Allarme bianco a Hollywood
Il dibattito scatenato dal temporaneo ritiro dalla piattaforma Hbo di «Via col vento» permette di indagare il ruolo storico del cinema a stelle e strisce nel perpetuare l’ideologia del suprematismo bianco
«C’era una volta una terra di cavalieri e di campi di cotone chiamata il Vecchio Sud… Qui, in questo bel mondo la galanteria fece il suo ultimo inchino… Qui per l’ultima volta furono visti i cavalieri e le loro dame, il padrone e lo schiavo. Cercate quel mondo soltanto nei libri, perché non è altro che il ricordo di un sogno, di una civiltà andata via col vento».
Queste parole, incipit del romanzo di Margaret Mitchell Via col vento (1936), danno inizio anche all’omonimo film di Victor Fleming (1939), scorrendo sullo schermo subito dopo i titoli di testa. A sua volta una scena di quel film fa da incipit a The Blackkklansman (2018) di Spike Lee: una lunga inquadratura il cui totale ristretto, inizialmente focalizzato su Rossella O’Hara che si aggira tra morti e feriti, si allarga progressivamente su migliaia di corpi a terra, con l’entrata in campo in primissimo piano, quando l’immagine dà l’impressione che non ci sia fine a quel cimitero, della bandiera sventolante della Confederazione. È l’ecatombe di soldati sudisti dopo la battaglia di Atlanta della guerra di Secessione (1861-65).
John Ridley, Spike Lee e la supremazia bianca del cinema
Se fino a qualche giorno fa molti giovani e giovanissimi si sarebbero potuti chiedere da dove arrivasse quella scena, nessun dubbio avrebbe avuto invece la maggior parte del pubblico internazionale più maturo che alla visione di Via col vento ha ceduto ben più di una volta. Oggi, dopo le polemiche su «censura sì censura no» scatenate dal suo ritiro temporaneo del film dalla piattaforma Hbo, ritiro sollecitato dal co-sceneggiatore di 12 anni schiavo John Ridley in un editoriale sul Los Angeles Times insieme alla richiesta di preparare un’introduzione che ne spieghi il contesto storico, una nuova attenzione è stata attirata su quel film. Via col vento potrà quindi godere in futuro di un pubblico ancor più numeroso, gran parte del quale potrà però usufruire di una visione più consapevole di quella avuta finora.
Tra le motivazioni della richiesta si legge che il film «romanticizza la Confederazione tanto da continuare a legittimare l’idea che il movimento secessionista è stato qualcosa di più, o di migliore, o di più nobile di quello che è stato, ossia un’insurrezione sanguinosa per mantenere il diritto di vendere e comprare esseri umani». Grazie al gesto provocatoriamente plateale di Ridley, quell’opinione, da decenni condivisa soprattutto in ambito intellettuale, stimola ora una riflessione collettiva molto allargata non solo su Via col vento, che John Ridley e Spike Lee utilizzano come emblema di centinaia di altri film, ma soprattutto sul ruolo fondamentale avuto dal cinema nel perpetuare l’ideologia della supremazia bianca che permea la società statunitense.
Il razzismo degli «antirazzisti» alla Amy Cooper in Central Park
Un concetto quest’ultimo che vale non solo per coloro che oggi trovano in Donald Trump il loro presidente ideale, ma anche per molti bianchi che si autocertificano come non razzisti e liberal. Non c’è migliore esempio del recente episodio di Amy Cooper che, nel giorno in cui George Floyd veniva ammazzato a Minneapolis, si accaniva a Central Park contro Thomas Cooper, il birdwatcher nero, casualmente suo omonimo, che aveva «osato» chiederle di mettere il guinzaglio al suo cane secondo le regole del parco. L’insistenza sul termine «afroamericano» strumentalmente ribadito da Amy prima nella minaccia di chiamare il 911 rivolta a Thomas, che precauzionalmente si era messo a riprendere la scena col telefonino, e poi nell’escalation di isteria durante la telefonata, indicano una verità ben esposta da Van Jones. Ossia come i neri debbano preoccuparsi proprio di persone come lei, «la liberal bianca sostenitrice di Hillary Clinton che porta a spasso il cane a Central Park», che si dichiara antirazzista ma che, al minimo cenno di fastidio con un nero, si comporta «come se fosse stata educata dalla nazione ariana. Un membro del Ku Klux Klan non sarebbe stato addestrato meglio per fare una telefonata e dire alla polizia: è un nero».
