L’inventore del guerrilla journalism
Un libro ripercorre la storia e le gesta di Claud Cockburn, maestro del giornalismo britannico e comunista. Per il quale la libertà di dissentire contava più del guadagno personale
Prima di entrare per la prima volta nelle stanze del Times di Londra, nel 1929, Claud Cockburn aveva collaborato con la redazione di Berlino, il che gli aveva dato un’idea di cosa aspettarsi. Ma nonostante ciò, gli sembrò piuttosto strano che la prima conversazione che sentì fu quella di un redattore che traduceva il Fedone di Platone in cinese, mentre il suo collega recitava a memoria i passaggi rilevanti in greco. I redattori del Times, ricordava, erano solitamente nascosti dietro pile di libri, «presi a scrivere le proprie opere storiche».
Fu alle scrivanie del giornale di riferimento britannico che CK Scott Moncrieff tradusse Proust, mentre il resto della redazione lasciava le proprie macchine da scrivere per aiutarlo a trovare le frasi giuste: credo che fosse meglio che sfornare annunci su vicende municipali, per dire, in Cornovaglia. Vale a dire che i redattori del Times erano molto più interessanti dei loro lettori tipici, che, come il James Bond di Ian Fleming, erano così profondamente conformisti da non voler leggere altri giornali se non il Times.
I migliori autori d’opposizione hanno spesso iniziato la loro carriera in roccaforti dell’establishment. Come disse una volta a Claud il leggendario corrispondente del Times Willmott Lewis, «Ogni governo farà tutto il male che può e tutto il bene che deve». Quel detto divenne uno dei mantra di Claud. Restituiva sia la sua visione non sentimentale della politica che il suo senso dell’umorismo: è questa combinazione che fa di lui uno dei migliori reporter investigativi britannici, il che un secolo dopo lo rende meritevole di approfondimenti.
Cockburn non era un cinico. Pensava che la stampa, se fosse stata abbastanza dura, avrebbe potuto costringere il governo a correggere la rotta. L’esperto corrispondente estero Patrick Cockburn scrive nella sua biografia del padre, Claud, Believe Nothing Until It Is Officially Denied (Verso, 2024) che credeva che i leader politici senza «fissità di intenti» fossero «sensibili alle critiche pungenti», e che, con il giusto tipo di pressione, si sarebbero «dimostrati più malleabili di quanto fingessero di essere».
Guardando la situazione attuale, la tesi di Cockburn non può proprio dirsi confermata. I leader politici negli Stati uniti persistono nel sostenere il massacro di Israele a Gaza, a prescindere dalle «punture di spillo» che ricevono. Anche se il presidente Joe Biden, ovviamente, abbia senz’altro una «fissità di intenti» quando si tratta di uccidere i palestinesi. Come una volta disse al primo ministro israeliano Menachem Begin, «se tutti i civili venissero uccisi» non avrebbe importanza. Patrick Cockburn nota nell’introduzione che le foto dei bambini bombardati a Gaza adesso possono essere trasmesse istantaneamente al resto del mondo, ma la stampa non è meno conformista che ai tempi di Claud: si basa in gran parte su informazioni ufficiali anche se si vanta di avere una «missione professionale».
Vedere il Times dall’interno guarì per sempre Claud da quella nozione autocelebrativa. Quando prese il posto di Lewis a Washington, Lewis propose al Times di scrivere a proposito di Londra con lo stesso irriverente vigore che aveva reso così popolari i suoi dispacci statunitensi. Quella proposta, notò Claud, fu accolta piuttosto freddamente. La stampa tradizionale, in altre parole, preferisce il consenso allo scontro. Ciò forse è più evidente dai premi, conferiti tra colleghi che hanno imparato a scendere a compromessi sui propri principi, o ancora meglio, che non ne hanno mai avuti. Come ricordava Claud, forse la cosa peggiore che potesse succedere a un dipendente del Times era che «sviluppasse ‘opinioni’ su qualcosa, perché nel linguaggio del Times ‘opinione’ era un epiteto terribilmente dannoso». Non molto più di due anni dopo essere entrato a far parte del Times, Claud, nelle parole dei suoi alti papaveri, divenne «il rosso tra di noi».
