Apocalittici e messianici
Politica e movimenti al tempo della pandemia: di qua i catastrofisti dello stato d'eccezione, che banalizzano la biopolitica, di la gli ottimisti del ritorno dello stato, che semplificano il senso del pubblico. In mezzo lo spazio dei conflitti
Non è passato nemmeno un mese dalla comparsa della pandemia in Europa, ma sono già innumerevoli le prese di posizione sugli aspetti politici di Covid-19. È impossibile seguire il ritmo di questa produzione, che ha già i suoi generi e sottogeneri (dagli editoriali ai diari di quarantena, dai volantini ai meme). Esiste però un capitolo specifico della letteratura sul Coronavirus, quello del dibattito «a sinistra», che merita particolare attenzione. Si tratta di riflessioni volte prima di tutto a riempire un vuoto diffuso, oppure a propagandare nuove istanze e prassi che si stanno diffondendo nella società (leggi: reddito di quarantena, scioperi spontanei, mutuo soccorso ecc.). Ma nemmeno mancano slanci profetici, analisi drasticamente ciniche e diagnosi sulle malattie dell’Occidente capitalistico.
In questa messe di testi possiamo, per comodità, individuare due atteggiamenti: quello degli apocalittici e quello dei messianici. Questa polarità in realtà non è così netta, e sicuramente non ricalca le linee di demarcazione tra le differenti culture politiche (anarchiche, comuniste, socialdemocratiche; o partitiche, sindacali e antagoniste). Sembra anzi che senso dell’apocalisse e messianismo convivano come estremi opposti – ma complementari – in un momento di bipolarismo di massa e di chiliasmo collettivo.
Capofila indiscusso degli apocalittici è Giorgio Agamben, che ha prontamente ripreso la nozione schmittiana di «stato di eccezione» per criticare i pesanti programmi di profilassi introdotti dal governo. Secondo Agamben, la «supposta epidemia» sarebbe un’occasione – pari a quella del terrorismo – per introdurre disposizioni fortemente restrittive delle libertà personali (limitazione della mobilità, sorveglianza attiva della quarantena, divieto di manifestare). Il carattere sproporzionato delle misure governative – alimentate dalla paura di un corpo politico completamente passivizzato – risponderebbe quindi a una logica di impoverimento delle relazioni affettive, sociali e politiche, aprendo la strada a un’ulteriore atomizzazione della società e alla mediazione tecnologica dei legami interpersonali.
Le strade vuote, l’ossessione per il contagio, le forme poliziesche della sorveglianza, i continui richiami a «difendere la società» non possono che intrigare i teorici della biopolitica. Ormai del paradigma biopolitico si è abusato a tal punto da rischiare di sottrargli buona parte dell’efficacia interpretativa: dall’analisi nel lungo periodo delle forme del potere, contestuali all’affacciarsi della modernità politica (e industriale), si è passati a una scansione frenetica di continui stati di eccezione determinati dalla decisione sovrana. La versione apocalittica estrema approfondisce questa tendenza, in un momento in cui si moltiplicano norme simili in tutti i paesi colpiti dal Coronavirus.
Eppure, la considerazione di ciò che è avvenuto in Cina sembra dare ragione agli apocalittici. Centralizzazione del potere, tecno-governo di un’intera regione di 11 milioni di abitanti, introduzione di droni e sistemi di sorveglianza per il rafforzamento della profilassi: ce n’è abbastanza per far tremare tutti, non solo gli strenui difensori delle democrazie liberali (che però da qualche settimana hanno curiosamente cessato di attaccare il «totalitarismo» cinese). Poco importa che i più acuti studiosi della situazione cinese abbiano sostenuto il carattere ambivalente della mobilitazione contro l’epidemia, che si declina come un cambio di passo nella strategia di crescita e nel rapporto tra scienza e politica. Qualcosa di più (e di meno) di un’immensa prigione a cielo aperto, insomma.
In effetti, i ragionamenti più perspicui sulle trasformazioni della governance non si limitano a considerare la diffusione di strumenti e dispositivi repressivi, ma tentano di trarre qualche lezione dal confronto tra diverse forme di gestione dell’emergenza. Il problema di questi esercizi è che molto spesso sono superati dai tempi del contagio mondiale. Le risposte dei governi europei e di quello statunitense sfuggono a ogni tassonomia semplificatoria (basata sul grado di democraticità dei sistemi politici, per esempio, o sul peso del welfare state), anche se confrontati con il «modello» cinese. Dalla risposta dei governi populisti di destra (primi fra tutti Trump e Johnson), che all’inizio sembrava volessero ostinatamente «lasciar morire» le fasce più deboli della popolazione, si è supposta l’esistenza di un modello social-darwinista – e neomercantilista nelle sue conseguenze economiche – di gestione della crisi, che però è stato presto superato dagli eventi.
