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Elmi d’acciaio e cilindri di seta
Di fronte alle nuove guerre torna alla mente la lungimiranza dell’antimilitarista Kurt Tucholsky, che fu in grado di riconoscere i sintomi degli eventi
Dopo secoli di guerre diffuse il monopolio dell’uso della forza fu centralizzato e nazionalizzato, conferendo agli Stati nazionali europei in competizione il diritto di farsi guerra reciprocamente. Questi Stati, animati da nuove ambizioni imperialiste, si sono dunque armati come mai prima. Già verso la fine del XIX secolo, si profilava l’ombra di una grande guerra in Europa quale esito della cosiddetta Gründerkrise, la crisi economica collegata alla fondazione del Reich, negli anni Settanta dell’Ottocento: «E infine, per la Germania prussiana, non è possibile altro che una guerra mondiale, una guerra mondiale di estensione e intensità fino ad allora inimmaginabili. Da otto a dieci milioni di soldati si annienteranno a vicenda, divorando tutta l’Europa in modo così devastante come mai un nugolo di cavallette ha fatto prima. Le devastazioni della Guerra dei Trent’anni concentrate in tre o quattr’anni e sparse su tutto il continente; carestia, epidemie, un generale imbarbarimento degli eserciti e delle masse popolari, causato dall’acuta penuria; una confusione inestricabile dei nostri affari commerciali, industriali e finanziari, culminante in bancarotta generale», prevedeva Friedrich Engels nel 1887.
Non fu dunque un caso che all’epoca si stesse già sviluppando un’ampia gamma di idee pacifiste, basate su principi morali, etici e scientifici. I loro rappresentanti, principalmente borghesi come Bertha von Suttner, Ludwig Quidde, Alfred H. Fried, Hellmut v. Gerlach e altri, ritenevano legittime solo le guerre di difesa della propria nazione, senza riconoscere i pericoli emergenti del nuovo imperialismo. Si incontrarono in varie conferenze di pace, senza dubbio con buone intenzioni, ma con scarso successo e nel 1914 erano già ridotti al silenzio. Già allora i pacifisti erano stati messi in minoranza dalla mobilitazione demagogica dei sostenitori della guerra. A parte Karl Liebknecht, nessun deputato al Reichstag votò contro l’autorizzazione dei crediti di guerra; la socialdemocrazia si era già allineata con i bellicisti, come ancora accade oggi.
I
Dopo le terribili esperienze di due guerre mondiali e di un altro centinaio di conflitti locali dal 1945 in avanti, molte persone in tutto il mondo, ancora capaci di ragionare in modo indipendente, hanno pensato, detto e scritto tutto, ma proprio tutto il possibile sulla necessità di mantenere la pace. E comunque tutti questi sforzi non sono riusciti a evitare neanche una singola guerra. Di fronte alle nuove guerre che ormai sono vicine a noi, ritorna alla mente la lungimiranza dell’antimilitarista Kurt Tucholsky, vissuto cent’anni fa. Non era un chiaroveggente, ma fu in grado di riconoscere tempestivamente gli eventi come sintomi.
«Cominciò nel verde e finì rosso sangue»: così Ignaz Wrobel (uno pseudonimo di Tucholsky) riassunse «il percorso dalla pace alla guerra, 1913-1918». Non poteva prevedere che ottant’anni dopo, il partito dei Verdi, proprio questo partito, si sarebbe assunto la responsabilità del dispiegamento di forze militari tedesche all’estero, in Jugoslavia, per la prima volta dal 1945. E oggi, sono i ministri dei Verdi al governo a invocare con sempre maggiore insistenza l’uso di armi che si tingono di rosso sangue.
Tucholsky sapeva che sono sempre le strutture del potere economico e gli interessi geopolitici delle rispettive borghesie nazionali a determinare le politiche di guerra. Vedeva in queste borghesie i promotori principali dei futuri conflitti: «In Germania, il pericolo reale è rappresentato dal tipo trasversale à la Stresemann, che si ritrova in tutte le sfumature, dai nazionalisti tedeschi fino al partito democratico».
