
Chi combatte al posto di Scurati?
L'autore di M rimpiange la smarrita identità guerriera dell'Europa. Ma a furia di maneggiare i miti bellici senza chiedersi per cosa si sta combattendo si finisce per esaltare la cultura reazionaria
Le ragioni per cui il presente della guerra deve angosciare sono opposte a quelle dette da Antonio Scurati ieri su Repubblica. «Chi combatterà al nostro posto le nostre prossime guerre?», si chiede lo scrittore. Il quale ha troppa buona coscienza, e troppo bene conosce le movenze della storia italiana a cui ha consacrato i suoi romanzi, per nascondere che la risposta suonerà inevitabilmente come un «armiamoci e partite». Eppure non si ritrae dal dire proprio questo: che l’Europa, tradita da Trump, potrà riaffermare la sua identità solo a patto di recuperare lo spirito guerriero smarrito in ottant’anni di pace e incivilimento. E di recuperare, insieme allo spirito, anche le masse di guerrieri che l’incarnino: le moltitudini «di giovani uomini (e di donne, se volete)» pronte a morire e a dare la morte per difendere l’Europa «da eventuali, future aggressioni, purtroppo sempre più verosimili (e già in atto)».
Può darsi che il fulmicotone dell’editoriale faccia suonare le sue parole ancora più raggelanti. Così com’è possibile che Scurati abbia voluto riuscire raggelante di proposito. Dopotutto, scuotere le coscienze, se occorre anche a spintoni, è uno dei classici compiti che gl’intellettuali d’un certo calibro volentieri si assegnano. Ma è un compito che, quando lo si assume, va svolto moralmente: o, se non moralmente, almeno con il senso spiccio del reale. Quello a lume del quale suonano tardivi e ipocriti gli allarmi per l’eversione trumpiana. Sul tradimento di Trump Scurati insiste:
non debbono esserci dubbi: il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America è un traditore degli amici, degli alleati e, soprattutto, dei valori secolari della sua nazione.
Purtroppo per noi, qui a essere tradita è soprattutto un’illusione, per di più colpevole e recidiva, molto coltivata dove maturano le opinioni che contano: l’illusione di chi, invece di contrastarlo con ogni mezzo, ha nemmeno tanto segretamente sperato che Trump bastonasse per bene il comune nemico interno, salvo poi credere di poterlo addomesticare al rispetto di un ordine mondiale inscalfibile. A Scurati, che queste cose ben conosce, sarà venuto in mente il modo in cui il blocco liberalconservatore ha creduto di poter ridurre il sovversivismo fascista, associandoselo nella gestione dello Stato. I paragoni vanno maneggiati con la maggiore delle cautele, ma non si può impedire alla mente di pensarli, ascoltando certi discorsi scandalizzati a scoppio ritardato.
La stessa cautela sarebbe da raccomandare anche contro l’eccessiva disinvoltura con cui Scurati compendia una specie di storia universale dell’uomo europeo in queste due frasi esemplari:
da Maratona al Piave gli europei hanno combattuto (e vissuto) fedeli a come si aspettavano che la loro battaglia (e vita) sarebbe stata narrata. Da Omero a Ernst Jünger la nostra civiltà ha pensato il combattimento armato frontale, micidiale e decisivo addirittura come proprio fondamento perché nella guerra eroica ha trovato l’esperienza plenaria, l’accadimento fatidico, il momento della verità nel quale si sono generate le forme della politica, i valori della società, si sono decisi i destini individuali e collettivi.
A Scurati non sfugge che nei due autori eletti a portabandiera dello spirito europeo, a prescindere dal problema se sia giusto o meno evocarli insieme, l’epica e il mito della guerra fanno però anche segno a come debba essere gerarchicamente ordinata, e cioè divisa, la società. Dal che dovrebbe seguire una domanda: ammesso che vi riposi conservato nella forma che a noi piace, si può ridestare ai nostri giorni lo spirito guerriero dell’Europa dagli esametri e dalle Tempeste d’acciaio, senza destare anche la pulsione a una società di guerrieri, a una società diseguale? È una domanda che un lavoratore dell’immaginario non può evitare di porsi. Soprattutto se sa bene, perché ha fatto della biografia mussoliniana materiale letterario, e anche perché ha letto Furio Jesi, che a fare gli apprendisti stregoni con i miti mobilitanti si producono le tragedie della storia.