Non censura ma riequilibrio di verità censurate
A dispetto di coloro che hanno urlato alla censura, la richiesta di Ridley è esattamente il suo inverso, in quanto è volta a riequilibrare verità troppo a lungo ignorate, falsificate e censurate. C’è da augurarsi dunque che Gone with the Wind venga rimesso in circolazione quanto prima intatto in tutti i suoi aspetti, dato che anche la minima modifica o rimozione potrebbe alterare, magari addolcendole, le falsificazioni del Revisionismo della Causa Persa del Sud che ne stanno alla base.
C’è anche da augurarsi che l’introduzione non si limiti a sottolineare solo i tratti più appariscenti di cui si è parlato tanto in questi giorni, come lo stereotipo della governante nera, grassa, stupida e dalla parlata ridicola incarnata da Mami (interpretata da Hattie McDaniel, prima nera a vincere il premio Oscar e discriminata durante molte cerimonie e anteprime del film), ma anche aspetti più sottili. Uno tra i tanti, ad esempio, il fatto che il buon Ashley, di cui Rossella è o crede di essere innamorata, sia un membro del Ku Klux Klan. Sebbene nel film non si faccia mai esplicito riferimento alla setta, né si vedano cavalieri incappucciati, l’allusione alla spedizione a cui Ashley partecipa con altri confederati, e fatta passare come un atto di eroismo, altro non è che uno dei feroci attacchi del Klan o dei tanti squadroni razzisti che in esso sono confluiti.
The Blackkklansman di Spike Lee e Nascita di una Nazione di D.W.Griffith
Il riferimento al Ku klux klan ci riporta nuovamente a The Blackkklansman e non solo perché la vicenda di superficie del film, liberamente tratta dal libro di Ron Stallworth Black Klansman, sia quella di un poliziotto nero che verso la fine degli anni Settanta si infiltra nel Ku Klux Klan avendo poi bisogno di un alter ego bianco che vada agli incontri della setta, ma anche per le frequenti citazioni di Birth of a Nation (1915) di David W. Griffith.
Con quel film Spike Lee ha un conto aperto fin dagli studi alla scuola di cinema, quando lamentava gli elogi e le analisi che i professori gli riservavano senza mai citarne il razzismo, il falso storico e l’enorme responsabilità per la rinascita del Ku klux klan. Non a caso proprio da studente Spike Lee realizzò un cortometraggio di 20 minuti intitolato The Answer, nel quale un membro del Ku klux klan offre a un regista afroamericano 50.000 dollari per girare una sua versione di Nascita di una Nazione.
Se è vero che un film è spesso in grado di raccontare la storia meglio di ore passate sui libri, è anche vero che quando un film ribalta la realtà e poi viene visto da milioni di persone, i danni che può causare sono indicibili. Questo è stato il caso appunto di Birth of a Nation che, presentando i membri del Klan come nobili e coraggiosi cavalieri pronti a intervenire per proteggere i cittadini bianchi del sud dalla brutalità criminale degli ex-schiavi e per salvare le donne bianche dalla loro lussuria, ha contribuito alla sua terribile seconda ondata, complici un fanatico razzista di nome William Joseph Simmons e il presidente Woodrow Wilson.
