La guerra e il mondo che non c’è più
Il conflitto in Ucraina continua a produrre morte ma in questi mesi non è nato un movimento globale contro la guerra. Per costruire una politica transnazionale di pace occorre andare oltre la geopolitica e le analisi incentrate sugli Stati-nazione
La guerra in Ucraina continua a produrre morte e al contempo, mentre stabilisce poco appassionanti schieramenti di bandiera in campagna elettorale, continua a sfuggire come problema politico per tutti coloro che sono insoddisfatti dell’ordine di cose presente e continuano a sfidarlo.
Che l’invasione russa dell’Ucraina e lo scenario da terza guerra mondiale che sta determinando su scala globale non abbiano generato la nascita di un movimento globale contro la guerra è oramai cosa evidente. La difficoltà di affermare una posizione autonoma sembra lasciare spazio alla polarizzazione tra posizioni inconciliabili: una filo-ucraina di condanna del neoimperialismo russo e una filo-putiniana che attribuisce la ragione della guerra alla Nato e al suo spingersi sempre più a Est. Oppure ci si accontenta di ripetere che non ci si schiera né con la Nato né con la Russia, evitando il problema di dichiarare non per chi, ma per cosa ci si schiera.
Ciò che si è definitivamente rotto è quel mondo che aveva coltivato l’illusione di una governance globale a trazione occidentale in cui la violenza chirurgica – le cosiddette operazioni di polizia internazionale in terre lontane dall’Occidente – andava a sostituirsi definitivamente alle guerre tra Stati nazione. Quello stesso mondo che oggi si sgretola secondo linee di frattura che agiscono su molteplici piani.
La paralisi che gran parte dei movimenti sociali sta mostrando in questo nuovo scenario è perciò dettata dal rifiuto – più o meno consapevole – di assumere pienamente la nuova e spiazzante realtà in cui siamo e dalla rassicurante illusione di poter sempre avvalersi di categorie, slogan e inclinazioni proprie di un tempo oramai chiuso alle nostre spalle. Come se l’autunno della globalizzazione che ci sta restituendo questo scenario di guerra presagisca, con la forza di una legge naturale, il ritorno dell’inverno degli Stati nazione. Rifioccano richiami all’imperialismo, al colonialismo, all’autodeterminazione dei popoli e infine a una sovranità in grado di ricondurre al proprio interno movimenti di persone e di capitali, oramai definitivamente emancipati da qualsivoglia dimensione territoriale.
Ciò che a prima vista assume le sembianze di un processo di rinazionalizzazione violento della politica, di un ritorno in pompa magna degli Stati-nazione e delle loro alleanze bi-polari o multi-polari che riconfigurano le catene del valore secondo linee di «amicizia», andrebbe messo quantomeno a confronto con la gara all’accaparramento delle risorse energetiche, ben poco solidale, a cui stanno partecipando gli Stati europei (gli stessi che durante la pandemia avevano dato vita al più imponente piano di rilancio comune della storia europea).
Detto in breve, se è in atto un tentativo di riscrittura dell’ordinamento globale, riteniamo che debba comunque essere assunto nel suo aspetto contingente, come l’effetto cioè di un surplus di politica necessario a stabilizzare momentaneamente un selvaggio disordine transnazionale prodotto da molteplici spinte centrifughe, siano esse dettate dal capitale sia dai movimenti incontrollati di uomini e donne attraverso i confini così come dal loro rifiuto di un destino di sfruttamento e povertà.
Un selvaggio disordine transnazionale
L’unico ordine oggi possibile è contingente e sempre sull’orlo di tramutarsi in disordine. In questa contingenza la guerra pretende di essere un puntuale strumento di riaggiustamento che preluderebbe, in un caso, a una nuova stabilità geopolitica considerata – a Mosca come a Pechino – capace di rispecchiare una più equa multipolarità e, nell’altro, alla conservazione di quell’egemonia economico-finanziaria che – a Washington – sta da tempo sfuggendo di mano.
Di pretese fondate sul disordine è bene diffidare, con l’effetto, però, che la guerra rischia di divenire una costante del nostro presente e immediato futuro. Questo è uno dei motivi per i quali consideriamo necessario parlare di guerra e anche probabilmente il motivo principale per cui questa continua a sfuggirci. Né guerra tra Stati-nazione, né polizia globale, il brusco emanciparsi della guerra dal nazionale e dal globale ci riconsegna così la natura sregolata di un transnazionale che aveva già mostrato alcuni suoi tratti nella rivoluzione logistica del capitale così come nei movimenti perturbanti delle e dei migranti e nel governo della mobilità della forza-lavoro nel suo complesso.
Il riferimento iniziale alla terza guerra mondiale, perciò, va colto nel suo significato più ampio. Non si tratta della riproposizione di uno schema per il quale tutti i paesi si faranno la guerra né di prevedere una moltiplicazione di scontri militari oltre l’Ucraina.
