Allarme Stellantis
La rabbia di lavoratrici e lavoratori dell'automotive è una buona notizia di fronte al declino del settore. Ma servono prospettive globali e un nuovo paradigma di mobilità sostenibile
Le metalmeccaniche e i metalmeccanici che si sono radunati a Roma lo scorso venerdì, in occasione dello sciopero del comparto automotive promosso unitariamente – per la prima volta dopo trent’anni – da Fim, Fiom e Uilm, si aspettavano pioggia. E invece la più classica delle ottobrate romane ha accolto le lavoratrici e i lavoratori venuti da tutta Italia, costringendoli a metter via ombrelli e k-way, a tirar fuori gli occhiali da sole e a sfoggiare le t-shirt che i sindacati, forse per omaggiare i costumi dei colleghi venuti da oltreoceano, avevano preparato appositamente per lo sciopero. Se la pioggia avrebbe definitivamente sancito che la situazione dell’industria automobilistica italiana può sempre «esser peggio», neanche il sole è riuscito a smorzare le valutazioni pessimistiche rispetto al futuro del settore. Ed è proprio il giudizio comune sulla gravità della situazione, più che la condivisione di prospettive politiche sulla transizione, ad aver permesso – per stessa ammissione dei loro segretari – ai sindacati confederali metalmeccanici di scendere in piazza assieme, mettendo per il momento da parte le divisioni che da quasi tre lustri caratterizzano la categoria, in particolare rispetto alle vicende relative al gruppo Fiat-Fca-Stellantis.
Un decennio dopo il modello Marchionne
Come tutti sanno, e come molti trovano comodo dimenticare, nel 2010 l’allora amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne impose agli operai di Pomigliano prima, e a quelli di tutto il gruppo poi, una revisione al ribasso delle condizioni contrattuali – in termini di flessibilità, pause, ritmi di lavoro, nonché di limitazione del diritto di sciopero – minacciando la chiusura degli stabilimenti e la delocalizzazione delle produzioni. Tale vicenda ha prodotto nel tempo un peggioramento significativo e documentato delle condizioni di lavoro e salariali per gli operai e le operaie della Fiat, ma è stato anche la causa scatenante di una frattura sindacale tra le organizzazioni che accettarono il ricatto di Marchionne e quelle che vi si opposero.
Mentre le seconde sono state ostracizzate dagli stabilimenti, venendo reintegrate solo a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, le prime hanno goduto di piena «agibilità sindacale» dentro le fabbriche, pur all’interno di un quadro di relazioni sindacali sensibilmente mutato. Nel 2012, infatti, l’allora Fiat optò per uscire da Confindustria, abbandonando l’ombrello della contrattazione di settore e dei contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl). Da allora, negli stabilimenti del gruppo viene applicato un «contratto collettivo specifico di lavoro» (Ccsl), che prevede tutele ridotte rispetto a quelle sancite dal Ccnl metalmeccanico e irreggimenta l’azione sindacale all’interno di un sistema di «commissioni paritetiche», rendendola di fatto subalterna alla logica aziendale di «prevenzione» del conflitto.
La compressione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori avrebbe dovuto garantire la «sostenibilità economica» degli stabilimenti italiani, assicurandone la perennità e preservandone i livelli occupazionali. Nulla di tutto questo è accaduto. Secondo i numeri forniti dalla stessa Fiom, dal 2014 i dipendenti della Fiat in Italia sono diminuiti di circa 11.500 unità, di cui 2.800 presso i soli «enti centrali» (dove si raggruppano la ricerca e sviluppo e le funzioni commerciali). A questi vanno aggiunti non solo gli oltre 3.000 lavoratori in somministrazione non riconfermati la scorsa estate, ma anche le quasi 3.600 uscite volontarie incentivate, concretizzatesi grazie ad accordi sindacali siglati nel marzo scorso proprio dalle organizzazioni firmatarie del Ccsl. E se, dopo la cessazione della produzione dello stabilimento di Termini Imerese nel 2011, quello della chiusura delle fabbriche sembrava ormai un incubo scongiurato, il tabù è stato infranto nel dicembre dello scorso anno con il trasferimento a Mirafiori degli ultimi operai rimasti nel sito di Grugliasco, ormai messo in vendita.
