all’accampamento, ci proteggevamo da noi. Se un vicino usciva, poteva lasciare la porta aperta….
Mentre conversiamo su quel periodo con Edmundo Jiles, sindacalista del comitato di fabbrica Cerrillos, lui viene scosso da una forte emozione. Respira profondamente:
La maggior parte di noi era giovane, ma i più vecchi sapevano trasmettere esperienza e conoscenze. Di tanto in tanto riuscivano a far scendere il livello di adrenalina e a moderare un poco le azioni. Ma ci appoggiavano con molto entusiasmo. Per questo abbiamo potuto fare tutto quello che abbiamo fatto.
Ma, nell’ombra, altri attori facevano di tutto per affossare e distruggere quell’entusiasmo rivoluzionario che minacciava i loro interessi. Oggi sappiamo in maniera dettagliata, grazie agli archivi finalmente consultabili, che il presidente degli Stati uniti Richard Nixon dette ordine alla Cia di «strozzare» l’economia cilena. Tra Santiago e Washington venne costituito un comitato per l’ingerenza e la sedizione degli affari cileni, dove affondavano le mani Henry Kissinger, rappresentante di imprese multinazionali come la Itt, Augustín Edwards, padrone del quotidiano conservatore El Mercurio, e Richard Helms, all’epoca direttore della Cia. I contatti stabiliti con la destra, le conversazioni con generali ostili a Allende, i milioni di dollari generosamente offerti per alimentare una campagna denigratoria nei confronti della sinistra, il boicottaggio finanziario su scala internazionale, l’appoggio al caos economico all’interno del paese: tutto questo lastricò il sentiero che portava al colpo di stato. Che venne anticipato all’11 settembre del 1973 col bombardamento de La Moneda, il palazzo presidenziale dove Allende muore con le armi in mano, per rispondere alla volontà dei militari traditori che non volevano che il presidente annunciasse il suo progetto di un referendum e di una assemblea costituente, ultimo tentativo per uscire dalla trappola in cui era rimasta impantanata Unidad Popular.
«Gli operai mi chiedevano armi», ricorda l’ex ministra del lavoro, la comunista Mireya Baltra, che nel giorno del colpo di stato si dirige verso il comitato di fabbrica Vicuña Mackenna. Le fa eco José Moya quando ricorda di aver aspettato in ansia i suoi compagni in fabbrica. «Abbiamo aspettato tutta la notte dell’11 settembre del 1973 in attesa di armi che non arrivarono mai. Sentivamo spari dal lato del comitato San Joaquín. Loro avevano delle armi, almeno quelli dell’azienda tessile Sumar. Il nostro sogno era che all’improvviso le armi sarebbero arrivate, che anche noi avremmo resistito come loro. Ma non andò così». Contrariamente alla propaganda del generale Augusto Pinochet, nominato capo delle forze armate nell’agosto del 1973, non esisteva alcun «comitato della morte», non esisteva neanche un «piano Z» volto a distruggere l’esercito. Di fatto, sebbene si registrarono atti di resistenza eroica e ci furono alcuni scontri armati, le forze del potere popolare e della sinistra, senza aver preparato un piano di risposta politico-militare, dovettero passare alla clandestinità o sottomettersi rapidamente a una repressione implacabile.
Il giorno del golpe c’erano morti per strada. Arrivavano anche da altre parti e li lasciavano qui – racconta Carlos Mujica, lavoratore dell’impianto metallurgico Alusa – E non potevamo fare nulla! Credo che il periodo più duro sia stato quello degli anni 1973-74. Poi, nel 1975, i servizi segreti vennero a prendermi in fabbrica. Mi arrestarono e mi portarono nel famoso centro di detenzione di Villa Grimaldi. Lì, torturavano le persone con la ‘parrilla’, ossia la ‘griglia’ per abbrustolire le carni. Era una sorta di rete metallica con cui ti davano la corrente elettrica sulle gambe o in altre parti del corpo. Sapevano che io ero un delegato di fabbrica.
Iniziava la lunga e triste notte della tirannia di Pinochet, con la brutale trasformazione del paese nel «paradiso del neoliberismo».
In conseguenza del terrorismo di stato e dell’«amnesia forzata» imposta al paese cileno dalla giunta militare negli anni dal 1973 al 1990, la storia di Unidad Popular rimase a lungo ignorata dalla maggior parte delle persone. Una memoria collettiva distrutta che non ha potuto ricomporsi con i governi social-liberisti degli anni della Concertación (1990-2010), la cui politica economica e istituzionale è stata, sotto molti aspetti, il proseguimento del regime militare anteriore. In queste condizioni i ricordi sono rimasti vivi negli spazi militanti o familiari, ma in forma atomizzata. Tuttavia, negli ultimi anni, il Cile sta cambiando in maniera molto rapida. Dal 2011 una nuova generazione che non ha conosciuto la dittatura ha intrapreso una massiccia mobilitazione contro il modello neoliberista autoritario. L’impressionante ribellione popolare cominciata nell’ottobre del 2019 è ancora attiva, come un vulcano, sotto le ceneri della pandemia e della repressione del governo. Con questa grande sollevazione popolare sono tornate a irrompere sulla scena politica figure come Salvador Allende, come Miguel Enríquez, come gli operai dei comitati di fabbrica col loro esempio, come chi ha lottato e si è sacrificato contro il regime di Pinochet, come la storica resistenza del popolo Mapuche. Sono tornati nei cartelli di protesta nelle manifestazioni, nei dibattiti delle assemblee territoriali, nelle discussioni nelle mense comunitarie.
«Il passato è sempre importante», sottolinea Luis Pelliza, un operaio che ha mantenuto il proprio attivismo all’interno del movimento sindacale, contro venti e maree, dagli anni Settanta fino a oggi. «Forma parte di una storia che abbiamo vissuto. Conoscere l’esperienza della nostra sconfitta è necessario per comprendere come affrontare il futuro».
*Franck Gaudichaud è laureato in scienze politiche e insegna studi latinoamericani all’università Toulouse 2 Jean Jaurès. Fa parte della redazione della rivista ContreTemps e di Jacobin America Latina. Una versione breve di questo articolo è stata pubblicata da Le Monde Diplomatique. Questa versione è stata aggiornata per il lancio della rivista Jacobin America Latina. Si basa su testimonianze raccolte tra il 2001 e il 2004 e pubblicate nel suo libro Poder Popular y Cordones industriales. Testimonios sobre la dinámica del movimiento popular urbano durante el gobierno de Salvador Allende (Lom, 2004).
La traduzione di questo testo è di Alberto Prunetti.
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