Dire che questo conflitto sta dentro un processo di riconfigurazione contingente del mondo non significa sminuire le responsabilità di Putin in un’equivalenza di imperialismi contrapposti, ma rifiutare l’immaginario geopolitico che legge questa guerra come un conflitto tra un leader fascista che minaccia l’autodeterminazione di un intero popolo e quest’ultimo che risponde e resiste in nome della propria esistenza in quanto popolo. In questa guerra sono coinvolte anche altre poste in gioco. Una lettura nazionale di questo tipo non solo sarebbe cieca di fronte alle conseguenze più ampie di questa guerra – e al fatto che chi le sta subendo nell’immediato è diviso da differenze di classe, colore e di genere – ma dà anche modo a chi non è colpito direttamente di lavarsene le mani e di trascurare i segni profondi e terribili che impattano sulla vita di tutte e tutti. Senza nulla togliere alla solidarietà verso chi è sotto i bombardamenti e colpito direttamente dalla violenza dell’esercito russo, è necessario rovesciare la prospettiva e capire fino a che punto e in che modo siamo già coinvolti e coinvolte in questa guerra che ha già cambiato tutto.
Ciò che è profondamente mutato, dal nostro punto di vista, è innanzitutto il terreno delle lotte, anche quelle distanti dal teatro di guerra. Dal Bangladesh al Tagikistan, dallo Sri Lanka al Pakistan, passando per quel che succede in Sud Africa o nella turbolenta UK, assistiamo all’esplosione di insorgenze e instabilità politiche che impongono la pratica di un’immaginazione transnazionale che ci sottragga dalla retorica geopolitica dei sacrifici imposti in nome di una sicurezza che non ci renderà mai sicuri e men che meno a quella di una riconquistata sovranità democratica. Questa guerra mondiale costringe ognuno di noi a pensare alla propria situazione all’interno di uno scenario transnazionale.
La Permanent Assembly Against War
Nella direzione di un’immaginazione non ipotecata da un’idea di pace come stabilità, come conferma dell’ordine degli e negli Stati-nazione, di una pace che, in nome dell’autodeterminazione dei popoli, mette a tacere le disuguaglianze e le loro lotte e pretende di stabilire la posizione delle donne dentro e oltre la guerra, e di imporre gerarchie funzionali a un ordine della produzione costretto a muoversi tra la guerra e la pace, va l’esperimento della Permanent Assembly Against War (Paaw). Un’assemblea permanente che, a partire da un appello della Transnational Social Strike Platform, progetto politico nato nel 2015 a ridosso delle mobilitazioni di Blockupy, in questi mesi ha permesso la comunicazione tra centinaia di attiviste e attivisti, lavoratrici e lavoratori, migranti, uomini, donne e persone Lgbtq+ da Ucraina, Russia, Polonia, Georgia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania, Ungheria, Grecia, Regno Unito, Francia, Italia, Slovenia, Moldavia, Germania, Turchia, Usa e altri paesi. Nel corso dei diversi appuntamenti che si sono tenuti in questi mesi (20 marzo, 9 aprile, 22 maggio, 3 luglio) la Paaw ha provato ad articolare una posizione comune su cosa significa politica transnazionale di pace. Una posizione che piuttosto che sorvolare sulle o comporre le differenze che segnano la condizione contemporanea si è data come loro articolazione, costruendo collegamenti contro il tempo della guerra, dei salari poveri e delle nuove e vecchie gerarchie sessuali e razziste, facendo valere attraverso i fronti e i confini il tempo della sottrazione, organizzazione e insubordinazione, come successo il 1 maggio.
Uno spazio di comunicazione – unico nello scenario globale – in cui ci si è assunti il rischio di far parlare tra loro posizioni e differenze che spesso si vogliono incomunicabili: chi sta resistendo legittimamente in Ucraina all’invasione e chi in Russia sfida costantemente il regime autoritario di Putin, chi è immediatamente confinante con le zone di guerra e chi, sebben distante, ne subisce le ripercussioni. Uno spazio dove ha preso forma il rifiuto di una guerra che impedisce di combattere le battaglie che autonomamente si potrebbero e dovrebbero combattere, dalla lotta per un permesso di soggiorno europeo a quella per un salario che non faccia della vita una guerra quotidiana per la sopravvivenza, a quella, ancora, contro un patriarcato che si rafforza fuori e dentro lo scenario bellico e intensifica gerarchie e differenze.
Contro la guerra che azzera tutte le possibilità di lotta, le rimanda a data da destinarsi, noi pensiamo che una politica transnazionale di pace sia la strada per ricostruire i presupposti perché quelle lotte possano organizzarsi, senza che la militarizzazione dei confini e delle economie impedisca la comunicazione politica tra condizioni simili o che possono parlarsi. Se la pace è l’obiettivo, esso non deve essere astratto, né può ridursi a un generico rifiuto della violenza. Pace significa qui più specificamente mettere fine a una condizione in cui donne, migranti, operai muoiano per dover ubbidire, per vivere o per scappare.