Dopo aver visto sfilare una colonna dell’organizzazione paramilitare dello Stahlhelm (elmo d’acciaio) a Potsdam, nel maggio del 1927, Tucholsky aggiunse: «Dal 1913 faccio parte di coloro che ritengono che lo spirito tedesco sia corrotto quasi senza rimedio, che considerano la democrazia costituzionale una facciata e una menzogna. Contro tutte le rassicurazioni ottimistiche, non credo affatto che un vuoto elmo d’acciaio sia più pericoloso di un morbido cilindro di seta».
Oggi i leader della borghesia tedesca non indossano più cilindri di seta, nemmeno a Bayreuth, e sarebbe più corretto definirli rappresentanti tedeschi del capitale transnazionale. Questi possono, per esempio, sostenere le azioni di guerra-difesa dell’Ucraina, anche se il loro essere in prima linea nella guerra economica contro la Russia non rispecchia affatto gli interessi dell’economia nazionale tedesca. L’aumento delle sanzioni ha effetti economici multilaterali, colpendo anche le proprie economie, così come l’incremento degli armamenti alimenta una maggiore insicurezza reciproca.
Tutto ciò evidenzia oggi il reale stato di mancanza di sovranità della Germania. Tuttavia, neanche all’Europa viene assegnato un ruolo autonomo e indipendente nella lotta contro la prevedibile fine del dominio statunitense sul mondo. Anch’essa deve ora fare i conti con la cambiale che gli Stati Uniti d’America le hanno rilasciato dopo il 1945, come biglietto d’ingresso nel loro cosiddetto «mondo libero». La promessa di quel mondo libero, con prosperità in continua crescita per tutti, si è conclusa con una crisi climatica e ambientale immensa, mentre nuovi conflitti di distribuzione mettono a repentaglio le condizioni di vita già della maggior parte dell’umanità. E la storia ci insegna che il capitalismo non ha saputo far altro che affrontare le sue ripetute grandi crisi principalmente attraverso guerre e distruzione del capitale.
II
Dopo la Prima guerra mondiale, Tucholsky scrisse: «All’operaio esperto oggi è chiaro che cosa sia stata questa guerra. Non già una necessità naturale, non lo scontro di due correnti di pensiero, non una ‘colata d’acciaio’ per l’anima di un popolo. È stata una cosa diversa. Questa guerra è stata la naturale conseguenza del sistema capitalistico mondiale». E aveva valutato i moti rivoluzionari del novembre 1918 dicendo: «Non c’è stata nessuna rivoluzione in Germania, piuttosto una controrivoluzione». Proprio nella mancanza di azioni rivoluzionarie riuscite e nei ripetuti compromessi di classe con i poteri dominanti, Tucholsky individuò i motivi che avrebbero innescato una lunga depressione politica:
Da secoli questa è la grande miseria e disperazione del paese: aver creduto di poter domare la forza bruta con una spiritualità penetrante. Se noi, che siamo diversi, che abbiamo visto al di là delle cose e siamo convinti che il mondo, così com’è, non possa essere il fine ultimo della specie umana, non abbiamo un esecutore delle nostre istanze spirituali, allora siamo in eterno condannati a vivere in mezzo ai macellai; e a noi restano soltanto libri, carta e inchiostro con cui trastullarci. È assolutamente sterile ritenere che si possa rinunciare all’azione negativa dell’abbattere, se si vuole costruire qualcosa di nuovo.
Ed egli si rese conto molto presto che le condizioni del dopoguerra di Weimar non avrebbero permesso alcun allontanamento dall’autoritarismo e dal militarismo. Il suo sconvolgente bilancio del sistema militare tedesco, apparso nelle pagine della Weltbühne tra il 1919 e il 1920, in otto saggi intitolati Militaria, derivava dalla sua diretta esperienza di guerra e in un certo senso anticipò gli orrori della Seconda guerra mondiale. Ma non ebbe alcun effetto.
Nella nuova Repubblica di Weimar Tucholsky vedeva solo un periodo di pausa «tra due guerre», e nella nota poesia Guerra alla guerra, del 1919, aveva già previsto con precisione: «e tra altri vent’anni arriveranno di nuovo i cannoni». Quel titolo, che divenne lo slogan delle manifestazioni antimilitariste dei primi anni Venti, significa anche combattere contro coloro che inscenano guerre per poi trarre profitto da tutte le guerre che lasciano fare ad altri, sempre ad altri.