Proprio la chiusura della fabbrica di Grugliasco – fulcro di quello che avrebbe dovuto essere il «polo del lusso», e forse perciò intitolata all’Avvocato Giovanni Agnelli, che avvocato non è mai stato – testimonia del fallimento della strategia di Marchionne, incentrata sull’abbandono della produzione in Italia di veicoli per il mercato di massa (eccezion fatta per la Panda prodotta a Pomigliano) a favore di veicoli di gamma medio-alta. La «premiumizzazione» ha determinato il dimezzamento dei volumi produttivi, che la produzione di auto di lusso non è riuscita adeguatamente a compensare, complice anche il crollo del segmento dovuto alla crisi Covid e alla crescente concorrenza cinese. Allo stesso tempo, il manager italo-canadese mostrava quella che con un eufemismo si potrebbe chiamare «scarsa lungimiranza» nei confronti dell’auto elettrica, facendo trovare l’azienda sostanzialmente impreparata di fronte alla transizione decisa dalla regolazione europea e costringendola a correre ai ripari promuovendo la fusione con Psa, da cui nel 2021 è nata Stellantis.
La dismissione delle fabbriche italiane
La nascita del conglomerato italo-francese ha accelerato il processo di sostanziale dismissione delle fabbriche italiane, non tanto per la millantata preferenza del management per gli stabilimenti d’oltralpe (che in realtà se la passano poco meglio dei nostri, avendo perso seimila posti di lavoro dal 2017 al 2023), ma proprio perché ha di fatto aumentato la concorrenza tra i vari siti produttivi per l’assegnazione dei modelli e per gli investimenti, specialmente quelli legati all’elettrificazione della gamma. In questo contesto, il crollo attuale dei volumi produttivi – che in Italia si attesteranno nel 2024 attorno al mezzo milione di veicoli, con le auto scese a quota 300 mila, il minimo dal 1957 – rappresenta solo una tappa ulteriore di un processo di ristrutturazione globale del gruppo che, seguendo il mantra della riduzione sfrenata dei costi, ha progressivamente delocalizzato le produzioni e indirizzato gli investimenti verso i paesi dell’est Europa e del nord Africa, che garantiscono un minore costo del lavoro nonché diritti inferiori per le lavoratrici e i lavoratori.
E mentre Stellantis concentra su questi ultimi (in tutti i sensi) le proprie strategie di sfruttamento, i penultimi – i dipendenti delle fabbriche italiane – vedono ogni mese il proprio salario decurtato dalla cassa integrazione e dai suoi omologhi ammortizzatori sociali. La situazione è talmente grave che, come ha ricordato dal palco di Piazza del Popolo un delegato dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, ormai le lavoratrici e i lavoratori ironizzano sull’essere dipendenti Inps piuttosto che della ex-Fiat, tanto è stato ricorrente e protratto il ricorso agli ammortizzatori sociali. Se Mirafiori è entrata quest’anno nel diciassettesimo anno consecutivo di cassa integrazione, in una situazione non dissimile versano infatti gli stabilimenti di Cassino, Termoli e della stessa Pomigliano. Senza contare che gli ammortizzatori sociali sono finanziati da contributi versati dal datore di lavoro (nel caso della cassa integrazione ordinaria) ma anche dallo Stato (nel caso della cassa integrazione straordinaria e del contratto di solidarietà). Secondo dati raccolti da Davide Bubbico e recentemente pubblicati dal Corriere della Sera, tra il 2014 e l’aprile 2024 Fca-Stellantis avrebbe ricevuto contributi per 1 miliardo e 430 milioni di euro, di cui solo 543 a carico dell’azienda e ben 887 a carico dello Stato.