Believe Nothing Until It Is Officially Denied prende il titolo da un detto di Fleet Street che Claud rese popolare, dopo aver sentito un alto rappresentante di JP Morgan, il giorno del Grande Crollo del 1929, dire che tutto sarebbe andato bene nonostante «qualche disagio negli scambi di borsa». Claud aveva talento nel trovarsi al posto giusto con le persone giuste: viaggiò nella Ruhr occupata con il suo compagno di scuola Graham Greene; andò a Oxford con la cugina Evelyn Waugh ma trascorse il suo tempo libero tra Budapest e Berlino, dove apprese una politica molto più radicale di quella delle aule rivestite di pannelli del Keble College; incontrò Al Capone a Chicago; fuggì dai malviventi di Hitler in Germania, ma poi tornò per salvare i figli di un compagno; e combatté le forze di Franco in Spagna, dove frequentò Arthur Koestler, incontrò Ernest Hemingway e aiutò WH Auden, che aveva vagato per la campagna su un mulo, a raggiungere Valencia in auto.
I biografi di solito dedicano diverse centinaia di pagine all’infanzia del soggetto, elencando diligentemente parenti oscuri, e ancora di più alla sua senescenza. È roba elettrizzante se sei il tipo di persona la cui idea di un divertente sabato sera è quella di rannicchiarsi a letto con una copia del Trattato di Maastricht. Ma Patrick Cockburn si è piacevolmente concentrato sul periodo tra le due guerre, all’apice della campagna di «giornalismo di guerriglia» condotta da Claud contro l’establishment. Claud lasciò il Times nel 1933, per il modo in cui sopprimeva le notizie che riteneva eccessivamente ostili nei confronti di Hitler, per iniziare la sua frammentaria gazzetta di opposizione, il Week. Dimettersi per una questione di principio, osserva Patrick Cockburn, non è cosa comune; sebbene i colleghi lo abbiano elogiato per questo, «pochi hanno seguito il suo esempio».
Claud lanciò il Week con pochi soldi, affidandosi a un umile ciclostile in un appartamento di Victoria ancora più umile, nel corridoio in cui si affaccendavano avvocati che minacciavano querele per diffamazione e informatori della polizia che cercavano di scoprire le fonti di Claud. L’intelligence britannica compilò un corposo fascicolo su di lui, ma invariabilmente concludeva che fargli causa sarebbe stato troppo imbarazzante. Forse impararono dal primo ministro laburista, Ramsay MacDonald, che brandì una copia del Week davanti ai corrispondenti riuniti alla London Economic Conference del 1933, sostenendo che nessuno avrebbe dovuto credere alle sue dichiarazioni pessimistiche. Questo allarmismo divenne isterico perché prima dell’intervento del primo ministro, Week aveva solo sette abbonati. Dopo di esso, come notò Claud, tutti, da re Edoardo VIII a Charlie Chaplin, lo lessero, mentre Joachim von Ribbentrop «in due diverse occasioni ne chiese la soppressione con la motivazione che era la fonte di ogni male antinazista».
I corrispondenti esteri con cui Claud aveva stretto amicizia nell’Europa centrale passavano al Week le notizie che non riuscivano a far comparire sui loro giornali. Si incontravano al Café Royal di Londra per condividerle, mentre le spie naziste gareggiavano con l’intelligence britannica per aggiudicarsi tavolini a portata d’orecchio. Norman Ebbutt, l’ex mentore di Claud, inviò da Berlino dei cablogrammi sui nazisti che il Times non avrebbe pubblicato; ciò significò che il Week divenne il giornale forse più informato della Gran Bretagna sul regime di Hitler.
Lo stesso Claud era in una posizione unica per smascherare il cosiddetto «Cliveden Set», la cricca pro-appeasement che annoverava il proprietario e l’editore del Times. Claud si oppose sia a Whitehall che a Fleet Street. Ma quella situazione non poteva durare per sempre. Quando la Gran Bretagna alla fine si schierò con l’Unione sovietica, si rese conto che la fase che Week aveva sfruttato era passata. Si ritrovò dalla parte della politica ufficiale.
Sebbene Claud fosse iscritto al Partito comunista, era amico di diversi High Tories, come il romanziere Anthony Powell e l’autore satirico Malcolm Muggeridge. Forse, suppongo, il fatto che provenisse dal tipo giusto di famiglia ha aiutato; ma, nonostante ciò, non aveva nulla del puritanesimo politico che a volte si incontra nella sinistra: sapeva come essere serio senza essere solenne. A volte i suoi amici gli chiedevano come facesse a rimanere in così stretti rapporti con così tanti esponenti della destra istituzionale. Rispondeva che misurava le persone non in base a categorie rassicuranti e convenzionali, ma in base al «test di Dreyfus». Come dice Patrick Cockburn,
Claud si chiese: se, ipoteticamente, una persona fosse stata in Francia durante l’affaire, avrebbe protestato di persona e per iscritto a favore di Dreyfus e contro i suoi persecutori? In altre parole, l’opposizione all’ingiustizia era caratteristica predominante del loro carattere e aveva la precedenza sulle loro simpatie politiche?
