Podemos si gioca tutto
Il partito di Iglesias compie la missione per cui era nato: arrivare al governo. Lo fa con molti rischi, da socio di minoranza, e la consapevolezza di dover tenere un compromesso di alto profilo
Prima dello scorso fine settimana, erano decenni che il parlamento spagnolo non assisteva a una sfida così potente alla retorica della «difesa della patria». Per contrastare il nazionalismo crescente, il leader di Podemos Pablo Iglesias ha detto alla camera che il vero «tradimento» alla Spagna è quello di chi «attacca i diritti dei lavoratori, svende le case popolari agli avvoltoi dei fondi speculativi e privatizza lo stato sociale e i servizi pubblici».
Per le forze di estrema destra a cui Iglesias si stava rivolgendo, lui e i suoi alleati sono semplicemente una banda di «comunisti, populisti» e nazionalisti regionali fuori controllo. Secondo i partiti nazionalisti spagnoli come Vox, il leader di Podemos è il portavoce di un’aggregazione «anti-spagnola» condotta da un «sociopatico» affamato di potere nelle vesti del presidente del consiglio Pedro Sánchez.
Al centro di questo dibattito c’era la prospettiva di uno storico accordo di coalizione tra il Partito socialista di centrosinistra di Sánchez (Psoe) e Unidas Podemos di Iglesias, che il 7 gennaio è stato celebrato nel nuovo governo spagnolo. Supportati dai regionalisti catalani e baschi, insieme a un nugolo di indipendenti, dopo anni di false partenze, le due parti stanno finalmente formando quella che chiamano «coalizione progressiva» e che per le voci critiche è un «governo di Frankenstein».
Tale accordo era atteso da tempo, dopo un decennio di austerità post-crisi e la più grave crisi costituzionale della Spagna dalla transizione alla democrazia degli anni Settanta. Da quando Podemos ha sfasciato il sistema a due partiti quasi cinque anni fa, nessuna coalizione con il Psoe era parsa possibile, anche quando l’aritmetica parlamentare lo avrebbe permesso.
Ma tutto è cambiato con le elezioni politiche dello scorso novembre. Mentre i partiti di sinistra perdevano circa 1,5 milioni di voti (il Psoe stesso ne ha raccolti 800 mila in meno), Sánchez si è scoperto incapace di fare un accordo alla sua destra, e alla fine è stato costretto a impegnarsi nell’agenda «progressista» alla quale finora aveva solo fatto cenno.
Dopo le precedenti elezioni dell’aprile 2019, la lunga estate delle trattative di coalizione tra il Psoe e Podemos era stata polarizzata e spesso condotta in malafede dal partito di Sánchez. Eppure le battute d’arresto elettorali di novembre sia per il Psoe che per Podemos – in un clima di crescenti tensioni nazionaliste, alimentate dalla questione catalana – hanno rapidamente spinto i due partiti a formare una coalizione.
In un periodo di arretramento per la sinistra europea, questo governo costituirà probabilmente l’amministrazione più di sinistra in tutto il continente. Tuttavia, al di là della mancanza di alleati internazionali, questo esecutivo sarà costretto a lavorare all’interno dei difficili confini imposti dalla crisi costituzionale della Spagna, dalle regole del bilancio dell’Ue e dalla virulenta opposizione non solo della destra ma anche dei maggiori poteri economici e mediatici della Spagna.
Si tratta delle stesse forze che per anni sono riuscite a bloccare una coalizione Psoe-Podemos. Oggi possiamo essere certi che non perderanno tempo nel tentativo di neutralizzare – se non addirittura eliminare del tutto – questo governo e l’esile maggioranza parlamentare che lo sostiene.
Tuttavia, nonostante le evidenti difficoltà, ci sono anche segnali positivi. In questo anche la formazione di Pablo Iglesias avrà dei ministeri, le postazioni necessarie per mantenere l’ondivago Psoe al rispetto delle promesse di riforma sociale e rinnovamento democratico.