Ma anche ammesso che questo gioco sia possibile, e non lo è, e che i suoi risultati siano desiderabili, e non lo sono, lo spirito guerriero non è l’unghia d’un dito, che ricresca in pochi giorni, e che si possa poi tagliare di nuovo quando si sia allungata troppo. È materia che si forgia in generazioni. E Scurati vorrebbe niente meno che l’avvento d’un rinnovato popolo guerriero, una palingenesi di mentalità, una cesura d’epoca, mentre ci descrive un’Europa tradita dagli alleati, in procinto di essere invasa dal nemico? Lo spirito guerriero, se così vogliamo chiamarlo, nemmeno si attiva e disattiva a comando; le armi non tacciono all’armistizio; l’onda lunga della violenza postbellica si trascina nella società per anni, per decenni; e con essa persiste una mentalità della violenza che genera altri conflitti, se il luogo della mediazione, che dovrebbe essere la politica, è disertato per incapacità o per interesse da chi dovrebbe presidiarlo.
«Mentalità della violenza»: è questo il modo molto meno affascinante di chiamare lo spirito guerriero. È la mentalità della violenza che rimpiangiamo di aver immolato all’incivilimento? O non sarà piuttosto che chi invoca il risveglio dell’Europa pugnace rimpiange non la guerra ma un’idea della guerra? L’idea per cui l’uomo dimostra il suo valore domi militiaeque, alternando la stagione al fronte e quella in patria, ma nella netta distinzione e delle stagioni e dei luoghi? Solo che la guerra contemporanea si fa diversamente: i civili e il fronte non stanno più in posti separati, e insieme subiscono le devastazioni della guerra tecnologica che anche Scurati ben descrive nel suo articolo. Dalle guerre novecentesche, almeno a quanto è dato saperne, non si è più tornati indietro. E forse il desiderio della pace si capisce meglio guardando agli effetti della guerra, oltretutto diffusi in mondovisione, piuttosto che intavolando discorsi, per loro natura sempre un po’ aleatori, attorno al carattere degli europei: o degli americani, o dei russi, o dei cinesi.
Eppure una chiave per affrontare molto più pragmaticamente il problema che affligge Scurati ci sarebbe.
Chi combatterà le nostre prossime guerre? Anzi, meglio: chi combatterà al nostro posto le nostre prossime guerre?
Esordisce così lo scrittore della vita di Mussolini. Dunque sa benissimo di essere tra quelli che le guerre le concepiscono («le nostre guerre»): le concepiscono magari come la più amara delle necessità, ma non le combattono («chi combatterà al posto nostro»?). In un’iconografia da Prima Guerra Mondiale, sarebbe al più l’intellettuale chiamato a far propaganda presso la truppa (a produrre senso, scriverebbe lui), non il soldato di trincea che spedisce le lettere straziate dal fronte. Avverte che tutta la sua concione ne è invalidata, e forse per questo s’inerpica in un discorso tanto tonante sulla smarrita identità guerriera dell’Europa: un discorso tanto intriso nella cultura di destra, pure se Scurati non appartiene a quella cultura (si sente magari più vicino alla tradizione dell’interventismo democratico).
Insomma si chiede, Scurati, perché non andiamo più a cercar la bella morte, ma evita di darsi le due risposte più ovvie che si dovrebbero trarre dalla lezione dell’antifascismo, che pure cita ad autorità di questo suo appello alla guerra. Una, lo abbiamo detto, è che la ripulsa della guerra è direttamente proporzionale alla conoscenza dei suoi effetti, ed è certo che noi oggi abbiamo della guerra una percezione non diretta, ma comunque molto meno mediata che in passato. La seconda, e più importante, è che gli antifascisti non hanno preso le armi, e i civili disarmati non hanno fatto da rete agli armati, per adesione a un archetipo eroico: per qualcuno sarà anche stato così, ma non è di sicuro questo a qualificare la Resistenza al nazifascismo. Lo hanno fatto animati sì, e grandemente, dalla necessità di farla finita con fascisti e tedeschi, ma anche perché intravedevano davanti a loro la possibilità di una società nuova, di un domani diverso, magari anche di una politica a cui finalmente essere abilitati. L’Europa politica, sempre più sospinta alla guerra dalla fase attuale del capitalismo, offre ora qualcosa di paragonabile ai suoi cittadini? Forse è bene partire da questa domanda, prima di rispolverare alla bisogna gli autori della rivoluzione conservatrice, e di trarre dalle loro pagine il personaggio dell’Europeo guerriero: con il rischio che, traendo, ci resti in mano anche qualche pezzo di pensiero reazionario.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki insieme a cui ha scritto La morte, la fanciulla e l’orco rosso (Alegre, 2022). È autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023).
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