Nell’agosto 1931, Tucholsky, ormai completamente disilluso, ricordò in occasione dell’anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale: «Per quattro anni ci furono allora intere miglia quadrate di territorio, sulle quali l’assassinio era d’obbligo, mentre a una mezz’ora di distanza esso era severamente proibito. Ho detto assassinio? Certo assassinio. I soldati sono assassini!» – e quest’ultima affermazione fu oggetto non solo di un processo politico nel 1931-32, ma anche di accesi dibattiti e di un altro processo nella Repubblica Federale che si concluse solo nel 1992.
Oggi possiamo ancora proferire questa frase ad alta voce? Il nostro mondo mediatico sembra ormai omologato e permette solo la propaganda abituale in ogni guerra, anche se oggi de iure non siamo nemmeno direttamente in guerra, ci limitiamo ad alimentarla dalle retrovie.
Tucholsky conosceva l’importanza della manipolazione di massa anche in un cosiddetto periodo di pace ed era solito ripetere: «Sta diventando sempre più chiaro quale sia la vera causa della guerra: l’economia e l’ottusità delle masse ineducate e sobillate». E aggiungeva: «La guerra moderna ha cause economiche. La possibilità di prepararla e di riempire le trincee di sacrifici al primo segnale è consentita solo a patto che questa operazione omicida venga prima presentata come qualcosa di morale attraverso la manipolazione persistente delle masse. Ma la guerra è profondamente immorale in ogni circostanza».
Era convinto che la Prima guerra mondiale avrebbe avuto seguito se non si fossero eliminati i suoi presupposti, e – a Parigi nel 1926, durante una mostra sulla cultura tedesca – commentò: «Non si combatte questo stato di guerra latente […] esponendo oggetti artistici, bensì eliminando i responsabili e le origini di questo ordine economico. Esso non può mantenere la pace, perché necessita della guerra per poter vivere». Con queste poche parole, identificava le premesse di tutte le guerre moderne e di conseguenza diffidava sia della politica estera dell’appeasement di Stresemann sia del cosiddetto «spirito di Locarno», che avrebbe dovuto garantire la futura pace in Europa a metà degli anni Venti: «Noi tedeschi non perseguiamo affatto la pace. Non è vero che amichevoli colloqui sul lago di Ginevra elimineranno l’origine profonda di guerre future: ossia la libera economia, i confini doganali e la sovranità assoluta dello Stato […] Ci ritroviamo allo stesso punto in cui eravamo nel 1900, ossia tra due guerre».
Tucholsky non condivideva neanche la fiducia nel nuovo diritto all’autodeterminazione dei popoli, già propagandato all’epoca e con cui il presidente americano Wilson aveva sostenuto la fondazione di nuovi Stati dopo la dissoluzione della monarchia austro-ungarica. Egli considerava questo diritto solo in apparenza democratico e addirittura pericoloso, nella misura in cui distoglieva l’attenzione dalle reali costellazioni del potere in Europa:
Il Trattato di Versailles ha stabilizzato il particolarismo politico […] L’errore fondamentale di queste fondazioni di nuovi stati consiste nel fatto che nessuno di loro trae alcun vantaggio dall’essere piccolo e militarmente debole […] A loro manca la legittimazione della propria esistenza.
E Tucholsky non condivideva nemmeno le tesi del progetto paneuropeo del Conte Coudenhove- Kalergi, rivolto contro il Trattato di Versailles in funzione antisovietica, a favore di un’unione economica europea con moneta e difesa militare comune, un’unione realizzata nemmeno oggi. Tucholsky presagiva – simile in questo a Lenin nel 1915 – che in un’unione europea capitalistica sarebbero sorte nuove differenze e dipendenze coloniali. Egli auspicava invece una convivenza dei popoli europei come partner in un condominio: «Questa casa si chiama Europa», aveva scritto nel 1926 – anticipando di sessant’anni esatti la formulazione di Michail Gorbaciov (1986). Come sappiamo, senza successo.