Non più apocalittiche, ma pessimistiche (a ragione) sono le analisi dello scenario economico. David Harvey ha ben delineato le cause e le possibili conseguenze di questa nuova crisi del modello di accumulazione neoliberale. Se la crisi finanziaria del 2008 – e in Europa quella del debito sovrano – ha insegnato a fare piazza pulita del binomio crisi-opportunità, la paralisi dell’economia reale determinata dal Coronavirus è ormai letta attraverso le lenti dei «nuovi Trenta». Se si suppone un continuo governo neoliberale della crisi e dell’emergenza, allora è inevitabile pensare che esso stia ripiegando sempre di più sullo Stato-nazione. Sembra suggerire questo esito la sospensione di Schengen, così come l’introduzione di forme di controllo della produzione e dello scambio dei beni di prima necessità sanitaria. La conversione in «economie di guerra» è per ora solo evocata nel dibattito politico, ma gli appelli alla solidarietà nazionale legittimano la mobilitazione di un fronte interno nei settori strategici, decisi sulla base di un negoziato neocorporativo tra governi, associazioni imprenditoriali e sindacati. In Europa, la Bce non può che limitarsi a sostenere questo improvvisato «keynesismo sanitario» se non attraverso la politica monetaria (forse nemmeno disposta a farsi carico «whatever it takes» dei rischi dell’indebitamento dei paesi più esposti sui mercati finanziari).
Dietro la recessione economica, inoltre, si prepara una crisi sociale di dimensioni difficilmente prevedibili. Non solo perché nessuno si sta facendo carico dei soggetti meno tutelati – come i lavoratori autonomi, parasubordinati, stagionali, a nero – o di quelli marginali (senzatetto, immigrati, carcerati, tossicodipendenti). E nemmeno perché il compattamento della comunità nazionale scarica un peso enorme sui nuclei della riproduzione sociale, cioè le famiglie – con tutti i problemi connessi, a partire dalla violenza sulle donne. Ma anche perché nessuno ha ancora ipotizzato i possibili scenari di una massiccia diffusione del virus nei paesi africani; una possibilità di fronte a cui la promessa di una salvezza legata all’appartenenza nazionale, avanzata dal populismo di destra in Europa, potrebbe più che mai estendersi al senso comune. Gerarchie interne ed esterne possono determinare forme diverse – e dilazionate nel tempo – di «collasso locale». Se a questo si aggiunge l’approfondirsi della crisi climatica, risulta difficile non dare ragione agli apocalittici.
Ma ecco che arriva il rovesciamento nel messianismo. Vale la pena rilevare che, tra questi incorreggibili ottimisti, quelli che più di tutti sembrano indulgere al messianismo ingenuo sono gli statalisti (dove per statalismo si intende una cultura politica non omogenea ereditata dalle declinazioni italiane della socialdemocrazia, ma non solo). Gli statalisti sembrano estremamente affascinati dal «keynesismo sanitario». La sanità pubblica è lo strumento più efficace di contrasto all’epidemia? È la prova che i trenta (quaranta, ormai?) anni di neoliberismo sono stati un fallimento, e che lo Stato deve tornare a farsi carico della spesa sociale – lo riconosce anche Macron! Merkel propone uno shock di 550 miliardi per l’economia tedesca? È la smentita più palese del liberismo (e forse anche dell’ordoliberalismo). L’Ue sospende il patto di stabilità? È la buona volta che ci si libera dei dettami dell’austerità. La celebre economista Mariana Mazzucato diventa consigliera di Conte? L’Iri è dietro l’angolo.
Il punto è che gli statalisti in buona parte hanno ragione. Qualcosa vorrà dire, se anche i giornalisti del Washington Post si chiedono se il Coronavirus non stia costringendo gli americani a «socializzare» il proprio pensiero – a partire dalla socialized medicine, cioè Medicare for All. Tra l’altro di socialismo da quelle parti si parla ormai da un bel po’, grazie al movimento politico di Bernie Sanders e al legame virtuoso che è riuscito a stabilire con le lotte sociali negli Stati Uniti. E tra i socialdemocratici europei, ma non solo, è ormai diventato un topos saggistico a sé il «bisogno di socialismo», cioè l’invocazione di uno spettro che non c’è per introdurre elementi di giustizia sociale, risolvere il problema della disuguaglianza e correggere le distorsioni del capitalismo. Di recente, il ministro Provenzano e lo storico Emanuele Felice si sono addirittura spinti a invocare una conciliazione tra liberalismo e socialismo, quasi una sintesi hegeliana delle due «idee» nello Stato etico (e rigorosamente liberaldemocratico). Non si sa bene quale dottor Faust possa maneggiare il filtro magico del socialismo, e dosarlo bene senza scottarsi. Ma per fortuna la dicotomia socialisme ou barbarie, che è particolarmente convincente nel caso del (Green) New Deal e ora anche della sanità pubblica, è affermata con più forza da chi non crede alle riforme «dall’alto», come i socialisti Usa.