Oltre alla nomina di Iglesias a vice-presidente del consiglio, ci saranno anche portafogli sostanziali per Yolanda Díaz di Podemos come ministro del lavoro e Irene Montero ministro per l’uguaglianza. Il leader di Izquierda Unida, Alberto Garzón, sarà il ministro dei consumatori: il primo ministro comunista del paese in oltre ottant’anni. Si è poi saputo che il famoso sociologo e teorico dei movimenti sociali Manuel Castells diventerà ministro dell’università, su proposta della consociata catalana di Podemos, En Comú Podem.
Limiti
Il programma di governo firmato la scorsa settimana riflette inevitabilmente il mutato equilibrio di potere della sinistra spagnola dall’irruzione di Podemos quattro anni fa. All’epoca Iglesias poteva permettersi di reclamare una trattativa tra pari, con il suo partito che era stato vicino al sorpasso sul Psoe nelle elezioni del dicembre 2015, quando prese solo l’1,5 per cento in meno rispetto allo storico partito di centrosinistra. Quei colloqui, tuttavia, si schiantarono sotto la pressione combinata della destra del Psoe e dei poteri economici; i media del paese, insieme ad elementi corrotti all’interno della polizia, avevano simultaneamente deciso di criminalizzare Podemos attraverso una serie di scandali inventati.
La fase che ne seguì – segnata da divisioni interne al partito, da una certa stanchezza tra i movimenti anti-austerità e dal riorientamento della politica spagnola attorno alla discriminante nazionalista – è stato estenuante per la formazione di Iglesias. Podemos ha combattuto campagne decisamente efficaci nelle due elezioni generali consecutive del 2019, subendo perdite significative ma mantenendo un consenso maggiore del previsto. Il suo risultato di 38 seggi alle elezioni di novembre è ancora quasi il doppio del massimo storico della sinistra radicale (i 21 seggi di Izquierda Unida nel 1996) – benché i 120 seggi del Psoe e i 69 seggi di Podemos al suo debutto alle elezioni politiche fossero lontani.
La sera delle elezioni Iglesias era fermamente convinto che il prezzo del suo partito per sostenere un governo del Psoe fosse un vero accordo di coalizione. Tuttavia, dopo il pre-accordo iniziale per formare un governo, ha anche riconosciuto che, in quanto partner minore, il suo partito avrebbe dovuto fare dolorose concessioni. Ciò ha significato rinunciare a misure programmatiche chiave come la nazionalizzazione della Bankia salvata come banca di investimento pubblica, la fondazione di una nuova società di energia pubblica e l’imposta proposta da Podemos sugli utili finanziari (progettata per recuperare i 60 miliardi di euro persi nel salvataggio del 2011).
Ma probabilmente il compromesso più significativo riguarda l’accettazione delle regole di spesa dell’Ue. L’accordo di coalizione impegna il governo a «rispettare i meccanismi di disciplina fiscale in modo da garantire la sostenibilità dei conti pubblici». In una sezione intitolata «Giustizia fiscale e bilanci equilibrati», il testo promette nuovi programmi sociali e una riforma fiscale progressiva assicurando allo stesso tempo «responsabilità fiscale» e una «riduzione del disavanzo e del debito pubblico compatibile con la crescita economica e la creazione di posti di lavoro». L’equilibrio tra questi obiettivi contrastanti definirà il profilo del futuro del governo.
Progressi sociali
Appena il programma è stato diffuso, alcuni esponenti della sinistra anticapitalista hanno sottolineato la distanza percorsa da Podemos dal suo impegno iniziale, dalla sua fondazione nel 2014, di verificare e rifiutare il pagamento delle parti illegittime del debito pubblico spagnolo. Ma l’Europa in senso più ampio ora si trova in un momento molto diverso. Dal corbynismo a Syriza e La France Insoumise, l’ondata di forze populiste di sinistra che sfidano l’establishment politico è ora in evidente ritirata.
Le fortune elettorali di Podemos si adattano a questo contesto più ampio. Tuttavia, ciò che distingue questo accordo di coalizione è anche la promessa di numerosi miglioramenti sociali e democratici. Dopo un decennio di attacchi contro il lavoro e i diritti civili e l’indebolimento dello stato sociale, l’accordo, nonostante i suoi limiti, offre una serie di misure vitali volte ad affrontare le crisi sociali e territoriali del paese.