Un test abbastanza solido, certo, ma forse Claud si è esposto all’accusa di ipocrisia. Era rimasto, come si dovrebbe ricordare, con il Partito comunista durante i processi farsa stalinisti, anche se nel 1952 il suo amico Otto Katz è andato al patibolo a Praga, dopo aver confessato di essere al soldo della nota spia britannica, Claud Cockburn.
Poco dopo il suo ritorno dagli Stati uniti, Claud iniziò a scrivere per il Daily Worker, che lo inviò a occuparsi della guerra in Spagna. Patrick Cockburn è forse un po’ troppo rispettoso sui pezzi spagnoli di Claud. Claud ha illustrato brillantemente il coraggio delle truppe che hanno combattuto le forze di gran lunga sovrastanti di Franco, ma ha mostrato tutte le tracce di un tentativo un po’ troppo pesante di «influenza», elogiando i lealisti in prima linea per il loro «eroismo epico», riportando la linea ufficiale un po’ troppo fedelmente per essere davvero convincente. Infatti, George Orwell innescò una piccola polemica contro «Frank Pitcairn», lo pseudonimo di Claud per il Daily Worker, sostenendo che aveva calunniato il Poum, l’organizzazione di ispirazione trotskysta a cui Orwell apparteneva.
Non si può dire che Orwell si sbagliasse. Lo storico Paul Preston lo considera uno dei corrispondenti esteri meno affidabili in Spagna. Ma non solo perché ha oscurato la verità nei suoi dispacci, che non hanno nulla della sua caratteristica ironia o verve stilistica. Il suo libro, Reporter in Spain, scritto su commissione del Partito comunista britannico, è molto meglio di quanto si possa supporre, dato che è stato scritto in una o due settimane, ciò nonostante, alcuni passaggi sembrano battute artificiose di un’opera teatrale di massa: «Magnifico», fa dire a un cameriere di un «pezzo grosso» franchista. Quanto allo scontro con Orwell, Patrick Cockburn dice che in fin dei conti gli importava poco. Lo stesso Orwell disse che il «vero problema» era la guerra di classe mentre il resto era solo «schiuma». Da parte sua, Claud in seguito osservò che trovava «fastidioso proclamare all’infinito l’imminenza di vittorie che, di fatto, non si verificano».
Tuttavia, pensava che il discorso del Times sull’essere «imparziali» fosse una pura sciocchezza.
Mi sembrava che un giornale fosse sempre un’arma nelle mani di qualcuno, e non ho mai capito perché dovesse essere scioccante che l’arma venisse usata per ciò che il suo proprietario riteneva fosse il suo miglior interesse. Il giornalista assunto, pensavo, dovrebbe rendersi conto che è in parte nel mondo dello spettacolo, pubblicizzando cose, o una causa, o un governo.
Anche questo è abbastanza sensato, a patto che si sottolinei che sostenere una causa non è esattamente la stessa cosa che sostenere un governo. Inoltre, Claud pensava fosse piuttosto divertente che gli stessi che si erano gonfiati il petto per fargli la predica per aver scritto in modo propagandistico si fossero poi vantati di aver lavorato per i servizi di informazione britannici in tempo di guerra. Il che è vero, ma si potrebbe replicare che molto di ciò che ha scritto per il Daily Worker, come la maggior parte della propaganda ufficiale, non vale davvero la pena di essere letto oggi, tranne, ovviamente, per motivi di studio.
Se tuttavia si possono tralasciare i suoi articoli spagnoli, la sua autobiografia, I, Claud, merita ancora di essere letta dall’inizio alla fine. Con il suo esempio personale, ha dimostrato che il giornalismo di opposizione non deve essere noioso o cupo. Ma ha anche dimostrato che ciò ha un prezzo: è stato inseguito dai creditori per gran parte della sua vita. Il dissenso non è gratis. «Il coraggio personale e la determinazione contano molto – conclude Patrick Cockburn – così come la volontà di sopportare povertà e pericolo».
*Gustav Jönsson è un saggista e critico. Vive a Londra. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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