Il Grande Mago del Ku klux klan W.J.Simmons e il presidente Woodrow Wilson
Ispirato dalla visione del film e dall’invenzione coreografica di Griffith delle croci infuocate, che non facevano parte dei rituali originali della setta, nel giorno del Ringraziamento del 1915 Simmons salì in cima allo Stone Mountain in Georgia, successivamente diventato il più grande monumento celebrativo della causa sudista (una sorta di Monte Rushmore della Confederazione) e oggi più che mai oggetto di contestazione. Lì Simmons e una quindicina di vecchi e nuovi adepti rifondarono il Ku Klux Klan, che era stato dichiarato organizzazione terroristica e messo fuori legge nel 1871 dal presidente Ulysses Grant. Il momento clou fu l’incendio notturno di una croce molto alta, in modo che fosse visibile anche a chilometri di distanza, cerimonia che diede inizio alla tradizione tuttora in uso. Simmons codificò principi, rituali e gerarchie del Ku klux klan nel libro Kloran, autoproclamandosi Grande Mago Imperiale dell’Impero Invisibile dei Cavalieri del Ku Klux Klan.
Il presidente Wilson invece, ex-rettore dell’università di Princeton, autore di testi storici revisionisti e amico di Thomas Dixon, l’autore dei due romanzi, The Leopard’s Spot e The Clansman, su cui si basa Nascita di una nazione, definì il film, infarcito di didascalie razziste tratte dalla sua History of the American People, «la storia raccontata col fulmine», aggiungendo «peccato che sia tutto assolutamente vero». La proiezione in pompa magna che organizzò alla Casa Bianca contribuì alla fama del film, all’affiliazione al Klan di milioni di persone in tutta la nazione e alle inaudite violenze perpetrate sui neri in tutti gli anni Venti del novecento.
Da Via col vento al corto Three Brothers: Radio Raheem, Eric Garner, George Floyd
Se la storia romanzata di Ron Stallworth è la vicenda di superficie di The Blackkklansman, a costituire la vera anima del film sono le digressioni che Lee inserisce per tutto il film. Erede del patrimonio morale e spirituale lasciato dall’intellettuale afroamericano James Baldwin (1924-1987), e in linea con la sua convinzione che «il presente è il passato», Lee approfitta di scene solo apparentemente fuori contesto o abilmente inserite nella trama, per segnare un filo temporale che collega il passato al presente.
Al significativo utlizzo di Gone with the Wind come «establishing shot» (inquadratura iniziale che per convenzione caratterizza l’ambientazione, l’atmosfera o l’elemento che fa da presupposto al film), fa subito seguito un salto temporale di circa cento anni con uno spettacolare cameo di Alec Baldwin. Nei panni di un professore ultrarazzista della fine degli anni Cinquanta, Baldwin commenta, in una grottesca escalation di insulti furibondi, i primi tentativi di integrazione scolastica successivi alla sentenza della Corte Suprema Brown vs Board of Education (1954). Queste sequenze iniziali si collegano idealmente alla scena finale del film che, introdotta da uno degli originali carrelli che caratterizzano la filmografia di Spike Lee, ci porta nel cuore delle vicende di Charlottesville del 2017 con un montaggio documentaristico di sconvolgenti immagini di repertorio.
Oggi al finale originale di The Blackkklansman potrebbe essere aggiunto il breve corto che Spike Lee ha rilasciato in questi giorni intitolato Tree Brothers: Radio Raheem, Eric Garner, George Floyd. Un minuto e mezzo in cui Lee alterna immagini degli omicidi di Eric Garner, ucciso soffocato dalla polizia sei anni fa, di George Floyd e di Radio Raheem, uno dei personaggi creati per Fa’ la cosa giusta (1988), l’innocuo ragazzo nero che circolava sempre con una di quelle radio con gli altoparlanti in voga in quegli anni e che viene brutalmente soffocato con un bastone premuto davanti al collo da un poliziotto bianco. «Will History Stop Repeating Itself?» è la domanda in sovrimpressione che non ha bisogno di risposte.
Da Stokey Carlmichael a Harry Bellafonte
Una delle digressioni interne volte non solo a segnare importanti tappe della storia del razzismo Usa, ma anche a portare avanti il discorso meta cinematografico sulle colpe del cinema nel fomentare o mantenere l’odio razziale, è la scena della conferenza del famoso attivista afroamericano Kwame Ture alias Stokely Carmichael.