Sui diritti dei lavoratori, la coalizione si è impegnata ad abrogare le riforme neoliberali del lavoro del Partido Popular del 2012 che hanno indebolito i diritti di contrattazione collettiva e reso più facile per le aziende licenziare, anche per un congedo per malattia. Tuttavia, la coalizione non annullerà le riforme del lavoro del Psoe del 2010. D’altro canto, il governo aumenterà il salario minimo fino al 33 per cento nel corso di questa legislatura e scriverà una nuova Carta dei diritti dei lavoratori per affrontare la precarietà.
Anche le richieste chiave articolate dai movimenti per il diritto alla casa e femministi della Spagna rientrano nel programma. Particolari caratteristiche sono l’impegno a introdurre controlli sugli affitti – a cui il Psoe si era opposto durante i negoziati – e un nuovo programma per garantire assistenza all’infanzia pubblica universale gratuita per bambini in età prescolare di età compresa tra 0 e 3 anni. La parità di congedo parentale sarà disposta per legge, con un congedo retribuito esteso a sedici settimane non trasferibili sia per le madri che per i padri.
Quanto al rafforzamento dei servizi pubblici, le tasse universitarie saranno ridotte ai livelli pre-crisi. Gli investimenti nel sistema sanitario pubblico passeranno dal 5,9% del Pil al 7%, mentre l’outsourcing dei servizi verrà ridimensionato e rallentato. Ci sono anche importanti misure per aumentare la tassazione progressiva con la promessa di un incremento del 2% dell’imposta sul reddito per coloro che guadagnano oltre 130 mila euro all’anno, che arriverà al 4% per i reddito superiori a 300 mila, nonché l’introduzione di una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, la «Google Tax» sulle principali società tecnologiche che dichiarano imposte altrove e un aumento del 4% delle plusvalenze sui rendimenti superiori a 140 mila euro.
Altre importanti riforme includono l’abrogazione della repressiva «legge bavaglio», l’introduzione dell’eutanasia legalizzata, il divieto di esaltazione pubblica del franchismo e un approfondimento della legge spagnola sulla memoria storica per includere, tra le altre cose, un audit sui beni e le proprietà sequestrati dai fascisti alla fine della guerra civile.
Dilemma costituzionale
Un altro fronte su cui l’accordo della coalizione presenta progressi significativi per la sinistra in senso lato, in un clima politico sfavorevole, è la questione sfuggente della Costituzione spagnola.
Alimentata dalla regressione della sinistra in tutto il continente, la destra europea cerca di rimodellare il discorso pubblico strumentalizzando i fallimenti dei media tradizionali, massimizzando al contempo la portata di battaglie culturali reazionarie attraverso i nuovi canali mediatici che si trovano sul web. La sinistra ha faticato a resistere a questi assalti, come si è visto di recente nelle elezioni politiche in Gran Bretagna monopolizzate dal tema della Brexit. Ciò era evidente anche nei dibattiti televisivi durante la campagna elettorale in Spagna lo scorso novembre.
Ciò che ha consentito in questo caso alla destra di portare avanti la sua guerra culturale e demonizzare i «nemici della Spagna» è stata la crisi costituzionale provocata dalla spinta all’indipendenza in Catalogna. La destra ha montato una serie di acrobazie comunicative prese a prestito dal repertorio di Donald Trump e di figure dell’estrema destra europea come Marine le Pen e Matteo Salvini. La potenza di questa comunicazione, insieme alla ricaduta simultanea del processo contro i leader catalani indipendentisti, si è tradotta in notevoli guadagni per Vox di Santiago Abascal, la nuova forza emergente dell’estrema destra in Europa.
Il nuovo governo Psoe-Podemos si basa su un accordo con un’ulteriore forza politica: Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), necessario alla sua maggioranza parlamentare. Il rapporto tra Psoe ed Erc ha fatto passi da gigante rispetto alle elezioni di novembre. Con il leader di Erc Oriol Junqueras che ha trascorso più di un anno in prigione e ha iniziato una condanna a tredici anni per sedizione, la retorica unionista della linea dura usata dal Psoe di Sánchez durante la campagna sembrava aprire un divario troppo grande per tornare indietro. Invece, anche se le tensioni non si sono sciolte, in poche settimane i due partiti hanno almeno messo da parte le asprezze che hanno caratterizzato lo scorso autunno.