Più reticenti di fronte all’apoteosi dello Stato, giustamente, sono gli epigoni del postoperaismo. In questo caso l’atteggiamento verso la crisi è ambivalente, ed è legato al destino dell’istanza del reddito – su cui da anni pesa un investimento teorico e politico notevole. Sotto questo profilo la crisi del Coronavirus è interessante, perché ha determinato un atteggiamento di rifiuto del lavoro (contagioso) abbastanza diffuso e ha imposto all’ordine del giorno l’erogazione di un «reddito di quarantena». Negli Stati Uniti da più parti si è ripresa l’idea di un trasferimento monetario immediato alla popolazione (nell’ordine di 1.000 dollari), che l’amministrazione Trump potrebbe concedere nelle prossime settimane. In Italia per ora questo reddito è erogato in forma complementare al welfare occupazionale o ad altri escamotages per il contenimento del costo del lavoro (come l’anticipazione delle ferie), oppure come forma di sostentamento delle piccole imprese familiari. Nei prossimi mesi capiremo se queste forme di reddito saranno funzionali al sostegno della domanda (ma di quali beni?) o se si tratterà di una forma di sostentamento una tantum. Certo è che – come già accaduto per il reddito di cittadinanza – il reddito non arriva trainato dai movimenti sociali, non ha carattere emancipativo e universalistico, né tantomeno offre alcun riconoscimento all’operaio sociale, che nella teoria postoperaista è l’ultima figura della fenomenologia del lavoro vivo.
Forse questa è l’occasione per ripensare il ruolo dello Stato anche per i più movimentisti. Renderlo nuovamente un terreno di registrazione dei rapporti di forza, immerso nel conflitto. Valutare le politiche sociali non solo come il dispiegamento di un piano per la riproduzione sociale, perfettamente sincronizzato con il piano del Capitale. Nulla rende conto del mancato accordo tra questi due livelli più del conflitto tra la Confindustria, che preme per la coazione al lavoro nel pieno dell’epidemia, e il governo, che invece è spinto a «difendere la società». Come ha lucidamente osservato Sandro Mezzadra, non è questione di schierarsi dalla parte del governo italiano; bisogna però considerare che il capitalismo è mosso da diverse logiche che talvolta possono entrare in conflitto. Da questo punto di vista la storia può aiutarci a liberarci di due concezioni opposte e insufficienti. Lo Stato sociale nel Novecento non è certamente una fase della teodicea dei diritti di cittadinanza marshalliani, né è la realizzazione dell’incontro pacifico tra liberalismo e socialismo. Ma non è nemmeno il semplice frutto di una ristrutturazione capitalistica capace di addomesticare e sopire il movimento operaio, organizzando in maniera più razionale la riproduzione sociale, e ancora meno è il risultato dell’organizzazione di un biopotere pervasivo e totalitario.
Forse è necessaria un po’ di spregiudicatezza per muoversi tra quelle disposizioni d’animo che sono il sentimento apocalittico e l’afflato messianico. Nella previsione politica, si rischia di formulare profezie che si autoavverano per il solo fatto di crederci, disperdendo energie fisiche e intellettuali. La profezia messianica accoglie il virus come occasione per fare tabula rasa delle precedenti concezioni e stabilire un nuovo ordine, o almeno arrivare alla resa dei conti con il tardo capitalismo. In alcuni casi si arriva a paragoni con la peste e con la guerra, due tra i «quattro flagelli» che secondo Walter Scheidel possono determinare la crisi di ordini sociali naturalmente basati sulla disuguaglianza. La profezia apocalittica, d’altro canto, paventa una società completamente passiva e disarmata di fronte al controllo disciplinare, alla «messa in sicurezza» e alla repressione.
Di fronte a questi due atteggiamenti (da cui nessuno è esente, probabilmente), conviene sicuramente recuperare la possibilità dell’azione politica. La società è silenziosa ma in fermento: scioperi spontanei, domande sociali nuove, contestazione del telelavoro, rifiuto del lavoro «comandato», richiesta di sospensione degli affitti – ma anche, più drammaticamente: repressione feroce delle rivolte carcerarie, delazione, insicurezza, abusi di potere, totale abbandono delle figure marginali, depressione. Pur nel clima dell’emergenza, si riaprono fronti che sembravano oggetto solo delle controriforme neoliberali, e si torna a parlare di sanità, welfare, reddito, fiscalità e giustizia sociale. La sfida è di raccogliere il surplus di immaginazione, che è la parte sana di questo triste millenarismo diffuso, per adattare la risposta al Coronavirus (e alla sua gestione) al progetto di una società oltre la pandemia.
*Alessandro Brizzi, allievo della Scuola Normale Superiore, si occupa di storia del lavoro nell’età contemporanea.
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