Stallworth, interpretato da John David Washington (figlio di Denzel), vi assiste in borghese per svolgere l’incarico di tenere sotto controllo gli attivisti del movimento Black Power, ma quel che sente e vede si trasforma in una tappa decisiva nel suo percorso di crescita intellettuale e di consapevolezza sui meccanismi razziali. Nel suo discorso il leader nero amico di Martin Luther King e di Malcolm X si riferisce al cinema più o meno nello stesso modo in cui già aveva fatto James Baldwin:
«Da ragazzo andavo alle proiezioni del sabato mattina a guardare Tarzan. E il bianco Tarzan picchiava i nativi neri e io me ne stavo lì seduto a urlare: “Uccidi la bestia, uccidi i selvaggi, uccidilo, uccidilo, uccidilo!”, ma ciò che urlavo veramente era “uccidimi!”».
Ma la parte del leone sulle responsabilità del cinema la fa Nascita di una nazione. In particolare la lunga sequenza di montaggio alternato in cui il personaggio interpretato dall’ultranovantenne Harry Bellafonte racconta ai giovani intorno a lui dei linciaggi provocati da quel film, mentre in una sede del Klan si esulta alle scene di violenza durante la sua proiezione, è una delle scene più toccanti e rabbrividenti che il cinema abbia mai prodotto.
Thaddeus Stevens da Birth of a Nation a Lincoln di Steven Spielberg
Per dare una conclusione a un discorso che potrebbe essere infinito, scegliamo Thaddeus Stevens, il grande uomo politico appartenente all’ala radicale del Partito Repubblicano, quel Grand Old Party che oggi non ha più nulla a che fare il partito fondato da Abraham Lincoln.
In Birth of a Nation, Griffith gli dà il nome di Austin Stoneman, pur rendendolo riconoscibilissimo perché zoppo e convivente della sua schiava nera, ritratta nel film come una perfida donna in cerca di vendetta. Stigmatizzato come un ipocrita arrivista, fomentatore delle vendette dei neri verso i bianchi, ma che al contempo picchia il suo ex pupillo mulatto quando gli chiede la mano di sua figlia, Thaddeus Stevens fu al contrario l’uomo che più di ogni altro si battè strenuamente non solo per i diritti dei neri (a lui si devono il 14° emendamento e buona parte del 15°, varato poco dopo la sua morte nel 1868), ma anche per quelli dei nativi americani e dei lavoratori in generale, per i quali tentò di introdurre senza riuscirci la giornata lavorativa di otto ore. A lui va anche gran parte del merito della trasformazione in 13° emendamento dell’Atto di Emancipazione degli schiavi, l’ordine esecutivo che Lincoln aveva emanato in piena guerra civile il primo gennaio 1863.
Nonostante la statura morale e politica di Stevens il cinema non solo ne ha fatto il cattivo in Birth of a Nation ma, pur mitigandone la totale negatività, ne ha dato un’altra immagine falsa anche in Tennessee Johnson (1943) di William Dieterle. Il film, che celebrava la presunta grandezza di uno dei peggiori presidenti della storia americana (quell’Andrew Johnson razzista convinto che successe a Lincoln e che fu il primo presidente per il quale si chiese l’impeachment), è solo un altro degli innumerevoli esempi delle falsificazioni della storia operate dal cinema. Tra i personaggi illustri che ne chiesero, inutilmente, la distruzione ci fu anche il grande Vincente Price.
Bisognerà aspettare il 2012 con il Lincoln di Steven Spielberg perché a Thaddeus Stevens, interpretato da Tommy Lee Jones, venga finalmente riconosciuta la statura morale e politica che gli appartiene. Spielberg gli dedica un ruolo di rilievo, soprattutto mettendo in scena il potente discorso sull’uguaglianza che Stevens pronunciò poco prima del termine della Guerra Civile affinché il Congresso, ancora formato solo da Unionisti in teoria favorevoli all’abolizione degli schiavi ma in effetti non disposti a considerare i neri uguali ai bianchi, passasse il 13° emendamento prima del rientro nell’Unione degli ex Stati della Confederazione.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue da tre anni la Political Revolution di Bernie Sanders.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.