Considerato poi l’assetto del settore automotive in Italia, la dismissione di Stellantis ha prodotto e continuerà a produrre conseguenze a cascata per tutta la filiera produttiva, ove per lungo tempo la presenza di un unico produttore su tutto il territorio nazionale – un’eccezione rispetto a paesi come Francia e Germania – ha generato rapporti di sostanziale mono-committenza. Il graduale processo di «smarcamento» del settore della componentistica dalla dipendenza dalla casa ex-torinese non nasconde il fatto che, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Anfia, a oggi due terzi delle aziende sono inserite nella catena del valore di Stellantis, e che addirittura un terzo ha ottenuto nel 2022 la metà o più del suo fatturato da vendite al gruppo. Anche le lavoratrici e i lavoratori di queste aziende, come quelli degli stabilimenti Stellantis, hanno pagato caro il prezzo del calo dei volumi produttivi e della conseguente riduzione delle commesse, che ha generato un ricorso strutturale agli ammortizzatori sociali e un’agguerrita competizione sui costi tra le imprese della filiera.
I dati dello sciopero e l’esempio statunitense
Alla luce di tutto questo, la rabbia delle lavoratrici e dei lavoratori del settore, palpabile lungo il corteo e nei vari interventi susseguitisi sul palco da parte di delegate e delegati degli stabilimenti Stellantis e dell’indotto, appare più che giustificata. Le organizzazioni sindacali, sia al termine della manifestazione in Piazza del Popolo che in un comunicato stampa unitario diramato nella serata, si sono dette soddisfatte della riuscita dello sciopero e della manifestazione. Rivendicano la presenza di oltre 20.000 persone in piazza e gli alti tassi di adesione allo sciopero, con punte del 100% in alcune delle aziende che più stanno attraversando fasi di profonda crisi, come la Lear di Grugliasco (Torino) e Industria Italiana Autobus (Iia) di Bologna e Flumeri (Avellino). Ma anche nelle fabbriche del gruppo Stellantis le tute blu hanno partecipato in massa allo sciopero, come dimostra il 100% di adesione a Melfi, Pratola Serra e alla Maserati di Modena, il 95% a Pomigliano d’Arco, il 90% a Cassino e l’85% a Mirafiori – tutti stabilimenti che si trovano nel vortice del crollo dei volumi produttivi della multinazionale. Considerato come la cassa integrazione sia uno dei modi che la Fiat e il padronato in generale hanno sempre utilizzato per frammentare i lavoratori e sfibrare il tessuto sociale in fabbrica, sfruttandola anche per marginalizzare gli operai più attivi sul piano sindacale, la riuscita diffusa dello sciopero non può che essere una buona notizia.
Oltre ai segretari generali delle organizzazioni sindacali e ai delegati, sul palco non è mancata una vena d’internazionalismo, con gli interventi di una rappresentante di IndustriALL, la federazione dei sindacati europei dei settori metallurgico, chimico, energetico, minerario e tessile, e del direttore della Region 4 del sindacato statunitense United Automobile Workers (Uaw). Alla Region 4 afferisce la Local 1268, ossia la sezione sindacale che comprende la Belvidere Assembly Plant, a nord di Chicago, fabbrica che Stellantis si era impegnata a riaprire. Di fronte al mancato rispetto della promessa da parte del management, l’Uaw è tornato a mobilitarsi con la campagna Stellantis keep the promise!, sull’onda della straordinaria mobilitazione messa in atto lo scorso anno in occasione del rinnovo contrattuale, che ha portato ad aumenti salariali senza precedenti.
La presenza del combattivo sindacato statunitense, che ha aspramente criticato Tavares («If you did your job the way Carlos does his, you’d be fired!», «Se faceste il vostro lavoro nella maniera in cui Carlos fa il suo, sareste licenziati!») e incoraggiato le lavoratrici e i lavoratori presenti a lottare contro la «corporate greed», l’avidità delle aziende, lascia affiorare una flebile speranza che anche per i sindacati metalmeccanici italiani possano tornare i giorni della radicalità.