Sostenere gli uomini e le donne ucraine sotto i bombardamenti con azioni di solidarietà, coordinare le iniziative contro la gestione razzista dei flussi di rifugiati, fare luce sulle forme di opposizione alla guerra, soprattutto quelle russe completamente invisibilizzate dai media mainstream, non è più sufficiente. Noi riteniamo che la posta in gioco sia quella di tenere vivo e alimentare uno spazio transnazionale di comunicazione politica e non una semplice sommatoria di iniziative diverse, fare dell’opposizione a questa guerra un progetto politico. Una prossima occasione di incontro dell’assemblea – la prima in presenza – si terrà sabato 10 settembre all’interno del Transnational Social Strike Meeting a Sofia, dall’8 all’11 di settembre. Il meeting di quest’anno – Take the initiative. Change the war climate! –, per il quale ci sono già state più di un centinaio le registrazioni da diversi paesi come Bulgaria, Georgia, Turchia, Slovenia, Bosnia, Romania, Serbia, Grecia, Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Portogallo, Spagna, Repubblica Ceca, Azerbaigian, Austria e che vedrà la presenza anche di partecipanti dall’Ucraina, dal Rojava e dal movimento di opposizione contro la guerra in Russia, ha l’ambizione di costruire una posizione autonoma dentro uno scenario turbolento in cui la guerra sta esacerbando le crisi sociali e riproduttive producendo un contesto dentro cui, e contro cui, dobbiamo imparare a lottare, a scioperare come scrivono le attiviste e gli attivisti nel Manifesto per una politica transnazionale di pace.
Oltre l’internazionalismo
Il transnazionale a cui si fa riferimento ha poco a che spartire con la logica dell’internazionalismo novecentesco. Ciò che è venuto meno non è tanto la consapevolezza che guerra e nazionalismi colpiscano prima di tutto la classe operaia, quanto le condizioni stesse di stabilire relazioni politiche tra movimenti, sezioni di forza-lavoro, uomini, donne e persone Lgbtq+ organizzate su base nazionale. Né basta invocare l’intersezionalità delle lotte per aggiornarlo, perché è esattamente quella scala nazionale e quindi internazionale del mondo che questa guerra ha contribuito definitivamente a mettere a soqquadro.
Il piano transnazionale su cui sono organizzate produzione e riproduzione sociale e il movimento senza precedenti di persone attraverso le frontiere impediscono di pensare il problema dell’organizzazione politica in modo scalare, in un percorso incrementale che dalla sintesi dei piani nazionali dia come esito un piano transnazionale. Lo stesso vale, a nostro avviso, per la crisi climatica, i cui nodi non possono essere affrontati secondo la logica erratica delle singole emergenze territoriali, ma devono essere pensati e agiti lungo catene ambientali che non hanno confini stabili.
Il transnazionale è dunque il nome di una cosa, perché è già qui ed esiste indipendentemente da ogni retorica di rinazionalizzazione. Ma è anche il nome di un problema, perché pone una sfida organizzativa che non può corrispondere semplicemente a una democratizzazione delle istituzioni transnazionali in essere e, in primis, quelle dell’Unione europea.
I valori democratici di cui essa si fa bandiera, dietro e dentro l’Alleanza atlantica, non possono offuscare gli effetti di trasformazione neoliberale in un Europa dell’Est che, sia quando già integrata sia quando sulla soglia di esserlo, viene mantenuta in una sorta di sala di attesa in cui vengono operate chirurgicamente e senza anestesia riforme delle relazioni industriali e sindacali, dei sistemi di welfare e delle condizioni di vita di milioni di persone.
Noi riteniamo che occorra muoversi dentro queste contraddizioni, approfondirle e metterle in comunicazione, coscienti che non sarà un ritorno al territorio e men che meno alla comunità il modo per organizzarsi e affrontare le trasformazioni della produzione e della riproduzione sociale che segnano il presente, nonché per immaginare le lotte future. Non possiamo voltare le spalle a quel problema che abbiamo chiamato transnazionale. Perché dietro quel problema ci sono le vite concrete di uomini e donne, vite singole e vite collettive, le condizioni del loro presente e le possibilità del loro futuro. Ci sono, ancora, voci e lotte in cerca di una pace diversa e di una libertà nuova.
*Luca Cobbe fa parte di ∫connessioniprecarie e svolge attività di ricerca in storia del pensiero politico presso l’Università di Roma – Sapienza. Michele Cento fa parte di ∫connessioniprecarie e svolge attività di ricerca in storia contemporanea presso l’Università di Bologna.
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