Basti pensare alle micidiali implicazioni della componente etnica sottesa al principio dell’autodeterminazione nella successiva disgregazione della Jugoslavia – per non parlare delle ulteriori conseguenze distruttive dopo la dissoluzione della stessa Unione Sovietica, che oggi ci troviamo ad affrontare.
III
Il problema della realizzazione delle premesse per una pace duratura preoccupava molti dopo la Prima guerra mondiale. In uno scambio di lettere con Sigmund Freud nel 1932, anche Albert Einstein constatò che «la minoranza di coloro che detengono il potere ha in mano la scuola, la stampa e di solito anche le organizzazioni religiose. Attraverso di esse controlla e orienta i sentimenti delle masse e le rende propri strumenti privi di volontà».
Lottare oggi contro questa manipolazione che domina l’opinione pubblica, soprattutto nelle nostre cosiddette post-democrazie, tramite la «diffusione dell’ignoranza per mezzo della tecnica» (come formulò Tucholsky con lungimiranza già nel 1924), da parte di cartelli mediatici che operano ormai a livello globale, pone noi posteri davanti a un problema molto complesso. Se la funzione dei mass media mirava già allora a un «occultamento della verità e alla distrazione dall’essenziale», dobbiamo chiederci se e, in caso affermativo, come oggi sia ancora possibile e possa essere perseguito un obiettivo di controinformazione con una prospettiva di «efficacia» illuministica.
Eppure Erich Kuby ripensando la prima metà del Novecento, a distanza di venticinque anni dalla morte di Tucholsky (1935), aveva constatato nel 1960:
Dopo che è stato dimostrato in modo così lampante che di ragione e pensiero si può fare a meno, questi sono stati a tal punto screditati che, in nome della ragione, a nessuno può più essere procurata anche solo un’ora di insonnia.
Già Tucholsky aveva dato espressione ai suoi dubbi e sentimenti contraddittori nel contesto postbellico nella primavera del 1920: «Dove porterà tutto questo? Non lo sappiamo. Folle negare i sintomi della decadenza. Folle pensare di opporvisi. Un mondo vacilla e voi vi attaccate alle vecchie concezioni, cercando di convincervi che siano necessarie e naturali come il sole […] come se il bene antico non fosse ancora morto e un giorno dovesse tornare. Non tornerà mai più. […] Un’ondata ricopre la terra. Non è soltanto di natura economica […] Non si tratta solo della questione di come distribuire le risorse economiche del mondo, di chi debba lavorare e chi debba sfruttare. È in gioco di più, è in gioco tutto. […] È un crepuscolo. E ignoriamo cosa sia: un tramonto oppure un’alba». Temo che oggi quel dubbio non esista più e sappiamo di cosa si tratta: Come unica risposta alla profonda crisi mondiale del capitale ci troviamo davanti a una militarizzazione di innumerevoli conflitti con annesse campagne di propaganda.
E proprio per questo pare utile richiamare alla mente ancora una volta il monito che Bertolt Brecht rivolse al Congresso dei popoli per la Pace a Vienna nel 1952: «La memoria dell’umanità per le sofferenze subite è sorprendentemente corta. La sua capacità di immaginare sofferenze future persino più corta. È questa insensibilità che dobbiamo combattere, il suo stadio ultimo è la morte. Già oggi, troppi sembrano morti, sembrano essersi lasciati alle spalle ciò che ancora deve venire, talmente piccolo è lo sforzo che fanno per opporvisi. Continuiamo dunque a ripetere ciò che è stato già detto mille volte, affinché non sia mai troppo poco! Ribadiamo i moniti, anche se sanno già di cenere nelle nostre bocche! Perché l’umanità è minacciata da guerre a paragone delle quali le guerre passate non sono che miseri tentativi. Arriveranno senza dubbio se le mani di coloro che le preparano davanti ai nostri occhi non saranno spezzate».
*Susanna Böhme-Kuby ha insegnato letteratura tedesca per decenni negli atenei di Genova, Udine e Venezia. Ha pubblicato Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (il melangolo, 2002.) dalla quale sono tratte le citazioni nel testo.
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