Ciò ha richiesto un notevole grado di maturità politica da parte di Erc, che si è accordato con il Psoe anche se i suoi leader sono detenuti come prigionieri politici. Oltretutto ciò è in netto contrasto con l’ostruzionismo delle altre forze indipendentiste – il centro-destra Junts Per Catalunya (Insieme per la Catalogna) e la sinistra radicale della Cup – che hanno entrambi votato, insieme ai partiti nazionalisti spagnoli, la sfiducia a Sánchez.
Erc ha tuttavia ottenuto importanti concessioni in cambio del suo accordo di astenersi dal voto di fiducia. Oltre alla raccomandazione del procuratore di stato spagnolo alla Corte suprema che Junqueras abbia il diritto all’immunità come deputato europeo, le concessioni includono anche l’istituzione di un tavolo di negoziati tra Madrid e Barcellona che va oltre la commissione bilaterale concordata nel 2006 nello Statuto di autonomia della Catalogna, un accordo per sottoporre al voto dei catalani le proposte concordate a quel tavolo di negoziato e, secondo quanto riferito, anche la possibilità di un nuovo Statuto di autonomia per la regione.
Ma, allo scopo di eliminare le tensioni intorno alla Catalogna, è stato necessario confondere i punti costituzionali più controversi. Come ha spiegato la giornalista Lola García, «l’accordo [tra Psoe ed Erc] appare quasi come una rassegna di doppi sensi». Dopo aver tenuto duro nel corso dei negoziati, Erc adesso può rivendicare che le concessioni ottenute vanno oltre le promesse dello statuto sventrato del 2006, con la prospettiva di altri avanzamenti. Il Psoe, nel frattempo, si alza dal tavolo di trattativa avendo ottenuto il riconoscimento che qualsiasi passo verso una maggiore autodeterminazione deve aver luogo nel quadro dell’attuale soluzione costituzionale della Spagna. In particolare, la promessa di Erc di rispettare la «lealtà istituzionale» può essere venduta ai capi del Psoe come una convalida di tale accordo e una rinuncia implicita alla via unilaterale verso l’indipendenza.
La speranza è che ciò crei uno spazio vitale per un dialogo significativo tra Madrid e Barcellona, che solo mesi fa sembrava impossibile.
L’ambiguità costruttiva necessaria al centro di questo accordo, tuttavia, indica anche la sua intrinseca fragilità. L’accordo è, nella migliore delle ipotesi, tenuto insieme da un senso di necessità politica tra tre parti che si trovano tutte minacciate. Teoricamente, è suscettibile di esplodere in qualsiasi momento ed è dalla sua capacità di resistere a ulteriori controversie e attacchi della destra spagnola che in gran parte deriverà la durata di questo governo.
La pressione delle élite
In termini storici, il programma di governo potrebbe essere definito come moderatamente socialdemocratico, con l’obiettivo principale di ripristinare le protezioni sociali perdute e rafforzare lo stato sociale dopo un decennio di austerità post-crisi. Tuttavia, qualunque sia la sua moderazione, l’opposizione delle élite spagnole sarà totale e inesorabile – e richiederà una volontà politica sostenuta dai partner della coalizione. Come dice Iglesias in una lettera ai membri di Podemos:
I partiti di destra e il braccio mediatico delle potenze economiche ci colpiranno duramente a ogni passo che faremo, per quanto piccolo. Governeremo in minoranza all’interno di un esecutivo condiviso con il Psoe, dovremo affrontare molti limiti e contraddizioni e dovremo cedere su molte cose. E, di nuovo, ci saranno quelli che investiranno molti milioni di euro e si presenteranno per molte ore in televisione a cercare di demoralizzare, frustrare e convincerci che non possiamo avere successo.