L’urgenza di un nuovo paradigma di mobilità sostenibile
Emerge tuttavia in maniera chiara che ritrovarsi in piazza non sarà sufficiente di per sé a rimarginare le profonde divisioni che hanno segnato il fronte sindacale in questi anni, sintetizzate dalle posizioni tuttora differenti rispetto alla firma del Ccsl. Così come sono risultate evidenti – e chiaramente tangibili dagli interventi dal palco – considerevoli differenze di vedute, in primis sui temi della transizione all’elettrico e della regolazione sulle emissioni inquinanti introdotta dall’Unione europea. Proprio su questo nodo si sono soffermati diversi interventi di lavoratrici e lavoratori, da cui sono emerse letture di fase e prospettive divergenti in merito ai tempi e alle modalità della transizione. È indicativo, in questo senso, uno striscione comparso in corteo che recitava «La soluzione… gradualità e neutralità tecnologica. Non solo elettrico». Tale scetticismo sembra essere la triste ma naturale conseguenza di una transizione finora governata dall’alto ma condizionata dalle esigenze delle grandi aziende e spesso utilizzata da queste come scorciatoia per giustificare tagli e licenziamenti. Seppur comprensibili alla luce dell’impatto salariale e del peso di una situazione di perenne incertezza occupazionale, queste ritrosie rischiano di trasformarsi in strumenti nelle mani delle multinazionali e dei partiti conservatori (e non) per alimentare ulteriori strategie di delaying verso il raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica.
È dunque compito delle organizzazioni sindacali quello di coinvolgere lavoratrici e lavoratori in una discussione su un nuovo paradigma di mobilità sostenibile, che superi l’egemonia dell’automobile mettendo al primo posto la necessità d’investire nel trasporto pubblico. Che utilizzi la leva della contrattazione collettiva per negoziare con le aziende non solo come si produce, ma anche cosa si produce. Che ricorra allo strumento della convergenza per elaborare dal basso piani industriali per le aziende in crisi. Che chieda alla politica di mettere in campo politiche industriali in grado di tenere assieme la riconversione del sistema produttivo con la tenuta occupazionale e di implementare misure volte all’assorbimento e alla redistribuzione dei costi sociali ed economici della transizione, finora quasi esclusivamente scaricati su chi lavora. Che incalzi il governo ad agire non solo sul piano nazionale, ma anche quello europeo, affinché vengano rispettati e migliorati gli obiettivi climatici. Infine, per un movimento sindacale e operaio che tradizionalmente affonda le sue radici nell’internazionalismo, la ricostruzione di legami di solidarietà transnazionali dovrebbe costituire un pilastro fondamentale della propria strategia. La retorica, fin troppo diffusa anche in ambiti sindacali e di sinistra, del dover «riportare le produzioni in Italia» non va al cuore del problema, e rischia di generare una guerra tra lavoratori e lavoratrici di paesi diversi, piuttosto che tessere legami di solidarietà tra loro.
È senz’altro fondamentale chiedere e ottenere garanzie in materia di allocazione di produzioni per ogni stabilimento, ma il punto è l’urgenza di un’azione collettiva a livello sovranazionale per uniformare le condizioni lavorative e salariali verso l’alto. Si disinnescherebbero in questo modo meccanismi di dumping sociale e ambientale che generano ingenti profitti per il capitale ma danneggiano tanto le lavoratrici e i lavoratori che subiscono le delocalizzazioni quanto le operaie e gli operai di paesi come Serbia, Polonia, Marocco e Algeria, costretti a salari bassissimi e condizioni lavorative indegne. Insomma, partendo dall’esperienza di solidarietà con l’Uaw, che si è ulteriormente consolidata con la presenza dei rappresentanti del sindacato americano in piazza, tutti i legami sindacali transnazionali vanno ricostruiti e rilanciati. Nel capitalismo globale e finanziarizzato del XXI secolo, è impossibile pensare che gli strumenti nazionali possano essere sufficienti a indirizzare l’azione di un gruppo automobilistico che opera globalmente. L’auspicio è che la «Piazza del Popolo dei metalmeccanici e delle metalmeccaniche», come l’ha ribattezzata nell’intervento conclusivo il segretario generale della Fiom Michele De Palma, segni un nuovo inizio nel dibattito e nell’azione sindacale. Affinché muovere Stellantis non diventi più difficile che muovere il sole.
*Clelia Li Vigni è dottoranda in scienza politica e sociologia presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di lavoro e relazioni industriali nel settore automotive. Angelo Moro è assegnista di ricerca presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Si occupa di lavoro, sindacalismo e innovazione tecnologica. Negli ultimi anni ha partecipato a ricerche collettive sul settore dell’auto in Italia.
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