L’armamentario a disposizione dell’oligarchia spagnola è stato già messo all’opera nelle ultime settimane, mentre cercavano di delegare alla magistratura il compito di far deragliare i negoziati. A dicembre, i pubblici ministeri hanno accusato il capo regionale di Podemos a Madrid, Isa Serra, per reati di disturbo alla pubblica quiete derivanti dalla sua partecipazione a una protesta contro uno sfratto di quasi sei anni fa. Nel frattempo, mentre i negoziati tra Psoe ed Erc stavano per concludersi, il Consiglio elettorale centrale, che ha una maggioranza conservatrice, ha preso una rapida decisione per impedire al premier catalano conservatore Quim Torra e a Junqueras di ricoprire la carica eletta. L’atto criminale che ha giustificato la rimozione di Torra è stato il suo rifiuto di togliere i nastri gialli che sono esposti a sostegno dei prigionieri catalani negli edifici pubblici.
La coalizione Psoe-Podemos può aspettarsi molto di più di un «lawfare» [termine usato per indicare l’utilizzo di procedure giudiziarie allo scopo di colpire avversari, Ndt] dal modo in cui le élite e i partiti di destra cercano di vincolarli a continue sfide legali e alle conseguenti controversie sui media. In una tale situazione da pentola a pressione, è probabile che l’istinto centrista di Sánchez prenda piede prima di quanto si pensi. La sua leadership nel Psoe è caratterizzata da costanti perni tattici; il suo rifiuto di formare una coalizione con Podemos la scorsa estate era in gran parte dovuto alla sua reticenza sul dover governare in opposizione alle élite economiche e all’ala destra del suo stesso partito.
Con l’associazione dei datori di lavoro del paese (Ceoe) che fa il muso duro contro le proposte riforme economiche della coalizione – definendole «più vicine al populismo che all’ortodossia economica» – la tentazione per il Psoe sarà di annacquare i suoi impegni se non di rinunciare del tutto a quelli considerati più controversi. Nel corso dell’ultimo anno, Iglesias ha sostenuto che solo la presenza di Podemos nel gabinetto poteva garantire che un governo guidato dal Psoe avrebbe effettivamente forzato la mano verso politiche del genere. Per lui, la minaccia della cooptazione – con il partito che potenzialmente perdeva la sua identità radicale nel ruolo di partner della coalizione junior di Sánchez – è un rischio che vale la pena correre. Come il co-fondatore di Podemos Juan Carlos Monedero aveva detto a Jacobin a ottobre:
Una forza politica di trasformazione non può semplicemente essere orientata alla protesta, ma deve anche tener fede alla promessa di poter cambiare le cose attraverso il meccanismo elettorale. Abbiamo fondato Podemos con la volontà precisa di governare e come mezzo di costruzione di alternativa, non semplicemente per fare opposizione. Non nego che ci sono dei rischi. La logica istituzionale di governo potrebbe soffocare il nostro slancio trasformativo. Per questo è essenziale che le candidature elettorali si combinino con il rafforzamento delle nostre strutture extra-parlamentari.
Negli ultimi cinque anni, Iglesias si è dimostrato non solo un comunicatore brillante, ma anche un politico astuto. È rimasto in sella anche dopo essere stato fatto fuori più volte. Nel ministro del lavoro Yolanda Díaz la classe lavoratrice spagnola ha un comprovato alleato, solo l’anno scorso venne accusata di aver resistito alla polizia quando lei e altri due parlamentari di Podemos sono intervenuti per difendere i lavoratori in sciopero contro le minacce dei manganelli.
Tuttavia, per far sì che la presenza di Podemos al governo si faccia sentire, i leader del partito dovranno trovare il modo di esercitare pressioni sul Psoe, in particolare approfittando dei momenti di maggiore mobilitazione sociale per garantire che Sánchez mantenga la rotta.
Niente di tutto questo sarà facile. Ma di fronte al crescente nazionalismo spagnolo, l’alternativa a questo esperimento che unisce il centrosinistra e la sinistra radicale è un governo di estrema destra. In questo contesto, il fallimento non è un’opzione.
*Tommy Greene è un giornalista freelance e traduttore, vive a Madrid. Eoghan Gilmartin è un scrittore, traduttore e collaboratore di Jacobin, vive a Madrid.
Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro.
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